2020-12-10
Milano censura i manifesti di Provita. Ma non può farlo
Il Comune ammette: «Non abbiamo il potere di rimuoverli». Però, alla faccia della democrazia, preme sul concessionario.C'è qualcosa che non torna nella storia del manifesto di Provita contro la pillola Ru486 affisso e subito rimosso a Milano nei giorni scorsi. Come abbiamo raccontato su queste pagine, il cartellone aveva suscitato il (prevedibile) sdegno della sinistra tutta, compreso quello di editorialisti in odore di santità come Roberto Saviano. Ebbene nella notte tra lunedì e martedì il grande poster è stato rimosso (anzi, sono stati rimossi i poster, visto che erano più d'uno).Di fronte a un'operazione così tempestiva, viene spontaneo pensare che esista una legge o un regolamento comunale che Provita - più o meno consapevolmente - abbia violato, attirandosi la reprimenda delle istituzioni cittadine. Invece le cose non stanno proprio così. Il Comune di Milano non ha affatto il potere di rimuovere manifesti e cartelloni. E il motivo è semplice: la censura, da queste parti, non si può esercitare. A darne conferma non è qualche pericoloso sovranista o qualche bigottone con la sveglia al collo. No, a spiegare che il Comune non può rimuovere alcunché è Roberto Tasca, assessore milanese al Bilancio e al Demanio. A una email che gli chiedeva lumi sulla vicenda del manifesto, ha riposto come segue: «È prassi che, ogniqualvolta il Comune di Milano riceva segnalazioni da gruppi nutriti di cittadini che ritengano urtata la propria sensibilità da manifesti che appaiono in città, chiami i pubblicitari espositori e segnali la cosa», ha scritto. «Non abbiamo alcun potere coercitivo o autorizzativo, come ho più volte spiegato a chi mi ha chiamato o scritto in questi giorni come in passato, ma riteniamo sia nostro dovere segnalare che una determinata affissione pubblicitaria ha suscitato profondo dissenso in una parte della nostra Comunità». A ribadire che le cose stiano così è Diana De Marchi del Partito democratico, la prima a contestare duramente il manifesto. A suo dire, «il Comune non può rimuovere i cartelloni, può però esercitare una moral suasion sul concessionario, cosa che ha fatto con decisione e rapidità». La stessa esponente dem precisa di essere al lavoro per cercare di rendere la rimozione dei manifesti «sconvenienti» ancora più rapida. Tutto chiarissimo, cristallino. Però qui si aprono alcune questioni non del tutto irrilevanti. Il Comune di Milano non ha il potere di esercitare una censura, però ha fatto pressioni sul concessionario che gestisce gli spazi pubblicitari a nome di non ben precisati «gruppi di cittadini». Dobbiamo dedurne che è una minoranza a decidere chi abbia o meno diritto di manifestare le proprie idee? A quanto pare sì. C'è poi un altro punto da prendere in considerazione. Pur non avendo il potere legale di censurare, il Comune milanese di fatto lo esercita. È difficile immaginare che un concessionario, sottoposto a pressioni da assessori e consiglieri, decida di opporsi, non trovate? Soprattutto se questo concessionario ha rapporti di lavoro piuttosto importanti con il Comune medesimo. E infatti, a una richiesta esplicita di Provita, tale concessionario ha così motivato la rimozione del cartellone: «Purtroppo abbiamo ricevuto dal Comune di Milano la comunicazione per un'urgente rimozione della vostra campagna».Capite bene che in questa vicenda c'è, per lo meno, un problema di democrazia. Femministe, attivisti e progressisti assortiti invocano la rimozione di un cartellone sgradito. Il Comune, di corsa, si attiva. Si rivolge al concessionario che gestisce le affissioni e fa pressione. Infine, il manifesto viene rimosso. Non è censura questa? Sembra proprio di sì. Ma come si concilia tutto ciò con il fatto che il Comune non abbia, per sua stessa ammissione, «alcun potere coercitivo o autorizzativo»? Il quadro è piuttosto singolare, tanto più che la sinistra milanese rivendica con orgoglio di aver agito con velocità per far rimuovere i cartelloni, e ha parlato esplicitamente di un bel «lavoro di squadra» con l'assessore Tasca. Nel frattempo, tutti i manifesti posizionati per le vie di Milano sono spariti: alcuni strappati, altri grattati via, altri ancora coperti con grandi fogli bianchi. E per quale motivo? Perché lo hanno chiesto Saviano, il Pd e un pugno di associazioni di sinistra. Eppure in Italia dovrebbe esistere ancora la libertà di espressione. E, soprattutto, esiste una legge - la 194 - che «garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Inoltre, la stessa norma precisa che «l'interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite». Ma chi vuole protestare contro la diffusione endemica della pillola abortiva - ormai presentata come un rimedio indolore per liberarsi del feto sgradito (cioè, di fatto, come un anticoncezionale) - non può farlo. Perché viene censurato da chi non potrebbe censurare.
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