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2019-02-09
Mr Amazon accusa Trump di ricatto per proprietà transitiva
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Ansa
In passato, il padrone di Amazon aveva finanziato delle indagini per capire come il tabloid fosse venuto in possesso di alcune foto e messaggi che fecero venire alla luce la sua relazione con la giornalista Lauren Sanchez. Stando alla ricostruzione dello stesso Bezos, il direttore del National Enquirer, David Pecker, non avrebbe preso bene la cosa e si sarebbe dunque deciso a ricattare il miliardario, minacciando di pubblicare sue ulteriori foto compromettenti se non avesse pubblicamente dichiarato che lo scoop sulla Sanchez non avesse alla base ragioni di tipo politico. Una richiesta cui Bezos avrebbe rifiutato di piegarsi, raccontando per l'appunto l'intera vicenda nel post di ieri.
Un post al vetriolo, in cui – neanche a dirlo – il padrone di Amazon non si è limitato ad attaccare il tabloid scandalistico ma ha anche voluto sottolineare la storica vicinanza di Pecker a Donald Trump, lasciando in questo modo intendere che il ricatto possa forse avere origine dalla stessa Casa Bianca. Anche perché Bezos ha voluto tra l'altro rimarcare di essere proprietario del Washington Post, storico quotidiano della capitale che notoriamente non si è mai mostrato troppo tenero nei confronti dell'attuale presidente americano. In questo senso, le dichiarazioni rilasciate nel blog mirano a presentare la questione del National Enquirer come una sorta di ripicca trumpista alle inchieste del Post. Insomma, sembrerebbe proprio che Trump abbia subdolamente agito per cercare di tappare la bocca al giornalismo libero, con l'obiettivo – tra l'altro – di occultare opachi legami che collegherebbero il presidente, Pecker e lo stesso regime saudita. Eppure forse le cose risultano un tantino più complicate di come sembrano. E questo per una serie di ragioni.
Innanzitutto, tirare in ballo Trump sull'attività di Pecker soltanto perché i due sono amici di vecchia data implica forse un abuso della proprietà transitiva: sarebbe come dire che, siccome nel 1960 il boss mafioso Sam Giancana ha aiutato John F. Kennedy a vincere le presidenziali, allora lo stesso JFK sarebbe a sua volta mafioso. In secondo luogo, se anche si volesse accettare l'argomento dell'amicizia, non dovremmo dimenticare che, da alcuni mesi a questa parte, i rapporti tra Trump e Becker non possano definirsi propriamente armoniosi. Dopo che, la scorsa estate, l'ex legale del presidente dichiarò che – da candidato – Trump aveva violato la legge sui finanziamenti elettorali per pagare il silenzio di due pornostar, Pecker accettò l'immunità da parte degli investigatori federali, proprio per fornire loro dettagli sull'accusa in questione. Inoltre, c'è anche da dire che – senza voler mettere in discussione la veridicità delle recenti affermazioni di Bezos – sembra un po' strano che un tabloid scandalistico di lungo corso come il National Enquirer commetta l'ingenuità di ricattare una vittima via mail, lasciando così nero su bianco tracce e prove che possano dimostrare la propria scorrettezza e illegalità. Infine, risulta forse anche un po' stucchevole l'immagine che Bezos vuole dare di sé: quella di editore che paga l'ostilità di "certe persone potenti". Al di là del fatto che non è ancora chiaro se, nel 2019, sia più potente Amazon o la Casa Bianca, resta comunque un dato: la progressiva politicizzazione dei media americani. Una politicizzazione da cui il Washington Post non risulta certo esente. Perché nessuno mette in discussione l'importanza di inchieste scomode e – se necessario – ostili ai potenti di turno. Ciononostante un conto è la ricerca della verità, un conto è l'accanimento a fini politici. Qualcuno si ricorda, per caso, del video in cui Trump si lasciava andare a commenti sessisti? Un video che, datato 2005, il Post diffuse una manciata di giorni prima del voto presidenziale del 2016? Per carità: l'informazione a orologeria c'è sempre stata. Ma si eviti almeno di farla passare per difesa della verità.
Del resto, l'ostilità tra Trump e Bezos non è certo una novità. Si tratta di un'acrimonia "antica", che affonda le sue radici ben al di là della questione del Washington Post. Non soltanto il fondatore di Amazon ha spesso criticato il magnate nel corso della campagna elettorale del 2016 (quando, va ricordato, era la candidata democratica Hillary Clinton ad aver ricevuto finanziamenti dai sauditi). Ma, più in profondità, lo scontro tra i due nasceva da modi opposti di interpretare l'economia e le esigenze del mercato del lavoro americano. Contrariamente a Barack Obama, Donald Trump ha sempre visto nei giganti tecnologici un pericolo per i posti di lavoro statunitensi. D'altronde, il suo elettorato di riferimento non è localizzato né nella Silicon Valley né dalle parti di Seattle: il magnate newyorchese ha raccolto voti soprattutto tra la classe operaia impoverita della Rust Belt. Una quota elettorale ben precisa, in funzione di cui l'attuale presidente ha sempre portato avanti una strenua difesa dell'industria tradizionale americana (soprattutto automobilistica).
Perché, alla fine, le divergenze di opinione sono più che legittime. Le strumentalizzazioni politiche, forse, un po' meno.
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Il rapporto tra Donald Trump e Jeff Bezos torna a farsi incandescente. Il magnate di Amazon ha affermato di aver subìto un ricatto da parte del tabloid scandalistico National Enquirer. In un post pubblicato sul blog Medium, Bezos ha infatti sostenuto che la casa editrice della testata, la American Media Inc, gli avrebbe inviato delle mail a scopo di estorsione e ricatto. Per il proprietario del Washington post ci sarebbe dietro The Donald solo per via di una vecchia amicizia.In passato, il padrone di Amazon aveva finanziato delle indagini per capire come il tabloid fosse venuto in possesso di alcune foto e messaggi che fecero venire alla luce la sua relazione con la giornalista Lauren Sanchez. Stando alla ricostruzione dello stesso Bezos, il direttore del National Enquirer, David Pecker, non avrebbe preso bene la cosa e si sarebbe dunque deciso a ricattare il miliardario, minacciando di pubblicare sue ulteriori foto compromettenti se non avesse pubblicamente dichiarato che lo scoop sulla Sanchez non avesse alla base ragioni di tipo politico. Una richiesta cui Bezos avrebbe rifiutato di piegarsi, raccontando per l'appunto l'intera vicenda nel post di ieri.Un post al vetriolo, in cui – neanche a dirlo – il padrone di Amazon non si è limitato ad attaccare il tabloid scandalistico ma ha anche voluto sottolineare la storica vicinanza di Pecker a Donald Trump, lasciando in questo modo intendere che il ricatto possa forse avere origine dalla stessa Casa Bianca. Anche perché Bezos ha voluto tra l'altro rimarcare di essere proprietario del Washington Post, storico quotidiano della capitale che notoriamente non si è mai mostrato troppo tenero nei confronti dell'attuale presidente americano. In questo senso, le dichiarazioni rilasciate nel blog mirano a presentare la questione del National Enquirer come una sorta di ripicca trumpista alle inchieste del Post. Insomma, sembrerebbe proprio che Trump abbia subdolamente agito per cercare di tappare la bocca al giornalismo libero, con l'obiettivo – tra l'altro – di occultare opachi legami che collegherebbero il presidente, Pecker e lo stesso regime saudita. Eppure forse le cose risultano un tantino più complicate di come sembrano. E questo per una serie di ragioni.Innanzitutto, tirare in ballo Trump sull'attività di Pecker soltanto perché i due sono amici di vecchia data implica forse un abuso della proprietà transitiva: sarebbe come dire che, siccome nel 1960 il boss mafioso Sam Giancana ha aiutato John F. Kennedy a vincere le presidenziali, allora lo stesso JFK sarebbe a sua volta mafioso. In secondo luogo, se anche si volesse accettare l'argomento dell'amicizia, non dovremmo dimenticare che, da alcuni mesi a questa parte, i rapporti tra Trump e Becker non possano definirsi propriamente armoniosi. Dopo che, la scorsa estate, l'ex legale del presidente dichiarò che – da candidato – Trump aveva violato la legge sui finanziamenti elettorali per pagare il silenzio di due pornostar, Pecker accettò l'immunità da parte degli investigatori federali, proprio per fornire loro dettagli sull'accusa in questione. Inoltre, c'è anche da dire che – senza voler mettere in discussione la veridicità delle recenti affermazioni di Bezos – sembra un po' strano che un tabloid scandalistico di lungo corso come il National Enquirer commetta l'ingenuità di ricattare una vittima via mail, lasciando così nero su bianco tracce e prove che possano dimostrare la propria scorrettezza e illegalità. Infine, risulta forse anche un po' stucchevole l'immagine che Bezos vuole dare di sé: quella di editore che paga l'ostilità di "certe persone potenti". Al di là del fatto che non è ancora chiaro se, nel 2019, sia più potente Amazon o la Casa Bianca, resta comunque un dato: la progressiva politicizzazione dei media americani. Una politicizzazione da cui il Washington Post non risulta certo esente. Perché nessuno mette in discussione l'importanza di inchieste scomode e – se necessario – ostili ai potenti di turno. Ciononostante un conto è la ricerca della verità, un conto è l'accanimento a fini politici. Qualcuno si ricorda, per caso, del video in cui Trump si lasciava andare a commenti sessisti? Un video che, datato 2005, il Post diffuse una manciata di giorni prima del voto presidenziale del 2016? Per carità: l'informazione a orologeria c'è sempre stata. Ma si eviti almeno di farla passare per difesa della verità.Del resto, l'ostilità tra Trump e Bezos non è certo una novità. Si tratta di un'acrimonia "antica", che affonda le sue radici ben al di là della questione del Washington Post. Non soltanto il fondatore di Amazon ha spesso criticato il magnate nel corso della campagna elettorale del 2016 (quando, va ricordato, era la candidata democratica Hillary Clinton ad aver ricevuto finanziamenti dai sauditi). Ma, più in profondità, lo scontro tra i due nasceva da modi opposti di interpretare l'economia e le esigenze del mercato del lavoro americano. Contrariamente a Barack Obama, Donald Trump ha sempre visto nei giganti tecnologici un pericolo per i posti di lavoro statunitensi. D'altronde, il suo elettorato di riferimento non è localizzato né nella Silicon Valley né dalle parti di Seattle: il magnate newyorchese ha raccolto voti soprattutto tra la classe operaia impoverita della Rust Belt. Una quota elettorale ben precisa, in funzione di cui l'attuale presidente ha sempre portato avanti una strenua difesa dell'industria tradizionale americana (soprattutto automobilistica).Perché, alla fine, le divergenze di opinione sono più che legittime. Le strumentalizzazioni politiche, forse, un po' meno.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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