Il Mes non diventi una merce di scambio per «migliorare» il Patto di stabilità

«Il cammino di Santiago». È questo l’evocativo nome assegnato al percorso negoziale per la riforma del Patto di Stabilità (Psc) che da sabato scorso - in occasione del Consiglio Ecofin tenutosi a Santiago de Compostela - è entrato nella fase decisiva.
Il ministro spagnolo Nadia Calvino – che regge la presidenza di turno – avrà infatti bisogno di forze ultraterrene, tanto sono lontane le posizioni di Francia e Germania. Ma la spagnola ha dichiarato che intende procedere a tappe forzate e la prossima passerà per Madrid tra un paio di settimane e poi Lussemburgo il 17 ottobre, quando la Calvino presenterà una nuova proposta di riforma, dopo il primo articolato presentato dalla Commissione il 26 aprile. L’obiettivo è quello di raggiungere un accordo in quella sede e cominciare già a novembre il negoziato con Europarlamento e Commissione (il cosiddetto trilogo), da concludersi giusto in tempo per la fine della legislatura.
La sensazione, che ci arriva da fonti vicine al ministro Giancarlo Giorgetti, è che alla fine l’accordo si farà, perché ogni Paese sarà riuscito a piantare la sua «bandierina», e ne scaturirà la solita intesa al massimo ribasso tipica di ogni negoziato europeo. Da una parte ci sono la Germania con i suoi soliti satelliti, che chiedono parametri numerici fissi e validi per tutti nella definizione del percorso di rientro del debito e di riduzione del deficit. Dall’altra ci sono Francia, Italia ed altri che chiedono, non da oggi, una maggiore flessibilità nella definizione delle spese soggette ai limiti del Patto. Per l’Italia si tratta di non considerare ai fini dei rapporti debito/Pil e deficit/Pil gli investimenti del Pnrr - che con sorpresa di qualche ultimo sognatore, sono debito -, quelli nella transizione ecologica e le spese militari per l’Ucraina. Ci sono anche divergenze sui poteri conferiti alla Commissione per imporre il rispetto delle regole con sanzioni realmente efficaci, da sempre considerati dalla Germania poco incisivi. Berlino teme inoltre l’eccesso di discrezionalità conferito alla Commissione nella fase di valutazione del debito e definizione della «traiettoria tecnica» di rientro, ecco perché insiste per la definizione di parametri minimi «di salvaguardia».
Sarà la prova di forza tra Parigi e Berlino a determinare, come al solito, le nuove regole per le politiche fiscali degli Stati membri.
In ogni caso, si tratta di discussioni marginali - proprio per tale motivo è facile presagire un accordo - rispetto ad una cornice che resta interamente disegnata intorno al mantra del consolidamento fiscale eseguito comprimendo quasi tutta l’indipendenza degli Stati membri. Sarà sempre più una legge di bilancio scritta a Bruxelles, anziché a Roma. La migliore testimonianza a favore dell’inutilità di tali regole è arrivata proprio dalla città di San Giacomo da cui è riecheggiato il lapidario commento del ministro tedesco Christian Lindner a proposito delle richieste di esenzione formulate da Parigi e Roma, liquidate osservando che «i mercati dei capitali non distinguono tra le motivazioni, nobili o meno nobili, per le quali si contrae il debito e l’investimento che se ne fa. Si limitano a giudicare se è sostenibile o meno». Con ciò mettendo una pietra tombale sull’efficacia a fini macroeconomici di quelle regole e svelandone il loro autentico ruolo di strumenti di arbitrio politico. Se infatti conta la valutazione degli investitori - come sottolinea Lindner - a cosa serve arrovellarsi per concepire regole astruse, difficilmente applicabili, soggette a interpretazioni discrezionali che alla fine si rivelano inutili o, peggio, con effetti pro-ciclici? Se il Psc non serve a qualcosa - cioè come strumento per il coordinamento delle politiche di bilancio degli Stati membri a fini di equilibrio macroeconomico - allora serve a qualcos’altro, cioè ingabbiare gli Stati membri e dominarne le scelte politiche. Quali che siano.
Allora la discussione sulla riforma delle regole che condurrà nelle prossime settimane Giorgetti è una battaglia di retroguardia, perché servirà nel migliore dei casi, a mitigare uno scenario che resta quello dello scorso decennio, i cui danni sono sotto gli occhi di tutti.
Che la natura e la finalità del Psc siano quelle appena descritte, è stato indirettamente confermato domenica alla festa di Italia Viva dal viceministro dell’economia Maurizio Leo, secondo il quale «il dibattito parlamentare dovrà fare luce su un possibile recepimento del Mes. Si discuterà di questo e si vedrà se potrà essere la merce di scambio per la rivisitazione del Patto di stabilità». Affermazione che è rivelatrice della comune finalità che al Mef attribuiscono ai due strumenti. Poiché il fine è comune - cioè condizionare la politica economica degli Stati membri e al Mef ne hanno esperienza diretta - allora è logico e coerente barattarli l’uno con l’altro. L’economia c’entra poco o nulla. È pura politica.
E le parole di Leo sembrano davvero una voce dal sen fuggita anche sotto un altro aspetto. Infatti rivelano che esiste (almeno al Mef) una posizione negoziale che ha già messo la ratifica del Mes nell’elenco dei punti su cui, prima o poi, si dovrà cedere e, di conseguenza, tanto vale farne merce di scambio sul fronte del Psc.
Posizione che desta enormi perplessità perché la riforma del Psc è un dossier molto più ampio e importante della ratifica del Mes. E pensare di fare di quest’ultimo una merce di scambio significa poter incidere poco o nulla sulla riforma del Psc. Insomma, si rischia di ratificare il Mes - con tutte le inevitabili fibrillazioni nella maggioranza parlamentare - e restare con le pive nel sacco sul fronte della riforma del Psc.






