2022-04-16
Le mine che minacciano il governo
I partiti sono divisi sia fra di loro su temi come catasto e giustizia, sia al loro interno. Enrico Letta contro il gas egiziano: «Serve una posizione forte sul caso Regeni».Al giro di boa della primavera, probabilmente le cose non stanno come Mario Draghi se le era immaginate. L’ex numero uno della Bce deve fare i conti con una situazione politicamente complessa, nella quale tutte le riforme da lui additate come pilastri imprescindibili e qualificanti dell’azione dell’esecutivo rischiano di rimanere nel pantano. Se si eccettuano infatti i provvedimenti relativi alle grandi emergenze di questi ultimi tempi come la pandemia, il caro energia e la guerra in Ucraina (non esenti comunque da turbolenze), su quelli più strutturali le eterogenee forze politiche che sostengono l’ex numero uno della Bce faticano a trovare una visione comune. Non solo: su alcuni dossier si è anche assistito a spaccature che hanno attraversato al loro interno gli stessi partiti, il che ha contribuito ad affievolire ulteriormente l’autorevolezza del premier. Se vogliamo andare in ordine di tempo, l’ultima grana è arrivata con l’accordo siglato da Eni con l’Egitto per la fornitura di gas, funzionale al progressivo raggiungimento dell’indipendenza energetica da Mosca. Una mossa che ha scatenato la reazione negativa del segretario dem Enrico Letta, che fino a ieri era considerato praticamente un pretoriano di Draghi e ora si è appellato ai diritti umani per il caso Regeni. Qualche perplessità in merito serpeggia anche dentro al M5s, seppur con la sordina derivante dalla posizione di ministro degli Esteri Luigi Di Maio.L’altro tema caldo, per cui è difficile al momento intravedere una soluzione, è la riforma della giustizia, per la quale il via libera in commissione alla Camera significa ben poco, a fronte dell’approdo in Aula il 19 e soprattutto a quello in Senato, dove notoriamente i numeri sono più risicati e la capacità d’interdizione delle singole forze politiche è amplificata. Le prime schermaglie sugli emendamenti al testo Cartabia hanno fatto capire che il Vietnam parlamentare non è una prospettiva ma una realtà, con i renziani che si sono sfilati e Matteo Salvini in posizione attendista pronto a giocare di sponda con il referendum del 12 giugno. Qui è difficile trovare due partiti della maggioranza che la pensano allo stesso modo su un singolo punto della riforma, come il Csm, ma anche la separazione delle carriere e lo stop alle porte girevoli, dove i mal di pancia dei grillini potrebbero venir fuori al momento giusto. Potrebbe impantanarsi anche la delega fiscale, su cui Draghi ha puntato tanto da non escludere lo strumento della fiducia, assai irrituale per una legge delega. Qui i termini della questione sono chiari: il centrodestra unito è contrario a una riforma degli estimi catastali che difficilmente potrebbe non sfociare in un aumento delle tasse sulla casa. Per questo il premier ha deciso di trattare direttamente con Lega e FI, provocando però la reazione stizzita del Pd, timoroso di essere scavalcato e di lasciar intestare a Salvini e a Silvio Berlusconi lo scampato pericolo sulle tasse. L’altro tentativo di accelerazione di Draghi che non si può dire sia andato a buon fine è stato quello sulle spese militari, per le quali l’Italia si era impegnata ad allinearsi entro il 2024 alla quota di Pil spesa dalle altre nazioni europee aderenti alla Nato. Di fronte alle barricate di Giuseppe Conte, con tanto di velate minacce di crisi di governo, Draghi ha dovuto accettare di buttare la palla in avanti, fissando il termine al 2028. Il tutto sullo sfondo di una serie di questioni per le quali, pur avendo impulso dal Parlamento e non da Palazzo Chigi, è difficile non prefigurare un impatto sulla stabilità dell’esecutivo. Si parla infatti di dossier come fine vita, liberalizzazione della cannabis, ius scholae e legge elettorale, vere e proprie mine vaganti tra una Camera e l’altra.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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