2023-08-05
A Napoli è il polpo il re dello street food
Non c’è nulla di più tradizionale da mangiare in strada sotto il Vesuvio: si può «bere» in piedi come sotto le bombe nel 1943 o gustare in una tazza con brodo e olio rosso piccante come se fosse tè. Cucinare il pesce è un affare da dottori e così nasce l’«ostricaro fisico».Ci sono tradizioni talmente radicate nelle storie dei popoli che contribuiscono a irrobustire una identità senza tempo e, se si va di panza e sostanza, Napoli non la batte nessuno. Nelle puntate precedenti abbiamo narrato di luoghi e atmosfere aristocratiche; stavolta viaggiamo a dimensione di vicoli. Una marcialonga partenopea in piena regola. Città di mare e, quindi, sul podio d’onore, si parte a manetta con il polpo, considerato lo street food più povero della città dei Borbone, ma in grado di soddisfare appieno ogni esigenza. Testimone nel 1943, in pieno disastro bellico, Raffaele «Papucc o’ marenaro», che ne rivoluzionò il modo di proporlo girando tra i quartieri con un carretto e offrendolo bello caldo in un bicchiere. Proposto non solo per saziare la fame atavica ma anche quale miglior metodo per curare il raffreddore. Lo si beveva, quindi, comodamente in piedi, magari irrobustito da qualche goccia di limone. In tempi più normali era patrimonio delle madri di famiglia che, con focolaretto e piccola pignatta fuori dalla porta di casa, lo offrivano a turisti e residenti come ben descritto da Matilde Serao ne Il ventre di Napoli. I polpoprofessionisti, invece, disponevano di un capace pentolone da venti litri. I tentacoli dei polpi, cioè le ranfetelle, erano legati con lo spago a un tappo di sughero, giusto per ripescarli al volo quando richiesti. Il tè di napoliTagliati a rondelle e voilà nella tazzona brodosa. Era considerato il tè dei napoletani, grazie anche a «’o russo», ovvero un olio rosso, molto piccante, che i pescivendoli locali producevano in proprio e che entrava in sinergia con il gusto lungo del pepe. Tè marino di cui, se gradito, si poteva pure chiedere il bis, ma con la ranfetella pagata a parte, per i recidivi. Polpo ben descritto da Enrico Nocera. «Un equilibrio calloso», mai troppo molle, ma neanche stopposo, ispirandosi forse a Giuseppe Marotta, uno dei più grandi cantori della napoletanità che lo aveva definito «il chewing gum dei poveri», posto che si teneva a lungo in bocca per masticarlo così da contribuire a lenire le pulsioni golose. Un grande classico sono le purpetielle alla luciana, dove si inserisce una doppia chiave di lettura, tipica della sagacità partenopea. Luciane erano le mogli dei pescatori di Santa Lucia, il quartiere per eccellenza dei pescatori. Erano loro a preparare i polipetti da servire poi in vari modi. Quanto alle purpetielle, giusto per non smentire il divertente antropomorfismo culinario degli indigeni, hanno una doppia chiave di lettura, come da copione. Per purpetielle, nel pescatoriamente corretto, si intendevano i folpetti piccoli, quindi quelli più golosi da papparsi in un sol boccone. Ma anche le giovincelle di bell’aspetto. Lasciamo al lettore la conseguente chiave di interpretazione. Tuttavia, a Napoli, mai dare nulla per scontato: ed ecco che, se girate per la città e il vostro amico vi dà di gomito per osservare «chella è ‘nu purpo», non fatevi illusioni: è riferito a donna brutta, per non dire de «’nu purpo affogato», quando è bruttissima oltre ogni speranza. Ma torniamo a tema. Tutto è partito dalle purpetielle alla luciana, ovvero un goloso guazzetto «pulposo» con aglio, olio, pomodoro, pepe e prezzemolo. Voliamo altrove a ritmo di freselle, ovvero delle ciambelline di grano duro inventate da Raffaele Di Paolo, un fornaio del quartiere Sant’Antonio Abate, agli inizi dell’Ottocento. La storia vale la sosta di lettura. A Porta Capuana vi era la tradizione della Festa della Maruzza, una zuppa di frutti di mare all’olio forte. Ma bisognava stare sul pezzo, ovvero poterla inzuppare con qualcosa che non si sfaldasse al primo morso, «così da poter gustare la salsa piccantissima senza sfaldarsi». Ed ecco che a Raffaele arriva l’intuizione giusta. Una doppia cottura. La prima per tagliare la pagnotta a rondelle e la seconda con passata in forno per togliere umidità e renderla resistente e, quindi, a prova di morso goloso. Fu un successone. Ora la freselleria Di Paolo è giunta orgogliosa alla settima generazione, ma con un lutto tra le mura. È sempre stato orgoglio di famiglia «lo criscito», ovvero il lievito madre. «Considerato un membro della famiglia. Protetto nel suo secchio e lavorato ogni giorno per dare vita a migliaia di freselle». Ebbene, durante i bombardamenti alleati, i Di Paolo dovettero lasciare in fretta e furia il loro laboratorio, abbandonando il nonno lievitato, di circa duecento anni. Gli diedero il gusto onore alla memoria con la nuova generazione, ora arrivata a settant’anni. Tutto questo si può rivivere nel Museo della fresella alla maruzzara, dove i Di Paolo sono ben felici di accogliervi per ammirare tutte le attrezzature d’epoca che hanno accompagnato il loro lavoro in questi due secoli, mantenendo la tradizione, ovvero con tutti i vari processi eseguiti ancora rigorosamente a mano, con quel tocco in più che fa la differenza. Alla fine dell’impasto della storica fresella si aggiunge il pane grattugiato residuo delle freselle avanzate dai giorni precedenti. Continuando a deambulare curiosi e golosi per i vicoli non perdetevi le pullanchelle, ma anche qui occhio alla doppia chiave di lettura. Le spicaiole, o pullanchelle, erano le pannocchie bollite per strada, da sgranocchiare in libertà tra un colpo d’occhio e l’altro a chi le vendeva che, per ovvia traslazione partenopea, erano le stesse venditrici. Tra le più famose, Catarina «’a liscia», che furoreggiava laicamente tra il popolo devoto offrendo le sue pullanchelle (cioè le pannocchie) durante la processione del Carmine, a metà luglio. Una chiave di lettura neutrale sta nelle memorie di Giovanni Artieri, negli anni Cinquanta. Con alcuni amici si aggirava attorno a piazza del Municipio, dove da sempre troneggiava la statua di Cibele, la madre di tutti gli dei. Era appena stata rimossa e, al suo posto, immantinente, si era allocata una giovane scugnizza di indubbio fascino. Al loro sguardo interrogativo, pronta la risposta: «L’hanno levata stamattina, m’ò ce stò io». Elementare Watson, a Napoli poi. L’ostricaroDa qui la marketing strategy delle belle giovani venditrici che giocavano sull’equivoco posto che, per pullanchella, oltre alla pannocchia d’ordinanza, si può anche intendere una giovane pollastrella. Ma in questo caso senza bargigli. Tanto per viaggiare d’innocenti similitudini gastrogoliardiche, è immancabile l’ostricaro fisico. Una vera istituzione lungo via Mergellina. Dal tradizionale banco di legno con tendoni ritagliati da vecchie tele di pescatori, alcuni si erano appollaiati su di una sorta di monumento barocco di marmo, con tanto di intarsi policromi e decorazioni di conchiglie assortite. Da loro si trovava il meglio offerto da Nettuno a Partenope. Ricci, ovvero «una vivida stella arancione che trasmette tutto l’aroma del mare». Cannolicchi, con limone. Vongole con vermicelli o in zuppetta. Cozze, impepate o al grattè, passate al forno con pangrattato, aglio e formaggio. Uno di questi, Peppino Capezzuto, era stato prescelto quale fornitore della Real Casa da Ferdinando II. Un giorno il nostro Peppino, di fronte all’espressione estasiata del suo mentore, si fa coraggio e balbetta: «Maestà, mi dà anc’amme un titolo onorifico?». Il Borbone di turno se la gioca con abilità. Posto che non poteva rendere barone questo volonteroso figlio di Santa Lucia, lo promuove equiparandolo al meglio della borghesia del tempo. I medici, detti allora «dottor fisico». Loro curavano il corpo, lui, più specificamente, la panza, quindi «ostricaro fisico». La chiusura del cerchio. Beppino nostro corse orgoglioso dai suoi e, da allora, del titolo di «ostricaro fisico», poterono fregiarsi i migliori tra i suoi colleghi. Non c’è che dire. I Borbone furono una monarchia a dimensione umana, tesa a valorizzare il meglio del loro popolo, tanto che «ostricaro fisico» sarà l’insegna alle spalle di Sofia Loren in Pane, amore e fantasia di Dino Risi.
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