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2024-02-21
Lorenzo Lotto e i maestri del Cinquecento bresciano in mostra alla Pinacoteca Tosio Martinengo
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Tiziano, innanzitutto. E poi Bellini, Veronese e Tintoretto. Cinque nomi che, da soli, «Sono » il Rinascimento veneziano. Artisti sommi e grandi personalità: quella del Vecellio la più forte, la dominatrice. Se non piaci a Tiziano, nella Venezia del Cinquecento non hai scampo. Se non sai tenergli testa, meglio che lasci la Serenissima, anche se sei un artista giovane e talentuoso, ma - purtroppo - anche troppo sensibile.
Proprio come Lorenzo Lotto (Venezia, 1480- Loreto, 1556), che di talento ne aveva da vendere e altrettanto ne possedeva in sensibilità. Meno forte ed agguerrito di quel filibustiere che era Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Lotto fu letteralmente schiacciato dall’egemonia di Tiziano e, per questo, preferì lasciare la sua città per luoghi più periferici e tranquilli: fu così che Bergamo e le Marche divennero le sue terre adottive. A Venezia, solo qualche raro, sporadico ritorno.
Artista sensibile, capace di parlare ai sentimenti come pochi altri, Lotto è - per dirla con Vittori Sgarbi - un «pittore dell’anima», un’artista che parla « di » e «all’» anima e che, nei personaggi che ritrae, rispecchia tutta la sua tormentata interiorità: formidabile ritrattista, Lotto dipinge figure vere e cariche di umanità e, psicologo ante litteram, arriva e ne svela l’essenza. E per questo è considerato un artista di grande modernità, perché Lotto (non a caso rivalutato nel ’900, il secolo della psicanalisi) sa parlare al nostro tempo e alla nostra sensibilità di uomini moderni.
La Mostra
A questo grande artista, la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia dedica un’importante mostra - quella che chiude il grande ciclo espositivo di Bergamo-Brescia capitali della cultura 2023 - che immagina Lorenzo Lotto «in dialogo» (termine un po’inflazionato, ma, in questo caso, necessario…) con i grandi protagonisti del ‘500 bresciano: Lorenzo Lotto. Incontri immaginati il titolo dell’esposizione, e il percorso espositivo lo rispecchia alla perfezione.
Lotto è il fulcro e gli «incontri immaginati» sono quelli con Savoldo (1480 circa- post 1548), Romanino (1484 circa - 1566) e Moretto (1492-1495 circa - 1554): al di là di quelli che, effettivamente, possono essere stai gli incontri reali fra questi artisti - tutti attivi nei territori della Serenissima - ad accomunarli, nella loro arte, lo stesso uso della luce, i gesti, il colore, i temi, alcune soluzioni stilistiche, un modo di fare pittura che ha trovato nella rappresentazione delle figure trasposizioni sempre personali e di grande umanità. E basta aggirarsi fra le sale della Pinacoteca per rendersene conto... Fra le opere in mostra, oltre ai cinque capolavori firmati Lorenzo Lotto (da citare, in primis, l’ Adorazione dei pastori, conservata proprio alla Pinacoteca Tosio Martinengo), di straordinaria bellezza la Pala di San Domenico del Romanino,la Pala delle Grazie del Moretto e l’Adorazione dei pastori di Savoldo.
«Quello proposto da Lorenzo Lotto. Incontri immaginati – ha dichiarato Laura Castelletti, Sindaca di Brescia - è un percorso espositivo di grande interesse, capace di mettere in luce il profondo legame tra Bergamo e Brescia attraverso la straordinaria stagione pittorica che ha contraddistinto le due città nell’età del Rinascimento… il confronto tra gli stili, le idee e i capolavori di Lorenzo Lotto e dei bresciani Savoldo, Moretto e Romanino riesce a restituirci un’immagine nitida dell’identità culturale di Brescia e di Bergamo, città accomunate dalla plurisecolare appartenenza alla Serenissima Repubblica di Venezia».
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Alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, sino al 7 aprile 2024, una mostra di «incontri e dialoghi immaginari» fra cinque straordinarie opere di Lorenzo Lotto e quelle dei più noti maestri bresciani del Cinquecento: Savoldo, Romanino e Moretto. Tiziano, innanzitutto. E poi Bellini, Veronese e Tintoretto. Cinque nomi che, da soli, «Sono » il Rinascimento veneziano. Artisti sommi e grandi personalità: quella del Vecellio la più forte, la dominatrice. Se non piaci a Tiziano, nella Venezia del Cinquecento non hai scampo. Se non sai tenergli testa, meglio che lasci la Serenissima, anche se sei un artista giovane e talentuoso, ma - purtroppo - anche troppo sensibile. Proprio come Lorenzo Lotto (Venezia, 1480- Loreto, 1556), che di talento ne aveva da vendere e altrettanto ne possedeva in sensibilità. Meno forte ed agguerrito di quel filibustiere che era Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Lotto fu letteralmente schiacciato dall’egemonia di Tiziano e, per questo, preferì lasciare la sua città per luoghi più periferici e tranquilli: fu così che Bergamo e le Marche divennero le sue terre adottive. A Venezia, solo qualche raro, sporadico ritorno.Artista sensibile, capace di parlare ai sentimenti come pochi altri, Lotto è - per dirla con Vittori Sgarbi - un «pittore dell’anima», un’artista che parla « di » e «all’» anima e che, nei personaggi che ritrae, rispecchia tutta la sua tormentata interiorità: formidabile ritrattista, Lotto dipinge figure vere e cariche di umanità e, psicologo ante litteram, arriva e ne svela l’essenza. E per questo è considerato un artista di grande modernità, perché Lotto (non a caso rivalutato nel ’900, il secolo della psicanalisi) sa parlare al nostro tempo e alla nostra sensibilità di uomini moderni.La Mostra A questo grande artista, la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia dedica un’importante mostra - quella che chiude il grande ciclo espositivo di Bergamo-Brescia capitali della cultura 2023 - che immagina Lorenzo Lotto «in dialogo» (termine un po’inflazionato, ma, in questo caso, necessario…) con i grandi protagonisti del ‘500 bresciano: Lorenzo Lotto. Incontri immaginati il titolo dell’esposizione, e il percorso espositivo lo rispecchia alla perfezione. Lotto è il fulcro e gli «incontri immaginati» sono quelli con Savoldo (1480 circa- post 1548), Romanino (1484 circa - 1566) e Moretto (1492-1495 circa - 1554): al di là di quelli che, effettivamente, possono essere stai gli incontri reali fra questi artisti - tutti attivi nei territori della Serenissima - ad accomunarli, nella loro arte, lo stesso uso della luce, i gesti, il colore, i temi, alcune soluzioni stilistiche, un modo di fare pittura che ha trovato nella rappresentazione delle figure trasposizioni sempre personali e di grande umanità. E basta aggirarsi fra le sale della Pinacoteca per rendersene conto... Fra le opere in mostra, oltre ai cinque capolavori firmati Lorenzo Lotto (da citare, in primis, l’ Adorazione dei pastori, conservata proprio alla Pinacoteca Tosio Martinengo), di straordinaria bellezza la Pala di San Domenico del Romanino,la Pala delle Grazie del Moretto e l’Adorazione dei pastori di Savoldo.«Quello proposto da Lorenzo Lotto. Incontri immaginati – ha dichiarato Laura Castelletti, Sindaca di Brescia - è un percorso espositivo di grande interesse, capace di mettere in luce il profondo legame tra Bergamo e Brescia attraverso la straordinaria stagione pittorica che ha contraddistinto le due città nell’età del Rinascimento… il confronto tra gli stili, le idee e i capolavori di Lorenzo Lotto e dei bresciani Savoldo, Moretto e Romanino riesce a restituirci un’immagine nitida dell’identità culturale di Brescia e di Bergamo, città accomunate dalla plurisecolare appartenenza alla Serenissima Repubblica di Venezia».
Sara Kelany
Funzionano i centri?
«Stanno cambiando cose. In meglio. Oggi sono Cpr ordinari. Il nostro obiettivo era ed è quello di renderli centri per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Sentenze ideologizzate di alcuni giudici italiani hanno incagliato la dinamica. Col pretesto dei Paesi sicuri. Sottolineo che nessuna delle ordinanze emesse ha trattato la posizione dei singoli migranti rispetto al loro diritto di ottenere protezione. Stabilivano che non è lo Stato che può individuare i Paesi sicuri. Ma può esserlo un giudice. Ritenevano che Egitto e Bangladesh non fossero Paesi sicuri».
Lo sono?
«Premesso che sono anche egiziana, ora in Europa la situazione si è finalmente ribaltata. Optando per accelerare sul Patto per la migrazione e l’asilo. Nel Consiglio dei ministri dell’Interno si è approvato un regolamento. Si è fatta una lista dei Paesi sicuri e, guarda caso, sono ricompresi Egitto e Bangladesh. L’Ue dà ragione alle politiche migratorie del governo Meloni, quindi quando entrerà in vigore questo regolamento i centri potranno ritornare pienamente in attività».
Tempistiche?
«Verosimilmente tra gennaio e febbraio il Parlamento Ue dovrà esprimersi. I regolamenti sono direttamente applicabili dagli Stati membri, non abbiamo bisogno di fare direttive di recepimento».
La parola remigrazione rimane un tema. E il 2023 rimane «annus horribilis» in termini di sbarchi.
«Uso più volentieri il termine “rimpatrio”. Il problema dei rimpatri è diffuso in tutta Europa. Abbiamo aumentato e stiamo aumentando del 100% l’anno i rimpatri forzosi. E abbiamo un grandissimo numero di rimpatri volontari assistiti con l’ausilio di Unhcr. Stanno alleggerendo di molto la posizione italiana. Con riferimento al 2023, i dati erano connessi a motivi esogeni. Il conflitto russo-ucraino, disordini e colpi di Stato nel Sahel, tensioni in Libia e Tunisia. Nel 2024, a seguito anche delle politiche di questo governo, che si basano sui controlli delle frontiere, sulla lotta ai trafficanti e sulla esternalizzazione della gestione dei flussi migratori irregolari in partnership coi Paesi terzi, segnatamente Albania, abbiamo registrato un meno 57% di sbarchi sul territorio nazionale. Sulla base di questi dati l’Europa ha guardato con occhi completamente diversi all’Italia e infatti si sta spostando sulle nostre politiche. Governi anche di estrazione diametralmente opposta a quella italiana ci prendono ad esempio. Vedi la Danimarca. Non parliamo di Ue ma di Europa. La Gran Bretagna è laburista. Starmer è venuto in Italia a chiedere alla Meloni: “Come hai fatto?”».
Come spiegarsi il rapporto speciale che c’è fra Italia e Albania?
«Si fonda su due basi. L’autorevolezza del nostro presidente del Consiglio e la personale empatia tra i due presidenti. Il presidente Rama è un socialista ma indipendentemente dall’estrazione politica, quando un premier è autorevole agli occhi del mondo, non può cambiare un rapporto con lo Stato solo e unicamente perché si viaggia su linee politiche differenti».
Zelensky è andato a Londra e ha incontrato Macron, Starmer e Merz. Dopodiché è venuto a Roma. Quei tre non sono stati in grado di dargli delle garanzie e lui è venuto a chiederle a Giorgia Meloni?
«Per l’Ucraina l’Italia è un partner fondamentale nella risoluzione del conflitto. Siamo sempre stati al suo fianco. Siamo sempre stati convinti che difendere l’Ucraina fosse una questione anche di principio, per la difesa di principi democratici europei. Kyev è vittima di un’orrida guerra di aggressione da parte della Russia. L’Italia, oltre ad avere questo tipo di approccio nei confronti dell’Ucraina, è anche una delle nazioni con il miglior rapporto gli Stati Uniti. Non ci dobbiamo dimenticare che gli Usa sono fondamentali affinché si arrivi a una risoluzione. Ed è ineliminabile l'apporto di Donald Trump in questa faccenda, così come lo è stato e lo sarà nelle questioni mediorientali. Giorgia Meloni è il leader, tra questi che mi hai menzionato, più forte e più stabile in Europa. Macron, Starmer e Merz sono più deboli. La loro debolezza interna si riflette anche in politica estera».
Il documento pubblicato sul sito della Casa Bianca è motivo di imbarazzo o di orgoglio per voi?
«Non è né motivo di imbarazzo né motivo di orgoglio. È una fotografia. Naturalmente la grammatica politica degli Stati Uniti non è la nostra. Noi non possiamo guardare la politica statunitense con i nostri occhi. Non siamo abituati ai loro toni. Ciò non significa che noi non dobbiamo continuare a conservare un rapporto privilegiato. Saldamente ancorato all’Occidente. Perché io mi chiedo e chiedo alle sinistre italiane: l’alternativa qual è? La Cina? Noi non vogliamo avere come alternativa la Cina. Finché ci saremo noi al governo».
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Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
L’assemblea dem non incorona Schlein come candidata premier Gori si fa portavoce dei riformisti: «Il Green deal va ripensato».
Suggerimento, gratis, per i talk televisivi: si sottopongano Elly Schlein e i dirigenti del Pd, tipo l’economista Francesco Boccia, al test della michetta. Ieri la segretaria che sperava di cambiare lo statuto – tentativo fallito – per farsi incoronare candidata unica alla presidenza del Consiglio e che sta tentando di rinviare il congresso (cade a marzo 2027 e se per caso lo perdesse non riuscirebbe neppure ad avvicinarsi a Palazzo Chigi), se n’è uscita con una battuta alimentare: «Meloni festeggia l’Unesco, ma il frigo degli italiani è sempre più vuoto, la sua calcolatrice è rotta: vada nei supermercati e guardi quanto sono aumentati i prezzi». Chissà se Elly Schlein sa quanto costa il pane al chilo e un etto di mandorle. Lei è vegetariana e chiederle del prosciutto sarebbe indelicato.
L’assemblea del Pd, convocata ieri a Roma in concomitanza con Atreju per non lasciare troppo spazio a Giorgia Meloni, ha ricordato, se ancora ce ne fosse bisogno, che per i dem vale tutto. Ma soprattutto ha lasciato in sospeso le polemiche interne: congelate perché si doveva tentare di offuscare la comunicazione Fdi. La Schlein ha evitato qualsiasi voto e qualsiasi argomento divisivo. Ha fatto un po’ di propaganda e nulla più. Così vale che Stefano Bonaccini, dopo averne dette di ogni contro la segretaria annunci che la sua corrente Energia popolare rientra in maggioranza e porti solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi così come l’hanno data alle vittime ebree di Bondi Beach. A Repubblica e alla Stampa al massimo cambiano padrone, in Australia gli amici di Hamas, non così distanti dai pro Pal e da Francesca Albanese a cui i sindaci Pd consegnano le chiavi delle città, hanno ammazzato. Ma è brutto dirlo nel giorno in cui Elly Schlein s’ingegna a sfidare Giorgia Meloni su tutto. «Anche tanti di coloro che hanno votato per questa destra capiscono che non ha fatto nulla per la crescita; Arianna Meloni ci ha detto che loro priorità sono il premierato e la legge elettorale perché hanno paura di perdere». La Schlein si sente già al governo e annuncia: «Metteremo 3 miliardi in più sulla sanità, faremo il salario minimo a 9 euro, abbatteremo il prezzo dell’energia scollegandolo da quello del gas». Il fatto è che per battere «queste destre che delegittimano l’Onu, il diritto internazionale e facendo i vassalli non difendono l’interesse nazionale» ci vogliono i voti. Elly Schlein azzarda: «I voti assoluti della nostra coalizione e di quella del governo sono sostanzialmente pari ma siamo il primo partito con i voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri». A essersi rotta deve essere la sua calcolatrice, non quella della Meloni.
Comunque la prospettiva – anche se Giuseppe Conte proprio da Atreju le ha fatto sapere che i 5 stelle non sono alleati col Pd – è «confrontiamoci anche aspramente, ma costruiamo l’alternativa: è tempo che l’Italia ricominci a sognare e a sperare». Così da gennaio lei parte per un tour programmatico. Doveva andare in giro a parlare del Pd, ma meglio dare addosso alla Meoni che fare i conti con i suoi. Che ieri hanno disertato la direzione nazionale che ha solo votato la relazione della segretaria (225 voti a favore e 36 astenuti) per evitare di palesare le fratture che invece ci sono. L’ala dura dei riformisti ha scelto di rinviare il confronto salvo Giorgio Gori, eurodeputato ex sindaco di Bergamo che all’assemblea ha scandito: «Il Pd ha perso la fiducia, sia della maggioranza degli operai, ma anche degli imprenditori. La sinistra è considerata lontana dal mondo dell’impresa. Serve il riformismo concreto e coraggioso di cui parla Prodi. Il Green deal fatica a tenere insieme obiettivi ambientali e tutele sociali, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e promuovere un nuovo e diverso Green deal», ha concluso Gori, «proporre un patto fra istituzioni, imprese e lavoro. La destra porta il Paese al declino, il Pd può presentarsi e vincere le elezioni come partito della crescita e della redistribuzione». La Schlein per ora si occupa dei supermercati, la grande distribuzione.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 15 dicembre con Flaminia Camilletti
Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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