2023-03-13
Mogol: «Quando ci diedero dei fascisti consigliai a Battisti di sparire»
Il paroliere: «La cosiddetta “contestazione” fu solo un’infiammazione psicologica Allora l’arte soffrì tantissimo. La Meloni? Porta l’amore per l’Italia nel mondo».I giardini di marzo si vestono ancora di nuovi colori? È passato mezzo secolo, ma resta terribilmente vero che «al 21 del mese i nostri soldi sono già finiti». La risposta tocca a chi quel verso lo ha scritto facendolo diventare patrimonio comune. Giulio Rapetti - Mogol - appena nominato dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano consigliere per la cultura popolare - se ne sta tra i boschi dell’Umbria dove ha costituito dal 1992 e alimenta con i proventi dei suoi diritti d’autore senza chiedere un euro di contributo il Cet (Centro europeo Toscolano). Lì giovani talenti esplorano l’arte del comunicare cantando. È una sorta di accademia del verso contrapposta al solipsismo del metaverso. A 86 anni suonati, nel senso letterale, Giulio Mogol va ancora in giro a fare serate per vivere: «Tu chiamale se vuoi, emozioni»! Un’emozione forte è arrivata in questi giorni. Un suo pupillo, Giuseppe Barbera, a cui lui ha «imposto» il nome d’arte di Gioni - tra i primi allievi del Cet di cui poi è diventato docente e coordinatore musicale dei corsi - ha pubblicato il suo singolo d’esordio per pianoforte. Il titolo è Rinchiuso. Quali sono i requisiti per trasformarsi da Giulio Rapetti in Mogol?«Beh ma siamo la stessa persona. Credo che sia una delle poche volte che uno pseudonimo diventa cognome. Tra l’altro me lo ha affibbiato la Siae. Avevo mandato una lista di trenta nomi d’arte che volevo per me e loro li respinsero, allora gliene ne mandai altri centoventi e scelsero Mogol. A me pareva un nome cinese, fu un profondo dispiacere. E invece... Ma c’è voluto tanto lavoro e tanto studio. Ho cominciato facendo la versione italiana di canzoni estere. Quando scrivo sento la musica. Cerco di interpretarla, se c’è un crescendo cerco il verso che lo sostiene, se c’è un accordo intimo lo plasmo con le parole che devono sempre comunicare». E per continuare a essere Mogol?«Quando senti la gente che sa a memoria i testi delle canzoni e le canta con te. Sto facendo serate con il gruppo Em0zioni, ovunque andiamo la gente sa le canzoni di Lucio Battisti, magari pensa che i versi siano suoi, ma non importa, senti che la canzone è diventata di tutti. Anche se la mia canzone che vende di più è L’Emozione non ha voce interpretata da Adriano Celentano e che ho scritto con Gianni Bella. Hanno fatto un conto: le mie canzoni hanno venduto 532 milioni di dischi, sono terzo dopo i Beatles ed Elvis Presley.»Perciò il ministro Gennaro Sangiuliano l’ha nominata consigliere per la cultura popolare?«Credo che sia perché ci si rende conto che la cultura popolare è un patrimonio unico in Italia. Mi fa molto piacere questa nomina e ne sono profondamente grato. Forse non è noto che in il 14 per cento degli italiani scrive poesie. È lì che bisogna cercare, quando la musica e il testo sono un’espressione poetica c’è un evoluzione culturale nella gente. Per saper discernere tra le canzoni che hanno molte visualizzazioni sui social e le canzoni che si radicano nella memoria delle persone serve competenza. La parola è centrale nella cultura popolare che ha mille espressioni».Lei ha scritto un’opera, che peraltro non voleva fare: ha ridato fiato al melodramma?«Il melodramma è un immenso patrimonio italiano! Ho scritto i testi de La Capinera di Gianni Bella. Per me è un capolavoro. È tratta dal romanzo di Giovanni Verga Storia di una Capinera, una storia vera. Io l’ho ammorbidita e secondo me è ancora più bella e più intensa. È la storia di una monaca che viene incolpata perché abbraccia un uomo durante la processione, la mettono in prigione. C’è un assolo in cui parla con Gesù. Il finale è drammatico perché muore di dolore davanti all’altare il giorno in cui deve prendere i voti. È vero che non la volevo fare, ma quando Gianni m’ha fatto sentire l’introduzione eseguita dall’orchestra del Regio e la melodia, mi sono commosso. È andata in scena per sette sere al Bellini di Catania e abbiamo fatto sempre sold out. Ma i soprintendenti non la mettono in cartellone perché dicono che l’hanno scritta quelli che fanno le canzonette! Noi abbiamo fatto un melodramma contemporaneo, le mie liriche sono attuali. Bisognerebbe capire questo!» Gianni Bella lo mette nel novero dei grandi degli anni 70/80, stagione felicissima?«Sì, c’è stata una stagione densa, formidabile. Mango, ho fatto con lui 15 canzoni, era di livello mondiale solo che veniva da Lagonegro, Ricardo Cocciante, Gianni Bella, ma tutto il gruppo dei cantautori».Oggi si fa ancora buona musica?«Non devo dirlo io. La cosa che so è che non ci sono canzoni memorabili, che la gente ricorda come succede con le canzoni di Lucio».Lucio Battisti oggi avrebbe 80 anni. Un incontro spigoloso il vostro?«Quando venne a farmi sentire le prime due canzoni gli dissi: non sono un granché. Mi dette ragione. Ma siccome mi era stato presentato da una mia amica non volevo respingerlo, mi diceva la coscienza di non farlo e cominciammo a lavorare insieme. Beh la terza canzone è stata 29 settembre...».Ma è vero che non voleva cantare?«Si è vero, lui voleva scrivere per gli altri. Ma io sentii che la sua voce era narrativa, dava forza al testo, che aveva una straordinaria modernità».A un certo punto ha deciso di non cantare più. Com’è andata?«Sono stato io a dirgli di non presentarsi più in pubblico. Abbiamo vissuto momenti durissimi. Tutto è partito dal fatto che Francesco De Gregori nonostante si presentasse col pugno alzato venne fischiato e contestato duramente perché aveva fatto i soldi. Aveva quella ideologia, ma non lo accettavano perché era ricco. C’è stata durante quella che si definisce “la contestazione” un’infiammazione psicologica spaventosa nel Paese. In quel periodo l’arte ha sofferto tantissimo. Io figlio di un antifascista mi sentivo dare del fascista insieme a Lucio semplicemente perché non facevamo canzoni politiche, perché non avevamo scritto Contessa. Mi angosciai e mi stupii perché facemmo un concerto al Covent Garden a Londra e ci accolsero nel silenzio più rispettoso dove la musica e le parole creavano emozioni e armonia. Mentre in Italia per aver scritto “Volando sopra un bosco di braccia tese” siamo stati accusati di fascismo. Se uno vede la copertina del disco si accorge che ci sono due braccia protese verso il cielo. Era un inno di libertà. Allora abbiamo scelto di non cantare più in pubblico. Per me è stato un dolore perché credo che la democrazia sia l’unica forma possibile di governo, basta vedere cosa fa Vladimir Putin per convincersi che alla democrazia non c’è alternativa».Non dovevamo parlare di politica, ma a questo punto una domanda va fatta: che ne pensa di questo continuo gridare al fascismo?«È un gioco politico che hanno sempre fatto. Giorgia Meloni sta facendo tutto quello che può e non so nemmeno come faccia un donnino così. Sta andando in tutto il mondo a portare e suscitare amore per il nostro Paese. È una donna d’acciaio. Quanto a me sento una forte energia e lo dico da assoluto democratico.»Da presidente della Siae ha conosciuto la politica?«Ho chiesto il rispetto del diritto d’autore. Appena sono diventato presidente, e neppure me lo aspettavo, sono andato a Strasburgo al Parlamento europeo dove sapevo che il giorno dopo avrebbero votato sul diritto d’autore. Ho incontrato le eurodeputate italiane e mi pareva che non ci dessero speranze, ma io le ho invitate a votare il provvedimento per il copy. Alla fine è passato con 340 sì e 270 no. C’erano le lobby che lavoravano contro gli autori. Come adesso ho già chiesto al ministro Sangiuliano perché non si fanno i decreti della legge sul copy che sono riuscito a far approvare in un mese da Camera e Senato e da sette mesi aspettiamo l’attuazione. La tutela del diritto d’autore è fondamentale e la minaccia è continua». In che senso?«Il pericolo viene dalle piattaforme digitali che sono quelle che usano la musica e la gettano. Perciò serve una tutela forte. Prima della Siae nacque la società degli autori francesi e andò così; tre autori pranzarono in un gran ristorante di Parigi e al momento del conto non pagarono dicendo: voi sfruttate la nostra musica e noi sfruttiamo la vostra cucina. Con i social bisogna fare la stessa cosa. Sono un danno per la musica perché non riconoscono i dritti degli artisti».Quegli artisti che lei forma col Cet? «La formazione è indispensabile. Io ci metto tutto quello che ho in questa scuola che è un’associazione no profit, non ho mai preso un euro di contributo, ma i docenti sono tutti pagati. A me interessa vedere la trasformazione dei ragazzi che arrivano preparati ma poi crescono grazie alla poesia, imparano a comunicare con la poesia. L’ho detto anche quando mi hanno invitato a tenere docenze alla Barkley e ad Harward».È in odore di Nobel?«Ma non parliamone neppure. Le candidature sono una cosa complessa. È vero che c’è chi ci ha pensato.»I giardini di marzo di vestono ancora di nuovi colori?«Credo di sì. In generale è tempo di fare gli Stati Uniti d’Europa così come in America. Ci vogliono un ordinamento giudiziario unico, un fisco unico, una politica estera unica per crescere in pace in Europa. E poi è necessario che la gente si emendi da un grosso errore che facciamo tutti. Io l’ho capito cinque anni fa quando ho cominciato a costruire la mia autostima. Dobbiamo avere due convinzioni: accettare qualsiasi cosa il destino ci riservi perché questo vale più di una preghiera; essere consapevoli che al momento di andarcene l’unica cosa che portiamo via e per la quale saremo giudicati è come abbiamo agito nella vita. Se siamo intelligenti dobbiamo dimostrare di aver vissuto degnamente. Tutto il resto è polvere».
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)