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2018-12-04
Ma a scortare la manovra c’è la cavalleria Usa
ANSA
Si sente in lontananza la tromba del Settimo Cavalleggeri. Il presidente Donald Trump in un tweet: «Il premier Giuseppe Conte sta lavorando duro per l'economia italiana e avrà molto successo». L'ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg all'Aspen Institute di Roma: «Il processo sul budget che ha intrapreso Roma è molto significativo per l'Italia, l'Unione europea e per il mondo». Le due dichiarazioni tutt'altro che di facciata dimostrano come il governo Lega-5 stelle possa contare su un alleato sempre meno occulto, sempre più interessato alle sorti del nostro Paese dopo qualche anno di pigra passività obamiana: gli Stati Uniti.
Washington ha deciso di uscire allo scoperto, evidentemente convinta che in questa delicatissima fase di trattative con l'Europa a trazione tedesca (quindi ottusamente rigorista per vocazione) l'Italia abbia bisogno di un partner di sostegno capace di incutere timore e allungare l'ombra a oscurare la vallata. Così, come mamma orsa che si staglia con tutta la sua imponenza dietro il cucciolo minacciato dal coguaro, l'amministrazione Usa ha alzato il livello di approvazione dei passi economici intrapresi da Palazzo Chigi così contestati da Bruxelles da rischiare la procedura d'infrazione.
Ieri mattina nel bilaterale «Us-Italy Dialogue» l'ambasciatore americano non si è fermato ai convenevoli, ma ha promosso la manovra e ha attribuito al nostro Paese una posizione strategica sullo scacchiere continentale. «Gli Stati Uniti vogliono raggiungere con l'Europa un accordo commerciale di successo come quelli con Canada e Messico. E in questo l'Italia può giocare un ruolo fondamentale, che non va sottostimato. La vostra è una delle economie più grandi al mondo. Non c'è mai stato un momento migliore per comprare Made in Usa e Made in Italy».
Poi l'ambasciatore, soppesando le parole, ha fatto squillare le trombe laggiù in fondo al canyon: «Se i negoziatori europei adottano l'approccio aperto dell'Italia ai negoziati, sono sicuro che sia gli americani, sia gli italiani arriveranno a un accordo giusto». Una frase un po' criptica che sta a significare tre cose: il Dipartimento di Stato non sta perdendo una sillaba dell'aspra trattativa fra Roma e Bruxelles; ritiene che la manovra espansiva voluta dal governo Conte sia più intelligente e lungimirante del solito scafandro decimale amato dagli euroburocrati; auspica che la stessa strategia dialettica venga adottata nella trattativa commerciale con gli States.
Il primo a cogliere il valore di un simile endorsement è stato il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, presente all'Aspen Institute: «Gli Stati Uniti sono a fianco dell'Italia nella sua azione a favore di una manovra economica più espansiva. Penso che quanto abbiamo sentito sia chiaro: gli Usa sono al nostro fianco perché siamo per loro un partner importante, di conseguenza quando la nostra economia va meglio questo giova all'insieme del rapporto con gli Stati Uniti, come all'insieme del rapporto con gli altri Paesi dell'Unione europea. Le notizie le dobbiamo aspettare dal ministro Giovanni Tria a Bruxelles. Per noi il negoziato è essenziale, si tratta di un negoziato fisiologico».
È bene precisare che gli Stati Uniti non si sono messi al fianco dell'Italia per puro spirito di fratellanza o solo per una consonanza politica sui grandi temi della lotta alla recessione e all'immigrazione clandestina, ma perché vedono nel governo Lega-5 stelle l'alleato ideale per arginare le pretese neocoloniali francesi in Libia e scardinare lo strapotere tedesco dentro la Ue.
L'amministrazione Trump non ha mai fatto mistero di voler depotenziare la Germania. Lo ha fatto accendendo la miccia dello scandalo Volskswagen sulle emissioni, lo ha fatto scoperchiando la botola dei titoli tossici della Deutsche Bank, lo ha fatto mettendo a disposizione del mondo le fotografie delle turbine tedesche Siemens in arrivo al porto di Sebastopoli alla faccia dell'embargo alla Russia. È chiaro che un'Italia capofila del malumore anti tedesco alla Casa Bianca fa molto comodo.
La corte dell'amico americano non è per niente nuova. Fin dalla settimana nera della formazione del governo - 29 maggio, quando Sergio Mattarella si incartò sul nome di Paolo Savona, ingaggiando per 12 ore Carlo Cottarelli e facendo salire lo spread a 303 punti - i primi a indignarsi per il tradimento del mandato popolare e a comprare titoli di Stato per far rientrare la crisi istituzionale furono i banchieri filo governativi di Wall Street. Il 30 luglio, durante l'incontro fra Conte e Trump (e al di là delle folcloristiche pacche sulle spalle), il governo italiano fu incoraggiato a mantenere la linea dura sull'immigrazione illegale. E al premier furono date garanzie di supporto politico all'Onu. Anche il dossier libico va nella direzione della partnership Usa-Italia: il piano di Emmanuel Macron è stato polverizzato alle Nazioni Unite e oggi (grazie a una positiva triangolazione con l'inglese Bp contro la francese Total) l'Eni sta rafforzando il suo peso nell'area.
A conferma del vento che spira da Washington, Nick Gartside, manager di vertice di Jp Morgan, poche settimane fa mandò in depressione gli economisti progressisti con una sola frase: «Alcuni dei nostri fondi stanno aumentando l'esposizione in Btp. Il vostro deficit non preoccupa, anche il governo americano sta facendo deficit spending. Non vedo nulla di strano». E il Segretario al Tesoro, Steve Mnuchin aggiunse: «L'Italia non rappresenta un fattore di rischio, la sostenibilità del debito è fuori discussione». Il clima è lievemente diverso dai temporali procedurali e mediatici provenienti da Bruxelles. Dovendo aprire l'ombrello, sapere che è quello di John Wayne offre qualche garanzia in più.
Finanza e Ue usano il manganello: «I mercati vi faranno ragionare»
Lo spread scende, la Borsa vola, eppure l'Unione europea (spalleggiata dalle banche d'affari) continua a tenere sotto scacco l'Italia, anche se la linea dura sulla manovra in realtà inizia a mostrare alcune crepe.
Ieri a Bruxelles il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, poco prima della riunione dell'Eurogruppo, ha incontrato il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, per discutere della manovra italiana. Come è andata? A leggere le dichiarazioni di Dombrovskis, male; se invece consultiamo i numeri, quei numeri tanto cari ai burosauri di Bruxelles, i mercati hanno dimostrato di avere grande fiducia nella strategia economica del governo italiano. Ieri, in particolare, lo spread tra Btp e Bund ha chiuso in netto calo, a 283 punti base; il rendimento del titolo italiano a 10 anni è sceso al 3,14%, il più basso da due mesi.
Ottima anche la sessione di Piazza Affari: il Ftse Mib ha chiuso con un rialzo del 2,26% a 19.622 punti, la miglior performance delle borse europee, con i titoli bancari sugli scudi: Intesa + 3,15%, Unicredit +3,02%, Ubi +2,43%, Banco Bpm +6,29%, Bper +4,61%. Gli analisti hanno attribuito, almeno in parte, l'eccellente seduta della Borsa e il calo dello spread al clima positivo che si è stabilito tra Italia e Unione europea, oltre che alla distensione tra Usa e Cina sul fronte della guerra commerciale a suon di dazi sulle merci.
Al termine del colloquio tra Tria e Dombrovskis, il ministero dell'Economia ha diffuso una nota nella quale, rispetto «ai negoziati in corso sulla legge di bilancio per il 2019», i due protagonisti dell'incontro «hanno espresso la comune volontà di trovare al più presto una soluzione al contenzioso sulla manovra tra Roma e Bruxelles».
Eppure, le dichiarazioni di Dombrovskis sono state, come di consueto, pessimistiche: «Siamo», ha detto il vicepresidente della Commissione, «in una fase di discussione intensa con le autorità italiane. Come sapete abbiamo concluso che aprire una procedura per deficit eccessivo è giustificato, e gli Stati membri hanno confermato questa conclusione. Quindi», ha aggiunto Dombrovskis, «adesso sta all'Italia venire con delle correzioni sostanziali per il loro piano di budget 2019. Ho appena avuto un incontro col ministro Tria in cui abbiamo discusso proprio di questo ma adesso aspettiamo passi concreti da parte dell'Italia».
L'ineffabile vice di Jean Claude Juncker evidentemente ha il compito di recitare la parte del «poliziotto cattivo: «La strategia del governo italiano», ha aggiunto Dombrovskis, «non sembra funzionare ed è importante che la cambi. È stata pensata per essere uno stimolo e facilitare la crescita, invece questa crescita non si sta materializzando, mentre c'è un aumento considerevole dei rendimenti che comincia a pesare sull'economia reale». Considerazioni che fanno a pugni con il calo del rendimento del titolo a 10 anni, ma tant'è.
I panni del «poliziotto buono», ieri, li ha indossati il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici: «Continuiamo il dialogo con l'Italia», ha detto Moscovici, «per trovare una soluzione e continuiamo intanto a preparare la nostra decisione, perché l'iter della procedura di infrazione è stato avviato e gli Stati l'hanno appoggiato. Ci sono nuove proposte e idee sul tavolo che vanno nella giusta direzione», ha aggiunto Moscovici, «ma il gap con le regole del patto di stabilità è ancora ampio e quindi ancora non ci siamo». E i tempi della procedura? «La Commissione europea», ha sottolineato Moscovici, «ha il pieno controllo della tempistica nell'eventuale procedura per deficit eccessivo, relativa al debito, contro l'Italia. Permetterete alla Commissione di definirsi come signora del tempo». Lo stesso Moscovici così accomodante con il nostro Paese non era stato, però, alla vigilia del G20, quando, intervistato, si è dimenticato (?) di inserire l'Italia nel suo personale elenco delle democrazie liberali: Canada, Australia, Germania, Inghilterra, Unione europea (che ora è una nazione) e il Giappone. Gli Usa, per Moscovici, vanno a braccetto di Russia, Cina e altri nel novero degli «illiberali». L'Italia, come detto, resta nel limbo. Ma tant'è.
La giornata di ieri, quella che ha fatto registrare questi eccellenti risultati in borsa e sullo spread, è stata la stessa giornata nella quale Goldman Sachs, una delle più grandi banche d'affari del mondo, ha pubblicato il suo European Outlook, rapporto secondo il quale «l'Italia è fra i rischi che potrebbero complicare più del previsto lo scenario di mercato europeo nel 2019, la crisi di bilancio rimane irrisolta e l'economia italiana flirterà con la recessione all'inizio del prossimo anno». Goldman Sachs conferma la stima di una crescita italiana ferma allo 0,4% nel 2019».
Non solo: l'agenzia di rating Fitch ha parlato di «rischi significativi» per l'Italia in termini di raggiungimento degli obiettivi fiscali, soprattutto dopo il 2019, e ha detto di «dubitare che la minaccia di una procedura Ue per deficit eccessivo possa spingere Roma a cambiare il suo piano sul bilancio pubblico».
In serata, il premier Giuseppe Conte, rispondendo a una domanda sulla possibilità di far scendere il rapporto deficit/pil stimato in manovra per il 2019 sotto il 2%, ha risposto così: «Non sto lavorando a questo obiettivo. Siamo in pieno periodo di approvazione del disegno di legge di bilancio, stiamo valutando tutti gli emendamenti e sto lavorando a tempo pieno nell'interlocuzione con le istituzioni Ue. Nel volgere di qualche giorno avremo un ulteriore passaggio con le istituzioni Ue», ha aggiunto Conte, «e confido di poter pervenire a quello che e il mio grande obiettivo, e cioè una soluzione condivisa che ci possa evitare l'infrazione».
La Bce dal 2019 sosterrà più Berlino che noi
Ai più, il «capital key» della Banca centrale europea potrà sembrare un tecnicismo da economisti esperti. In effetti, lo è. Il problema è che ha un grande impatto sull'economia italiana.
Ieri, infatti, l'organismo ha reso noto il nuovo schema di sottoscrizione del capitale dell'istituto centrale basato a Francoforte che entrerà in vigore dal primo gennaio 2019, in sostanza la «fetta» di capitale detenuta dalle banche centrali dei singoli Stati membri.
Il cosiddetto «capital key» viene ricalcolato ogni cinque anni ed è fondato sulla dimensione delle economie di ogni Paese e della popolazione. Considerato inizialmente come un fatto tecnico, oggi questo numero sta assumendo un significato più importante perché è utilizzato per scegliere la porzione di acquisto dei bond governativi, come previsto dal programma di stimolo della Bce denominato Quantitative easing.
Secondo le nuove tabelle, l'incidenza della Banca di Italia scenderà a partire da gennaio all'11,8023% dal 12,3108% degli ultimi cinque anni. In parole povere, in totale 16 banche centrali nazionali avranno una maggiore «capital key» (vedranno aumentare la propria quota Belgio, Germania, Estonia, Irlanda, Francia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Austria e Finlandia) mentre 12, fra cui l'Italia, subiranno una riduzione. Oltre all'Italia, inoltre, anche la un altro Paese inguaiato come la Grecia subirà un calo (a 2,4839% dal 2,8884%). Lo stesso vale per la Spagna che scende dal'8,84% all'8,33%.
Il problema di questa decisione è che il ricalcolo molto probabilmente avrà ricadute sui reinvestimenti dei capitali giunti a maturazione nell'ambito del Quantitative easing, il programma di riacquisto titoli voluto da Mario Draghi e che ha sostenuto a lungo il mercato obbligazionario.
Il consiglio direttivo della Bce intende infatti proseguire con i reinvestimenti a lungo dopo la fine degli acquisti netti. Il punto è che questi reinvestimenti avvengono in base alle capital keys.
La prossima riunione del consiglio della Bce, fissata per il 13 dicembre, sarà l'occasione giusta per scoprire se i reinvestimenti verranno subito rimodulati a partire dal 1 gennaio 2019 sulla base delle nuove capital keys oppure no.
Quello che è chiaro è che dal ricalcolo esce vincitrice la Bundesbank, la banca centrale tedesca, che vede la propria percentuale salire dal 17,9973% al 18,3670% e in misura minore la banca centrale francese la cui percentuale passa dall'attuale 14,1792% al 14,2061%.
Il punto è proprio questo. Nelle condizioni in cui si trova l'economia italiana - che nel terzo trimestre ha visto arrivare il Pil a quota -0,1% rispetto ai tre mesi precedenti (dunque in recessione) - l'istituto centrale che più dovrebbe (almeno in teoria) proteggere le economie più deboli mette a punto uno strategia - ineccepibile se si guarda alla fredda regola che la sottiene, ovvero il riferimento al Pil dei Paesi - che favorisce la Germania e penalizza, di riflesso, del nostro Paese e di Stati ancora più in difficoltà come la Grecia.
Come se non bastasse, questa scelta contribuirà con ogni probabilità a far crescere lo spread tra Btp e bund e anche questa non è esattamente da considerarsi una notizia positiva.
In realtà molti analisti ritengono che la decisione di modificare i livelli di capital key per l'Italia non creerà scossoni troppo grandi. Lo spread dovrebbe salire di poco con questa decisione e lo stesso si può dire per la porzione di acquisto dei bond governativi da parte della Bce.
Come detto, il meccanismo risponde ad automatismi tecnici che hanno, come conseguenza, effetti depressivi proprio per quelle economie che invece avrebbero bisogno di una boccata di ossigeno.
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Attraverso l'ambasciatore Lewis Eisenberg, Washington si schiera ancora al nostro fianco: «Il processo sul budget è molto significativo». Ed Enzo Moavero Milanesi coglie la palla al balzo: «Gli Stati Uniti sono con noi». Per la superpotenza siamo un alleato strategico contro la Germania.Lo spread non cresce ma Bruxelles incalza. Valdis Dombrovskis: «Aspettiamo correzioni sostanziali». Goldman Sachs: «Ci penseranno le Borse». Giuseppe Conte chiaro: «Non lavoro a un deficit/Pil sotto il 2%».Abbassata la quota di capitale in mano a Bankitalia. Tradotto, meno acquisti di Btp a favore dei Bund.Lo speciale contiene tre articoli.Si sente in lontananza la tromba del Settimo Cavalleggeri. Il presidente Donald Trump in un tweet: «Il premier Giuseppe Conte sta lavorando duro per l'economia italiana e avrà molto successo». L'ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg all'Aspen Institute di Roma: «Il processo sul budget che ha intrapreso Roma è molto significativo per l'Italia, l'Unione europea e per il mondo». Le due dichiarazioni tutt'altro che di facciata dimostrano come il governo Lega-5 stelle possa contare su un alleato sempre meno occulto, sempre più interessato alle sorti del nostro Paese dopo qualche anno di pigra passività obamiana: gli Stati Uniti.Washington ha deciso di uscire allo scoperto, evidentemente convinta che in questa delicatissima fase di trattative con l'Europa a trazione tedesca (quindi ottusamente rigorista per vocazione) l'Italia abbia bisogno di un partner di sostegno capace di incutere timore e allungare l'ombra a oscurare la vallata. Così, come mamma orsa che si staglia con tutta la sua imponenza dietro il cucciolo minacciato dal coguaro, l'amministrazione Usa ha alzato il livello di approvazione dei passi economici intrapresi da Palazzo Chigi così contestati da Bruxelles da rischiare la procedura d'infrazione. Ieri mattina nel bilaterale «Us-Italy Dialogue» l'ambasciatore americano non si è fermato ai convenevoli, ma ha promosso la manovra e ha attribuito al nostro Paese una posizione strategica sullo scacchiere continentale. «Gli Stati Uniti vogliono raggiungere con l'Europa un accordo commerciale di successo come quelli con Canada e Messico. E in questo l'Italia può giocare un ruolo fondamentale, che non va sottostimato. La vostra è una delle economie più grandi al mondo. Non c'è mai stato un momento migliore per comprare Made in Usa e Made in Italy». Poi l'ambasciatore, soppesando le parole, ha fatto squillare le trombe laggiù in fondo al canyon: «Se i negoziatori europei adottano l'approccio aperto dell'Italia ai negoziati, sono sicuro che sia gli americani, sia gli italiani arriveranno a un accordo giusto». Una frase un po' criptica che sta a significare tre cose: il Dipartimento di Stato non sta perdendo una sillaba dell'aspra trattativa fra Roma e Bruxelles; ritiene che la manovra espansiva voluta dal governo Conte sia più intelligente e lungimirante del solito scafandro decimale amato dagli euroburocrati; auspica che la stessa strategia dialettica venga adottata nella trattativa commerciale con gli States.Il primo a cogliere il valore di un simile endorsement è stato il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, presente all'Aspen Institute: «Gli Stati Uniti sono a fianco dell'Italia nella sua azione a favore di una manovra economica più espansiva. Penso che quanto abbiamo sentito sia chiaro: gli Usa sono al nostro fianco perché siamo per loro un partner importante, di conseguenza quando la nostra economia va meglio questo giova all'insieme del rapporto con gli Stati Uniti, come all'insieme del rapporto con gli altri Paesi dell'Unione europea. Le notizie le dobbiamo aspettare dal ministro Giovanni Tria a Bruxelles. Per noi il negoziato è essenziale, si tratta di un negoziato fisiologico».È bene precisare che gli Stati Uniti non si sono messi al fianco dell'Italia per puro spirito di fratellanza o solo per una consonanza politica sui grandi temi della lotta alla recessione e all'immigrazione clandestina, ma perché vedono nel governo Lega-5 stelle l'alleato ideale per arginare le pretese neocoloniali francesi in Libia e scardinare lo strapotere tedesco dentro la Ue. L'amministrazione Trump non ha mai fatto mistero di voler depotenziare la Germania. Lo ha fatto accendendo la miccia dello scandalo Volskswagen sulle emissioni, lo ha fatto scoperchiando la botola dei titoli tossici della Deutsche Bank, lo ha fatto mettendo a disposizione del mondo le fotografie delle turbine tedesche Siemens in arrivo al porto di Sebastopoli alla faccia dell'embargo alla Russia. È chiaro che un'Italia capofila del malumore anti tedesco alla Casa Bianca fa molto comodo.La corte dell'amico americano non è per niente nuova. Fin dalla settimana nera della formazione del governo - 29 maggio, quando Sergio Mattarella si incartò sul nome di Paolo Savona, ingaggiando per 12 ore Carlo Cottarelli e facendo salire lo spread a 303 punti - i primi a indignarsi per il tradimento del mandato popolare e a comprare titoli di Stato per far rientrare la crisi istituzionale furono i banchieri filo governativi di Wall Street. Il 30 luglio, durante l'incontro fra Conte e Trump (e al di là delle folcloristiche pacche sulle spalle), il governo italiano fu incoraggiato a mantenere la linea dura sull'immigrazione illegale. E al premier furono date garanzie di supporto politico all'Onu. Anche il dossier libico va nella direzione della partnership Usa-Italia: il piano di Emmanuel Macron è stato polverizzato alle Nazioni Unite e oggi (grazie a una positiva triangolazione con l'inglese Bp contro la francese Total) l'Eni sta rafforzando il suo peso nell'area. A conferma del vento che spira da Washington, Nick Gartside, manager di vertice di Jp Morgan, poche settimane fa mandò in depressione gli economisti progressisti con una sola frase: «Alcuni dei nostri fondi stanno aumentando l'esposizione in Btp. Il vostro deficit non preoccupa, anche il governo americano sta facendo deficit spending. Non vedo nulla di strano». E il Segretario al Tesoro, Steve Mnuchin aggiunse: «L'Italia non rappresenta un fattore di rischio, la sostenibilità del debito è fuori discussione». Il clima è lievemente diverso dai temporali procedurali e mediatici provenienti da Bruxelles. Dovendo aprire l'ombrello, sapere che è quello di John Wayne offre qualche garanzia in più. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ma-a-scortare-la-manovra-ce-la-cavalleria-usa-2622293523.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="finanza-e-ue-usano-il-manganello-i-mercati-vi-faranno-ragionare" data-post-id="2622293523" data-published-at="1765338673" data-use-pagination="False"> Finanza e Ue usano il manganello: «I mercati vi faranno ragionare» Lo spread scende, la Borsa vola, eppure l'Unione europea (spalleggiata dalle banche d'affari) continua a tenere sotto scacco l'Italia, anche se la linea dura sulla manovra in realtà inizia a mostrare alcune crepe. Ieri a Bruxelles il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, poco prima della riunione dell'Eurogruppo, ha incontrato il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, per discutere della manovra italiana. Come è andata? A leggere le dichiarazioni di Dombrovskis, male; se invece consultiamo i numeri, quei numeri tanto cari ai burosauri di Bruxelles, i mercati hanno dimostrato di avere grande fiducia nella strategia economica del governo italiano. Ieri, in particolare, lo spread tra Btp e Bund ha chiuso in netto calo, a 283 punti base; il rendimento del titolo italiano a 10 anni è sceso al 3,14%, il più basso da due mesi. Ottima anche la sessione di Piazza Affari: il Ftse Mib ha chiuso con un rialzo del 2,26% a 19.622 punti, la miglior performance delle borse europee, con i titoli bancari sugli scudi: Intesa + 3,15%, Unicredit +3,02%, Ubi +2,43%, Banco Bpm +6,29%, Bper +4,61%. Gli analisti hanno attribuito, almeno in parte, l'eccellente seduta della Borsa e il calo dello spread al clima positivo che si è stabilito tra Italia e Unione europea, oltre che alla distensione tra Usa e Cina sul fronte della guerra commerciale a suon di dazi sulle merci. Al termine del colloquio tra Tria e Dombrovskis, il ministero dell'Economia ha diffuso una nota nella quale, rispetto «ai negoziati in corso sulla legge di bilancio per il 2019», i due protagonisti dell'incontro «hanno espresso la comune volontà di trovare al più presto una soluzione al contenzioso sulla manovra tra Roma e Bruxelles». Eppure, le dichiarazioni di Dombrovskis sono state, come di consueto, pessimistiche: «Siamo», ha detto il vicepresidente della Commissione, «in una fase di discussione intensa con le autorità italiane. Come sapete abbiamo concluso che aprire una procedura per deficit eccessivo è giustificato, e gli Stati membri hanno confermato questa conclusione. Quindi», ha aggiunto Dombrovskis, «adesso sta all'Italia venire con delle correzioni sostanziali per il loro piano di budget 2019. Ho appena avuto un incontro col ministro Tria in cui abbiamo discusso proprio di questo ma adesso aspettiamo passi concreti da parte dell'Italia». L'ineffabile vice di Jean Claude Juncker evidentemente ha il compito di recitare la parte del «poliziotto cattivo: «La strategia del governo italiano», ha aggiunto Dombrovskis, «non sembra funzionare ed è importante che la cambi. È stata pensata per essere uno stimolo e facilitare la crescita, invece questa crescita non si sta materializzando, mentre c'è un aumento considerevole dei rendimenti che comincia a pesare sull'economia reale». Considerazioni che fanno a pugni con il calo del rendimento del titolo a 10 anni, ma tant'è. I panni del «poliziotto buono», ieri, li ha indossati il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici: «Continuiamo il dialogo con l'Italia», ha detto Moscovici, «per trovare una soluzione e continuiamo intanto a preparare la nostra decisione, perché l'iter della procedura di infrazione è stato avviato e gli Stati l'hanno appoggiato. Ci sono nuove proposte e idee sul tavolo che vanno nella giusta direzione», ha aggiunto Moscovici, «ma il gap con le regole del patto di stabilità è ancora ampio e quindi ancora non ci siamo». E i tempi della procedura? «La Commissione europea», ha sottolineato Moscovici, «ha il pieno controllo della tempistica nell'eventuale procedura per deficit eccessivo, relativa al debito, contro l'Italia. Permetterete alla Commissione di definirsi come signora del tempo». Lo stesso Moscovici così accomodante con il nostro Paese non era stato, però, alla vigilia del G20, quando, intervistato, si è dimenticato (?) di inserire l'Italia nel suo personale elenco delle democrazie liberali: Canada, Australia, Germania, Inghilterra, Unione europea (che ora è una nazione) e il Giappone. Gli Usa, per Moscovici, vanno a braccetto di Russia, Cina e altri nel novero degli «illiberali». L'Italia, come detto, resta nel limbo. Ma tant'è. La giornata di ieri, quella che ha fatto registrare questi eccellenti risultati in borsa e sullo spread, è stata la stessa giornata nella quale Goldman Sachs, una delle più grandi banche d'affari del mondo, ha pubblicato il suo European Outlook, rapporto secondo il quale «l'Italia è fra i rischi che potrebbero complicare più del previsto lo scenario di mercato europeo nel 2019, la crisi di bilancio rimane irrisolta e l'economia italiana flirterà con la recessione all'inizio del prossimo anno». Goldman Sachs conferma la stima di una crescita italiana ferma allo 0,4% nel 2019». Non solo: l'agenzia di rating Fitch ha parlato di «rischi significativi» per l'Italia in termini di raggiungimento degli obiettivi fiscali, soprattutto dopo il 2019, e ha detto di «dubitare che la minaccia di una procedura Ue per deficit eccessivo possa spingere Roma a cambiare il suo piano sul bilancio pubblico». In serata, il premier Giuseppe Conte, rispondendo a una domanda sulla possibilità di far scendere il rapporto deficit/pil stimato in manovra per il 2019 sotto il 2%, ha risposto così: «Non sto lavorando a questo obiettivo. Siamo in pieno periodo di approvazione del disegno di legge di bilancio, stiamo valutando tutti gli emendamenti e sto lavorando a tempo pieno nell'interlocuzione con le istituzioni Ue. Nel volgere di qualche giorno avremo un ulteriore passaggio con le istituzioni Ue», ha aggiunto Conte, «e confido di poter pervenire a quello che e il mio grande obiettivo, e cioè una soluzione condivisa che ci possa evitare l'infrazione». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ma-a-scortare-la-manovra-ce-la-cavalleria-usa-2622293523.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-bce-dal-2019-sosterra-piu-berlino-che-noi" data-post-id="2622293523" data-published-at="1765338673" data-use-pagination="False"> La Bce dal 2019 sosterrà più Berlino che noi Ai più, il «capital key» della Banca centrale europea potrà sembrare un tecnicismo da economisti esperti. In effetti, lo è. Il problema è che ha un grande impatto sull'economia italiana. Ieri, infatti, l'organismo ha reso noto il nuovo schema di sottoscrizione del capitale dell'istituto centrale basato a Francoforte che entrerà in vigore dal primo gennaio 2019, in sostanza la «fetta» di capitale detenuta dalle banche centrali dei singoli Stati membri. Il cosiddetto «capital key» viene ricalcolato ogni cinque anni ed è fondato sulla dimensione delle economie di ogni Paese e della popolazione. Considerato inizialmente come un fatto tecnico, oggi questo numero sta assumendo un significato più importante perché è utilizzato per scegliere la porzione di acquisto dei bond governativi, come previsto dal programma di stimolo della Bce denominato Quantitative easing. Secondo le nuove tabelle, l'incidenza della Banca di Italia scenderà a partire da gennaio all'11,8023% dal 12,3108% degli ultimi cinque anni. In parole povere, in totale 16 banche centrali nazionali avranno una maggiore «capital key» (vedranno aumentare la propria quota Belgio, Germania, Estonia, Irlanda, Francia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Austria e Finlandia) mentre 12, fra cui l'Italia, subiranno una riduzione. Oltre all'Italia, inoltre, anche la un altro Paese inguaiato come la Grecia subirà un calo (a 2,4839% dal 2,8884%). Lo stesso vale per la Spagna che scende dal'8,84% all'8,33%. Il problema di questa decisione è che il ricalcolo molto probabilmente avrà ricadute sui reinvestimenti dei capitali giunti a maturazione nell'ambito del Quantitative easing, il programma di riacquisto titoli voluto da Mario Draghi e che ha sostenuto a lungo il mercato obbligazionario. Il consiglio direttivo della Bce intende infatti proseguire con i reinvestimenti a lungo dopo la fine degli acquisti netti. Il punto è che questi reinvestimenti avvengono in base alle capital keys. La prossima riunione del consiglio della Bce, fissata per il 13 dicembre, sarà l'occasione giusta per scoprire se i reinvestimenti verranno subito rimodulati a partire dal 1 gennaio 2019 sulla base delle nuove capital keys oppure no. Quello che è chiaro è che dal ricalcolo esce vincitrice la Bundesbank, la banca centrale tedesca, che vede la propria percentuale salire dal 17,9973% al 18,3670% e in misura minore la banca centrale francese la cui percentuale passa dall'attuale 14,1792% al 14,2061%. Il punto è proprio questo. Nelle condizioni in cui si trova l'economia italiana - che nel terzo trimestre ha visto arrivare il Pil a quota -0,1% rispetto ai tre mesi precedenti (dunque in recessione) - l'istituto centrale che più dovrebbe (almeno in teoria) proteggere le economie più deboli mette a punto uno strategia - ineccepibile se si guarda alla fredda regola che la sottiene, ovvero il riferimento al Pil dei Paesi - che favorisce la Germania e penalizza, di riflesso, del nostro Paese e di Stati ancora più in difficoltà come la Grecia. Come se non bastasse, questa scelta contribuirà con ogni probabilità a far crescere lo spread tra Btp e bund e anche questa non è esattamente da considerarsi una notizia positiva. In realtà molti analisti ritengono che la decisione di modificare i livelli di capital key per l'Italia non creerà scossoni troppo grandi. Lo spread dovrebbe salire di poco con questa decisione e lo stesso si può dire per la porzione di acquisto dei bond governativi da parte della Bce. Come detto, il meccanismo risponde ad automatismi tecnici che hanno, come conseguenza, effetti depressivi proprio per quelle economie che invece avrebbero bisogno di una boccata di ossigeno.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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