2021-12-11
Malattia uguale colpa. E in tv glorificano i redenti del vaccino
Prima Comunione ai malati di peste (DEA / A. DAGLI ORTI/De Agostini via Getty Images)
I no vax «pentiti» vengono esibiti come peccatori che hanno ritrovato la virtù. Gli altri invece meritano il Covid: una bestialità.La Cattedrale Sanitaria richiede il pentimento, poi l’espiazione. Negli ultimi giorni, quotidiani e schermi televisivi sono stati conquistati da un nuovo genere letterario: la confessione del no vax redento. C’è il genovese di 70 anni che, sulla soglia della terapia intensiva, con lo spettro della morte che gli alita addosso, invece che a Dio si rivolge al medico e implora: «Vaccinatemi subito, mi sono pentito di quello che ho fatto» (come se il vaccino - e non una cura - potesse effettivamente salvargli la pelle). C’è il medico che si è guadagnato un po’ di celebrità apparendo nelle piazze no green pass e ora si gode il secondo giro di giostra mediatica, trattato come gli ex terroristi degli anni di piombo: temuti prima, utilizzati come miniera di «rivelazioni» una volta dissociati. C’è pure il comune cittadino che, dubbioso, aveva atteso a lungo prima di farsi l’iniezione, si è ammalato, se l’è vista brutta e adesso viene esibito in prima serata mentre, per lunghi minuti, ringrazia uno a uno i medici che l’hanno salvato. Mentre il conduttore e gli ospiti lo osservano commossi e grati (per il fatto che si sia convertito, mica perché sia salvo), il malcapitato snocciola nomi e cognomi dei luminari che l’hanno curato, un po’ come in chiesa si sgranano i nomi dei santi a cui votarsi. Ritorna in voga, così, una concezione antica della patologia. In epoca premoderna, notava Susan Sontag (in Malattia come metafora), la malattia era considerata «una punizione adeguata all’oggettivo carattere morale dell’individuo». Si ammalava chi aveva suscitato l’ira degli dèi, l’arrogante a cui la piaga calata dal cielo insegnava l’umiltà. In seguito, si è cominciato a «considerare la malattia un’espressione dell’interiorità dell’individuo». Secondo la Sontag, «nel caso delle malattie moderne, l’idea romantica della malattia come espressione del carattere si estende invariabilmente fino ad affermare che il carattere è la causa della malattia». Potremmo dire che, oggi, queste due differenti concezioni si siano in qualche modo fuse. La malattia è presentata sia come una colpa sia come l’espressione del carattere del singolo. Il no vax si ammala perché fa infuriare non Dio, bensì le divinità pagane che compongono il pantheon de «La Scienza». Egli non rispetta i comandamenti, e il Covid lo colpisce per punirlo. Se però il meschino si converte, i suoi peccati vengono rimessi. Egli attraversa la terapia intensiva, che lo purifica più del battesimo. A quel punto, la colpa non grava più sulle sue spalle, ma transita: il no vax torna puro e diventano colpevoli i cattivi maestri, gli sciamani o i perfidi giornalisti che lo hanno convinto a non farsi inoculare. La malattia, l’infezione, rivela poi la più intima essenza del renitente: egli è ottuso, ignorante, cattivo, pericoloso. È egoista, perché mette in pericolo il mondo intero e grava sulle finanze altrui (anche se ha pagato e paga le tasse e dunque pure l’assistenza medica nonché, almeno in parte, il vaccino). Pensate: il no vax contribuisce persino a far aumentare la fila in farmacia, impedendo ai bambini di farsi il tampone per tornare in classe. In virtù del suo brutto carattere e delle sue tare (mentali), il renitente merita la piaga. Giusto ieri, sul Corriere della Sera, Massimo Gramellini s’indignava perché i no vax ricoverati non ringraziano i medici che si sono occupati di loro. Certo: essi sono maleducati, bestie. L’infezione fa suppurare la loro vera e odiosa natura. Il discorso dominante ruota attorno ai concetti - per nulla «scientifici» - di colpa e dovere. I quali, con tutta evidenza, sono legati a doppio filo. Il no vax non obbedisce, non svolge il compito che gli è stato assegnato (farsi la puntura) ergo viene punito dalla sorte ed espulso dal consesso dei suoi simili. Nella foga inquisitoria, passa del tutto in secondo piano il fatto che un non vaccinato non sia automaticamente un malato, così come non lo è il positivo al Covid. Abbiamo dimenticato anche che in questa nazione, almeno fino a quando non verrà istituito l’obbligo, non farsi inoculare è un diritto, e chi rifiuta la puntura non sta violando una legge, dunque non è un criminale. Un tempo, la patologizzazione e la criminalizzazione del malato erano ferocemente combattute dai progressisti, gli stessi che oggi inveiscono contro la minoranza che evita l’iniezione. Prendiamo Umberto Galimberti. Nel 2004, su Repubblica, dedicava un fitto editoriale al libro della Sontag, e ne citava un passaggio: «Non c’è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico». Subito dopo, Galimberti invitava Einaudi a ripubblicare quanto prima il testo, e a diffonderne i contenuti, «se non altro per evitare che i malati di cancro o di Aids, oltre alle sofferenze fisiche, si trovino a dover sopportare il sospetto moralistico che l’ignoranza da un lato e un insopprimibile bisogno di spiegazione dall’altro attribuiscono alle condizioni di malattia, di sofferenza, di dolore». Insomma, il noto intellettuale sosteneva - giustamente - che i malati non vanno incolpati. Oggi, invece, Galimberti si aggira per le tv a gridare che i no vax «creano malattie e morti», che sono «violenti», «al limite della pazzia». Non pago, è arrivato a dire che chi critica la gestione della pandemia dovrebbe essere silenziato. A quanto pare, il nostro eroe è stato il primo a dimenticare l’amata Sontag. Certo, qualcuno potrebbe dire: il Covid è molto diverso dal cancro o da altri mali come l’Aids. Ma il punto è che se introduciamo nuovamente il concetto di malattia come colpa, allora nessuno è immune. Il sieropositivo può essere inchiodato al comportamento sessuale sregolato, all’obeso si può imputare il diabete, al fumatore il brutto male, persino al vaccinato che si contagia si possono rimproverare comportamenti scorretti («Non avrà tenuto la mascherina!»). Dobbiamo smettere di curare il criminale che si ferisce durante una rapina? Dobbiamo picchiare il cuoco che esagera con i grassi da servire al cliente? Attenti: a seguire questa strada si finisce male, molto male. Si finisce, cioè, a stabilire che abbiano diritto di essere curati soltanto i malati moralmente puri, quelli «veri», coloro che non sono «andati a cercarsi la malattia» e hanno fatto di tutto per combatterla. In parte avviene già con la retorica sul cancro, trasformato in una «battaglia», quasi a suggerire che chi è morto non ha combattuto abbastanza. Criminalizzando e mostrificando il malato si finisce a sostenere che solo le «vittime incolpevoli del caso» meritino compassione e attenzione. Si finisce, insomma, a infierire sul fratello che mostra una pagliuzza nell’occhio. E si dimentica che, prima o poi, qualcuno noterà la trave che abbiamo nel nostro.
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