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2023-01-08
McCarthy speaker: ora Kiev teme una svolta
Alla fine ce l’ha fatta: Kevin McCarthy è il cinquantacinquesimo speaker della Camera dei rappresentanti. Ieri, dopo quattro giorni e ben 15 scrutini, il deputato repubblicano è riuscito a risultare eletto, trovando di fatto un accordo con gran parte della pattuglia parlamentare ribelle, che si era opposta alla sua candidatura. Grazie alla desistenza della fronda, il quorum si è abbassato e il diretto interessato è riuscito a prevalere con 216 voti contro i 212 del rivale dem, Hakeem Jeffries.
Certo: la telenovela del voto non si è rivelata esattamente edificante. Era da 164 anni che l’elezione di uno speaker non si trascinava tanto a lungo. Inoltre, con i loro dissidi interni, i repubblicani hanno indirettamente rafforzato Joe Biden, che pure ha i suoi grattacapi da affrontare (a partire dalla crisi migratoria alla frontiera meridionale). Eppure andrebbe forse sottolineata anche un’altra cosa: al netto del caos, è così che funziona una democrazia. E, piaccia o meno, è il Partito repubblicano a essersi rivelato, ancora una volta, quello in cui si discute realmente, quello in cui l’establishment può essere seriamente sfidato (come d’altronde accadde già alle primarie presidenziali del 2016). Una situazione ben diversa dal Partito democratico, in cui - pur a fronte di grandi proclami a difesa della libertà e della democrazia - sono 30 anni che i posti di potere sono occupati sempre dagli stessi volti: Biden, Nancy Pelosi, i Clinton, John Kerry e così via.
Ma che cosa accadrà adesso? Innanzitutto il nuovo speaker potrebbe portare la politica statunitense sull’Ucraina a una (parziale) sterzata. Nonostante una piccola pattuglia di isolazionisti, la maggior parte dei repubblicani è favorevole a mantenere gli aiuti militari a Kiev. E lo stesso Volodymyr Zelensky si è prontamente congratulato ieri con McCarthy, chiedendo al contempo «ulteriore assistenza dagli Usa». Tra l’altro, proprio McCarthy, aveva avuto a dicembre parole di elogio per il discorso tenuto al Congresso dal presidente ucraino. Ciò detto attenzione: perché qualcosa sembrerebbe destinato a mutare. Era ottobre scorso, quando l’attuale speaker disse di non voler garantire «assegni in bianco» all’Ucraina. «Penso che l’Ucraina sia molto importante. Sono favorevole a garantire che andremo avanti per sconfiggere la Russia. Ma non ci dovrebbero essere assegni in bianco su nulla. Abbiamo un debito di 31 trilioni di dollari», dichiarò alla Cnbc. Inoltre, sempre a ottobre, il think tank conservatore Heritage foundation, pur ribadendo il sostegno a Kiev, ha invocato spese più oculate e una strategia maggiormente chiara: una linea che il nuovo speaker sembra intenzionato a far propria e che potrebbe (almeno in parte) impensierire Zelensky. È inoltre verosimile che McCarthy possa invocare la nomina di un supercommissario per sovrintendere al processo di invio e consegna delle armi: una tale figura era del resto stata chiesta in aprile a Biden da un gruppo bipartisan di senatori.
Attenzione poi alla politica interna. McCarthy dovrebbe quasi certamente dare il via a una serie di inchieste parlamentari, volte a mettere con le spalle al muro la Casa Bianca: dai controversi affari internazionali di Hunter Biden alla crisi migratoria, passando per la disastrosa ritirata americana dall’Afghanistan e le origini del Covid-19 (non a caso, nel suo primo discorso da speaker, McCarthy ha inserito il Partito comunista cinese tra le principali sfide che dovranno essere affrontate). Si tratta di inchieste che teoricamente potrebbero portare all’impeachment di ministri e dello stesso presidente. Inoltre, secondo The Hill, vi sarebbe l’intenzione di creare una sottocommissione per indagare sulla politicizzazione degli enti governativi: in particolare, l’idea sarebbe quella di ispirarsi alla commissione Church del Senato che, tra il 1975 e il 1976, investigò sugli abusi di Cia e Fbi.
C’è chi dice che, pur di essere eletto, McCarthy avrebbe ceduto troppo all’ala ultraconservatrice del Gop. Ora, è senz’altro vero che alcune concessioni risultano abbastanza significative (come la possibilità di invocare un voto di sfiducia contro lo speaker anche da parte di un singolo deputato). Tuttavia sentire i dem che ieri paventavano una Camera in mano ai «repubblicani trumpisti più estremisti» è abbastanza curioso. Ricordiamo che, a giugno, la deputata dem Alexandria Ocasio Cortez non solo definì «illegittima» la sentenza della Corte suprema sull’aborto, ma esortò i cittadini a «riempire le strade», sostenendo che «le elezioni non bastano più». Era invece marzo 2020, quando il capogruppo dem al Senato, Chuck Schumer, arringò una folla davanti alla stessa Corte suprema, asserendo che i giudici nominati da Donald Trump avrebbero «pagato un prezzo» per le loro posizioni in materia di interruzione di gravidanza. Comportamenti che di moderato hanno ben poco.
D’altronde, è indubbiamente vero che McCarthy dovrà faticare a tenere compatta la pattuglia dell’Elefantino alla Camera (come già accadde ai suoi predecessori repubblicani, John Boehner e Paul Ryan). Tanto più che il Gop può contare su una maggioranza piuttosto risicata (è anche per questo che, dopo essere stato eletto, McCarthy ha teso una mano al nemico interno, Matt Gaetz, ringraziando inoltre Trump per il sostegno). Tuttavia, soprattutto dal 2019, anche la Pelosi ha dovuto affrontare aspre divisioni interne al Partito democratico. In questo quadro, l’allora speaker ha spesso subito le pressioni dell’ala sinistra del suo stesso partito, contribuendo a portare l’Asinello su posizioni barricadiere. Gli scontri intestini, insomma, non sono una peculiarità dei repubblicani.
Nancy Pelosi resta senza un ruolo. Si scalda la pista diplomatica a Roma
Dopo l’elezione a speaker di Kevin McCarthy, è lecito interrogarsi sul futuro politico e istituzionale di colei che lo ha preceduto in quel delicatissimo e prestigiosissimo incarico: Nancy Pelosi. Rieletta alla Camera lo scorso novembre, è attualmente deputata semplice, dopo aver rifiutato di ricandidarsi a ruoli di leadership parlamentare. Ufficialmente il suo destino sembrerebbe quindi restare legato al Campidoglio. Eppure chissà che, tra un po’ di tempo, non decida di fare un passo indietro per venire in Italia. Magari da ambasciatrice.
Sì è vero, la diretta interessata ha recentemente smentito un simile scenario. Era lo scorso 14 novembre, quando il suo portavoce, Drew Hammill, dichiarò su Twitter: «La speaker non è interessata a diventare ambasciatrice americana in Italia. Intende continuare a servire al Congresso indipendentemente dalla sua decisione sulla leadership democratica alla Camera». Due mesi prima, il New York Post aveva riportato che l’allora speaker italoamericana stesse considerando di farsi nominare ambasciatrice in Italia da Joe Biden nel caso in cui, come poi effettivamente accaduto alle ultime elezioni di metà mandato, l’Elefantino fosse riuscito a conquistare la maggioranza alla Camera dei rappresentanti. Ricordiamo che, al momento, l’attuale amministrazione americana non ha un ambasciatore nel nostro Paese (differentemente dalla Francia che, da febbraio dell’anno scorso, ha Denise Bauer). Tra l’altro, in passato erano emerse indiscrezioni secondo cui l’ex speaker avrebbe potuto essere scelta come ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede: un’ipotesi rientrata quando Biden ha alla fine affidato l’incarico all’ex senatore dem Joe Donnelly.
Ora, la domanda è: dopo la sua lunga carriera di speaker, la Pelosi ha realmente interesse a proseguire come semplice deputata? Non è che, alla fine, nonostante le smentite, si farà nominare ambasciatrice a Roma? L’ipotesi non è poi così inverosimile, anche se due fattori potrebbero ostacolare questo eventuale scenario. In primo luogo, vista la storia politica e il profilo ideologico fortemente progressista dell’ex speaker, scegliere la Pelosi potrebbe creare delle tensioni tra l’attuale Casa Bianca e il governo italiano di centrodestra: un’eventualità che, in piena crisi ucraina, Biden può permettersi fino a un certo punto. In secondo luogo, ricordiamo che la nomina degli ambasciatori statunitensi deve essere ratificata dal Senato. Ora, è pur vero che alla Camera alta i democratici detengono attualmente la maggioranza. Si tratta tuttavia di numeri risicati. Ed è probabile che i repubblicani tenterebbero la strada dell’ostruzionismo (come già accaduto con altre nomine diplomatiche effettuate da Biden in questi due anni). Non solo: appena lo scorso 28 dicembre, il Wall Street Journal ha scritto che «la Casa Bianca non ha risposto a una domanda sul ruolo di ambasciatore in Italia».
Ricordiamo anche che, a febbraio del 2022, il sito Axios riferì che il presidente americano stesse considerando di nominare ambasciatore a Roma Stephen Robert: un ex dirigente di Wall Street, che vanta stretti legami proprio con la Pelosi. Non a caso, la stessa testata riportò che costui sarebbe stato sponsorizzato dall’allora speaker. Ora, indipendentemente dal nome di Robert, questa rivelazione lascia intendere che probabilmente, qualora non fosse direttamente lei a essere nominata, la Pelosi potrebbe avere voce in capitolo nella scelta del prossimo ambasciatore statunitense in Italia: ambasciatore, il cui nome resta per ora avvolto nel mistero.
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Il candidato repubblicano centra l’obiettivo dopo ben 15 scrutini. E Volodymyr Zelensky si affretta a fargli i complimenti. Dato che il deputato si era già detto contrario ad «assegni in bianco all’Ucraina». E potrebbe proporre un supercommissario per vigilare sugli aiuti.Nancy Pelosi resta senza un ruolo. Si scalda la pista diplomatica a Roma. Nonostante le smentite, pare difficile che la dem si accontenti di fare la parlamentare.Lo speciale comprende due articoli.Alla fine ce l’ha fatta: Kevin McCarthy è il cinquantacinquesimo speaker della Camera dei rappresentanti. Ieri, dopo quattro giorni e ben 15 scrutini, il deputato repubblicano è riuscito a risultare eletto, trovando di fatto un accordo con gran parte della pattuglia parlamentare ribelle, che si era opposta alla sua candidatura. Grazie alla desistenza della fronda, il quorum si è abbassato e il diretto interessato è riuscito a prevalere con 216 voti contro i 212 del rivale dem, Hakeem Jeffries.Certo: la telenovela del voto non si è rivelata esattamente edificante. Era da 164 anni che l’elezione di uno speaker non si trascinava tanto a lungo. Inoltre, con i loro dissidi interni, i repubblicani hanno indirettamente rafforzato Joe Biden, che pure ha i suoi grattacapi da affrontare (a partire dalla crisi migratoria alla frontiera meridionale). Eppure andrebbe forse sottolineata anche un’altra cosa: al netto del caos, è così che funziona una democrazia. E, piaccia o meno, è il Partito repubblicano a essersi rivelato, ancora una volta, quello in cui si discute realmente, quello in cui l’establishment può essere seriamente sfidato (come d’altronde accadde già alle primarie presidenziali del 2016). Una situazione ben diversa dal Partito democratico, in cui - pur a fronte di grandi proclami a difesa della libertà e della democrazia - sono 30 anni che i posti di potere sono occupati sempre dagli stessi volti: Biden, Nancy Pelosi, i Clinton, John Kerry e così via. Ma che cosa accadrà adesso? Innanzitutto il nuovo speaker potrebbe portare la politica statunitense sull’Ucraina a una (parziale) sterzata. Nonostante una piccola pattuglia di isolazionisti, la maggior parte dei repubblicani è favorevole a mantenere gli aiuti militari a Kiev. E lo stesso Volodymyr Zelensky si è prontamente congratulato ieri con McCarthy, chiedendo al contempo «ulteriore assistenza dagli Usa». Tra l’altro, proprio McCarthy, aveva avuto a dicembre parole di elogio per il discorso tenuto al Congresso dal presidente ucraino. Ciò detto attenzione: perché qualcosa sembrerebbe destinato a mutare. Era ottobre scorso, quando l’attuale speaker disse di non voler garantire «assegni in bianco» all’Ucraina. «Penso che l’Ucraina sia molto importante. Sono favorevole a garantire che andremo avanti per sconfiggere la Russia. Ma non ci dovrebbero essere assegni in bianco su nulla. Abbiamo un debito di 31 trilioni di dollari», dichiarò alla Cnbc. Inoltre, sempre a ottobre, il think tank conservatore Heritage foundation, pur ribadendo il sostegno a Kiev, ha invocato spese più oculate e una strategia maggiormente chiara: una linea che il nuovo speaker sembra intenzionato a far propria e che potrebbe (almeno in parte) impensierire Zelensky. È inoltre verosimile che McCarthy possa invocare la nomina di un supercommissario per sovrintendere al processo di invio e consegna delle armi: una tale figura era del resto stata chiesta in aprile a Biden da un gruppo bipartisan di senatori. Attenzione poi alla politica interna. McCarthy dovrebbe quasi certamente dare il via a una serie di inchieste parlamentari, volte a mettere con le spalle al muro la Casa Bianca: dai controversi affari internazionali di Hunter Biden alla crisi migratoria, passando per la disastrosa ritirata americana dall’Afghanistan e le origini del Covid-19 (non a caso, nel suo primo discorso da speaker, McCarthy ha inserito il Partito comunista cinese tra le principali sfide che dovranno essere affrontate). Si tratta di inchieste che teoricamente potrebbero portare all’impeachment di ministri e dello stesso presidente. Inoltre, secondo The Hill, vi sarebbe l’intenzione di creare una sottocommissione per indagare sulla politicizzazione degli enti governativi: in particolare, l’idea sarebbe quella di ispirarsi alla commissione Church del Senato che, tra il 1975 e il 1976, investigò sugli abusi di Cia e Fbi. C’è chi dice che, pur di essere eletto, McCarthy avrebbe ceduto troppo all’ala ultraconservatrice del Gop. Ora, è senz’altro vero che alcune concessioni risultano abbastanza significative (come la possibilità di invocare un voto di sfiducia contro lo speaker anche da parte di un singolo deputato). Tuttavia sentire i dem che ieri paventavano una Camera in mano ai «repubblicani trumpisti più estremisti» è abbastanza curioso. Ricordiamo che, a giugno, la deputata dem Alexandria Ocasio Cortez non solo definì «illegittima» la sentenza della Corte suprema sull’aborto, ma esortò i cittadini a «riempire le strade», sostenendo che «le elezioni non bastano più». Era invece marzo 2020, quando il capogruppo dem al Senato, Chuck Schumer, arringò una folla davanti alla stessa Corte suprema, asserendo che i giudici nominati da Donald Trump avrebbero «pagato un prezzo» per le loro posizioni in materia di interruzione di gravidanza. Comportamenti che di moderato hanno ben poco. D’altronde, è indubbiamente vero che McCarthy dovrà faticare a tenere compatta la pattuglia dell’Elefantino alla Camera (come già accadde ai suoi predecessori repubblicani, John Boehner e Paul Ryan). Tanto più che il Gop può contare su una maggioranza piuttosto risicata (è anche per questo che, dopo essere stato eletto, McCarthy ha teso una mano al nemico interno, Matt Gaetz, ringraziando inoltre Trump per il sostegno). Tuttavia, soprattutto dal 2019, anche la Pelosi ha dovuto affrontare aspre divisioni interne al Partito democratico. In questo quadro, l’allora speaker ha spesso subito le pressioni dell’ala sinistra del suo stesso partito, contribuendo a portare l’Asinello su posizioni barricadiere. Gli scontri intestini, insomma, non sono una peculiarità dei repubblicani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mccarthy-speaker-ora-kiev-teme-una-svolta-2659083980.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nancy-pelosi-resta-senza-un-ruolo-si-scalda-la-pista-diplomatica-a-roma" data-post-id="2659083980" data-published-at="1673132877" data-use-pagination="False"> Nancy Pelosi resta senza un ruolo. Si scalda la pista diplomatica a Roma Dopo l’elezione a speaker di Kevin McCarthy, è lecito interrogarsi sul futuro politico e istituzionale di colei che lo ha preceduto in quel delicatissimo e prestigiosissimo incarico: Nancy Pelosi. Rieletta alla Camera lo scorso novembre, è attualmente deputata semplice, dopo aver rifiutato di ricandidarsi a ruoli di leadership parlamentare. Ufficialmente il suo destino sembrerebbe quindi restare legato al Campidoglio. Eppure chissà che, tra un po’ di tempo, non decida di fare un passo indietro per venire in Italia. Magari da ambasciatrice. Sì è vero, la diretta interessata ha recentemente smentito un simile scenario. Era lo scorso 14 novembre, quando il suo portavoce, Drew Hammill, dichiarò su Twitter: «La speaker non è interessata a diventare ambasciatrice americana in Italia. Intende continuare a servire al Congresso indipendentemente dalla sua decisione sulla leadership democratica alla Camera». Due mesi prima, il New York Post aveva riportato che l’allora speaker italoamericana stesse considerando di farsi nominare ambasciatrice in Italia da Joe Biden nel caso in cui, come poi effettivamente accaduto alle ultime elezioni di metà mandato, l’Elefantino fosse riuscito a conquistare la maggioranza alla Camera dei rappresentanti. Ricordiamo che, al momento, l’attuale amministrazione americana non ha un ambasciatore nel nostro Paese (differentemente dalla Francia che, da febbraio dell’anno scorso, ha Denise Bauer). Tra l’altro, in passato erano emerse indiscrezioni secondo cui l’ex speaker avrebbe potuto essere scelta come ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede: un’ipotesi rientrata quando Biden ha alla fine affidato l’incarico all’ex senatore dem Joe Donnelly. Ora, la domanda è: dopo la sua lunga carriera di speaker, la Pelosi ha realmente interesse a proseguire come semplice deputata? Non è che, alla fine, nonostante le smentite, si farà nominare ambasciatrice a Roma? L’ipotesi non è poi così inverosimile, anche se due fattori potrebbero ostacolare questo eventuale scenario. In primo luogo, vista la storia politica e il profilo ideologico fortemente progressista dell’ex speaker, scegliere la Pelosi potrebbe creare delle tensioni tra l’attuale Casa Bianca e il governo italiano di centrodestra: un’eventualità che, in piena crisi ucraina, Biden può permettersi fino a un certo punto. In secondo luogo, ricordiamo che la nomina degli ambasciatori statunitensi deve essere ratificata dal Senato. Ora, è pur vero che alla Camera alta i democratici detengono attualmente la maggioranza. Si tratta tuttavia di numeri risicati. Ed è probabile che i repubblicani tenterebbero la strada dell’ostruzionismo (come già accaduto con altre nomine diplomatiche effettuate da Biden in questi due anni). Non solo: appena lo scorso 28 dicembre, il Wall Street Journal ha scritto che «la Casa Bianca non ha risposto a una domanda sul ruolo di ambasciatore in Italia». Ricordiamo anche che, a febbraio del 2022, il sito Axios riferì che il presidente americano stesse considerando di nominare ambasciatore a Roma Stephen Robert: un ex dirigente di Wall Street, che vanta stretti legami proprio con la Pelosi. Non a caso, la stessa testata riportò che costui sarebbe stato sponsorizzato dall’allora speaker. Ora, indipendentemente dal nome di Robert, questa rivelazione lascia intendere che probabilmente, qualora non fosse direttamente lei a essere nominata, la Pelosi potrebbe avere voce in capitolo nella scelta del prossimo ambasciatore statunitense in Italia: ambasciatore, il cui nome resta per ora avvolto nel mistero.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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