2023-09-26
La morte di Messina Denaro lascia il mistero sulle stragi e su chi prenderà il suo posto
Matteo Messina Denaro (Ansa)
Il padrino è deceduto senza fare rivelazioni sull’agenda di Borsellino né sulla fine del piccolo Di Matteo. Il successore potrebbe essere già stato designato da anni. Saranno quattro donne a cercare di far rispettare le ultime volontà del padrino di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. Tre erano al suo capezzale all’Aquila, dove era detenuto in 41 bis in attesa che la malattia lo consumasse: la figlia che non aveva mai potuto incontrare, Lorenza, nata nel 1996 dalla relazione con Francesca Alagna, che ha rinunciato al cognome della madre per prendere quello del mammasantissima solo poche settimane fa (il primo incontro con il padre è avvenuto lo scorso aprile nel carcere dell’Aquila); la nipote, che era anche il suo tutore legale e difensore di fiducia, Lorenza Guattadauro, figlia di Filippo (condannato per mafia, sta scontando l’ergastolo bianco) e Rosalia Messina Denaro (sorella di Matteo); e l’altra sorella, Giovanna, moglie di Rosario Allegra, accusato di aver preso le redini della famiglia in assenza di Matteo e morto nel 2019. Mentre la mamma ultraottantenne di Matteo, Lorenza Santangelo, moglie di don Ciccio Messina Denaro, capomafia della provincia di Trapani alla fine degli anni Ottanta e morto da latitante nel 1998, pare abbia atteso la notizia nella casa di famiglia, anche se alcune notizie diffuse dalle agenzie di stampa volevano pure lei al capezzale. È toccato a chi era all’Aquila tenere aggiornati i parenti, ma anche accertare il rispetto delle ultime richieste di Matteo: niente accanimento terapeutico, né celebrazioni religiose prima della tumulazione nel loculo, alla destra di don Ciccio, nella tomba di famiglia. Lì l’ultimo dei grandi padrini porterà con sé tutti i suoi segreti: dalle stragi del 1992 agli attentati del 1993, dall’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido per punire il papà diventato un collaboratore di giustizia, unico delitto per il quale durante il suo interrogatorio con gli inquirenti che l’hanno arrestato Messina Denaro ha affermato di non avere dato alcun ordine. Ha lasciato insoluti anche tutti i rebus sui quali da anni si arrovellano gli investigatori: dai documenti spariti dal covo di Totò Riina che, secondo il pentito Nino Giuffrè, «erano finiti a Messina Denaro», all’agenda rossa di Paolo Borsellino, che stando al controverso Salvatore Baiardo (che ha annunciato in diretta tv l’arresto di Messina Denaro) era stata consegnata proprio all’ultimo boss dei Corleonesi: «Chi l’aveva deteneva il potere», affermò, sostenendo di aver visto perfino «il passaggio di mano». E poi c’è il più grande mistero della storia dell’arte, da sempre imputato al mandamento dei Messina Denaro: il furto della natività di Caravaggio, opera trafugata nel 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo che secondo il pentito Salvatore Cangemi veniva esposta come un trofeo durante le riunioni della cupola dei corleonesi. Messina Denaro in un pizzino scrisse: «Con il traffico di opere ci manteniamo la famiglia». Un concetto che ha ribadito durante il suo ultimo interrogatorio per cercare di dare una spiegazione alle sue ricchezze. Delle quali, però, ha precisato, non sarebbe rimasto nulla. Una parte è stata sequestrata e l’altra sarebbe evaporata per pagare le spese legali dei processi e la sua costosissima e lunga latitanza. Ma probabilmente, ed è quello che sospettano gli inquirenti, Matteo, certo ormai del poco tempo che gli era rimasto, avrebbe sistemato tutto. Dai denari alla successione. «È indubbio» che la cattura di Messina Denaro, «priva Cosa nostra di una storica e rilevante figura di riferimento, accrescendo ulteriormente le sue perduranti difficoltà nel reperimento di autorevoli leadership», ha relazionato di recente la Direzione investigativa antimafia, che dopo l’arresto della Primula rossa ha registrato comunque «l’operatività» delle articolazioni di Cosa nostra «in quasi tutto il territorio dell’isola» e anche nelle «consolidate proiezioni in altre regioni italiane e oltreoceano tramite i rapporti intrattenuti con esponenti di famiglie radicate da tempo all’estero». Morto un papa se ne fa un altro. E infatti sia «in cosa nostra palermitana, come in quelle attive nelle province occidentali e orientali della Sicilia», secondo la Dia, «la prolungata assenza al vertice di una autorevole e riconosciuta leadership starebbe favorendo l’affermazione a capo di mandamenti e famiglie di nuovi esponenti che vantano un’origine familiare mafiosa». Nuovi nomi compaiono nelle informative. Ma ancora, con molta probabilità, quello del nuovo capobastone non è saltato fuori. Gli investigatori, per ora, si limitano a segnalare «i tentativi da parte di anziani uomini d’onore, recentemente ritornati in libertà, di riaccreditarsi all’interno dei sodalizi di appartenenza». E anche se ora la Sicilia appare calma, potrebbe scatenarsi la corsa a dimostrare, tra i vecchi e gli emergenti, chi è il più potente tra i capetti in circolazione. Una delle inchieste, la Hesperia, ha permesso di individuare l’elemento di vertice della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, tale Francesco Luppino, al quale sarebbe stata riconosciuta una «autorità sovra-mandamentale» anche in ragione «del suo qualificato legame» proprio con Matteo Messina Denaro, che «ha quasi immediatamente assunto e concretamente svolto le funzioni direttive nella provincia di Trapani, assicurandone l’operatività nel fedele ossequio alle regole ordinamentali di cosa nostra». Ma di nomi in corsa ce ne sarebbero molti. Giovanni Motisi del mandamento di Pagliarelli, 64 anni, detto u pacchiuni, ovvero il ciccione, che dalla Procura antimafia viene indicato come un uomo di fiducia di Totò Riina e che porta nel curriculum un ergastolo e una lunga latitanza. E poi c’è Stefano Fidanzati, 70 anni, che si muoveva tra il quartiere palermitano dell’Arenella e Milano. Ma anche Settimo Mineo, 85 anni, considerato l’erede designato di Riina. Tra i rampolli più promettenti, invece, ci sono Giuseppe Auteri, quasi 50 anni, detto Vassoio, attualmente latitante, e Sandro Capizzi, 42 anni, figlio del boss Benedetto Capizzi della famiglia di Santa Maria di Gesù. Ma il problema della governance era già emerso nel 2018, quando alcuni boss, scoprì la Procura antimafia di Palermo, avevano organizzato «un summit per far rinascere la commissione provinciale di Cosa nostra con la scelta di un nuovo capo dei capi». Che, quindi, potrebbe già essere in carica.