Piovono rose (rosse e bianche) e applausi su assi di legno che sanno ancora di morte, mista a cherosene. Per raccontare il capodanno della Scala partiamo dalla fine (non dal finale «sbagliato», quello va metabolizzato e il suo odore pungente in teatro si sente ancora). Iniziamo dal Dopo la Prima, dal verdetto dei cronometristi che conferma il successo (per i trionfi il pubblico pretende titoli che conosce a memoria) di questo 7 dicembre, festa del patrono di Milano, Sant’Ambrogio, e stavolta pure di Dmitri Shostakovich, martire (artisticamente parlando) di Iosif Stalin.
Sono oltre 11, infatti, i minuti di giubilo certificati e da consegnare ai posteri per questa Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Non saranno gli irraggiungibili 92 giri d’orologio di fantozziana memoria (l’irripetibile stroncatura della Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn da parte del mitico ragioniere sembra la parodia di quanto fece vergare sulla Pravda il dittatore comunista contro il povero Dmitri Dmitrievic), ma siamo a un soffio dalla fortunata - fa strano scriverlo perché dicono che porti sfiga - Forza del destino di Verdi dell’anno scorso.
L’applausometro, che rileva le vibrazioni del Piermarini, è inequivocabile: il cuore del pubblico se l’è rubato il soprano venuto dal Michigan per impossessarsi del ruolo principale, Sara Jakubiak. Partita un po’ frenata, ha saputo ridare vita alla tragedia di Katerina L’vovna. Dalla romanza dell’atto iniziale ha preso fiducia, coprendo il primo squillo di cellulare della serata (non succederà quasi più, ma ne cadranno a terra molti). Solo di qualche decibel inferiore il boato per Alexander Roslavets, basso bielorusso con il physique du rôle - tra il tenente Kojak e Mastro Lindo - che ha portato in scena la versione virile del claustrofobico Boris: suocero, ma soprattutto spirito maligno, che tormenta la protagonista anche da morto. Anche se accolto quasi dallo stesso entusiasmo - ma non è una gara e non siamo a X Factor, con buona pace di Achille Lauro, ben accomodato - ha forse convinto meno Najmiddin Mavlyanov, tenore uzbeko, nei panni dell’amante Sergej.
In pieno controllo di una partitura più che impegnativa, dai mille stili e colori (valzer viennese, Mahler, Offenbach e molto altro), il direttore musicale, Riccardo Chailly, alla sua dodicesima e ultima inaugurazione. Gli applausi tra un atto e l’altro (molti i «Bravo Maestro», urlati prima del terzo e quarto) sapevano di grazie per questi anni e lasciavano presagire l’abbraccio finale, che è puntualmente arrivato.
Riavvolgiamo il nastro. Neanche il tempo di aprire il sipario alle 18.01 - dopo un inno nazionale mai così poco partecipato (anche al Loggione calma piatta) - che il regista moscovita Vasily Barkhatov - pure per lui solo ovazioni e complimenti - ha già fatto tre mosse: del villaggio russo del 1860 non c’è traccia, l’azione si svolge a Mosca, al tramonto dell’era Stalin (morirà nel 1953, 17 anni dopo aver censurato questo capolavoro). L’azienda rurale degli Izmailov è diventata un ristorante. Ma soprattutto il caso è già chiuso. Katerina sta «cantando». Non in senso letterale - dove sarebbe la notizia? - ma in gergo mafioso. Nella prima scena la bella moglie (a questo punto vedova) del ricco mercante siede a un tavolino Ikea da interrogatorio. Accetta le sigarette dello sbirro in uniforme bianca e collabora. Tra i capelli il beffardo velo delle nozze con Sergej, stroncate dalla polizia dopo il ritrovamento del cadavere del pingue marito.
Primo strappo: nel libretto deve succedere tutto, sul palcoscenico il giallo è risolto (altro che Garlasco e cold case all’italiana). Giudicando con le orecchie, la Izmajlova soffre di noia cronica, «da impiccarsi». E nemmeno immagina che uno stalliere (pardon, cameriere) sta per stravolgerle la vita. Per lui però sarà disposta persino a condire i funghi del suocero con il veleno per sorci (il tema di Boris è una marcetta da topo, lo spiega su Youtube Pietro Rigacci). Per l’occhio invece è svanita ogni suspense. Da qui alla fine, la narrazione sarà un ping pong perpetuo tra ricordi del passato e disperante attualità di una confessione che prepara l’inevitabile condanna. A indicare dove siamo nella linea spazio-tempo ci pensano i cambi di luce e le morbose incursioni dei poliziotti che obbligano i Bonnie e Clyde sovietici a rimettere in scena ogni cosa, compresa la loro sfrenata passione. Terribile quando i due sono costretti a replicare il loro primo amplesso con le manette ai polsi (una delle trovate con le quali il regista riesce a non essere didascalico nelle scene di sesso, lasciando fare ai glissando di tromboni e alle percussioni). Pochi letti, si fa l’amore su tavoli. Il fantasma di Stalin, dal palchetto dei dittatori, storce il naso.
I piani temporali cambiano all’istante, come quando i due amanti strangolano Zinovij, mentre al poveretto cascano i pantaloni. Una scena da commedia di Lino Banfi (dramma e grottesco insieme, sarcasmo shostakovichiano in purezza). Un secondo dopo, il corpo del consorte soffocato si trasforma in manichino, svelando il flashback: una ricostruzione da Quarto Grado, da plastico di Porta a Porta.
Ma è l’epilogo «opposto» a ciò che sulla carta dovrebbe accadere a offrire una prospettiva originale e metafisica a questa rappresentazione lacerante e sarcastica nello stesso tempo.
Ultimo atto: le domande dei celerini finiscono, Katerina si ritrova in una landa desolata. Manca solo la scritta «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate» per far diventare Divina quella che non è mai stata una commedia, ma una «tragedia satirica». Sulle teste dei prigionieri cadono fiocchi candidi. Nessuno però pensa al «Natale con la neve» di Vasco. I brividi dei condannati rimandano alla Siberia e all’Inferno dantesco. A quel «pozzo scuro» e freddo che ripaga i traditori, lasciandoli al gelo. «L’acqua è nera come la mia coscienza», canta quest’anima tormentata che, a breve, dovrebbe trascinare con sé la rivale nell’abisso. Invece - nello choc del pubblico in smoking - si inonda di benzina e sceglie di finire nel fuoco, insieme a Sonetka (da film l’ingresso delle due torce umane, con le fiamme che sfiorano i nobili tendaggi rossi). È lei l’ultima conquista di quello «sciupafemmine» di Sergej (che non merita di essere più chiamato amorevolmente Sëreza) per il quale aveva inutilmente scommesso la vita, alla ricerca di un’inafferrabile felicità.
Viene il sospetto che Barkhatov sia un fan di Una pura formalità di Giuseppe Tornatore. La suggestione si fa strada pensando che questa centrale di polizia sia un po’ il tribunale celeste, alla fine dei tempi. Chi è sottoposto al giudizio rivede e rivive la sua esistenza scegliendo liberamente il proprio destino finale. Impressioni? Ipotesi? Lapidario il commento di un’elegante sciura milanese alla consegna dei cappotti: «La Katerina che prende fuoco, pure questa mi toccava vedere…».
Cori contro la Venezi, lodi all’imam di Torino
Come ogni anno la Prima della Scala rappresenta l’occasione per un ricettacolo di proteste più o meno variopinte. Questa volta, con un pizzico di fantasia in più, i manifestanti hanno persino creato dei cartonati del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con scritto «Lady MacMelon», allegoria del vero spettacolo di ieri sera. Una manifestazione dal carattere prettamente antifascista e antisemita. All’altoparlante, in collegamento telefonico, è intervenuto anche Mohammad Hannoun, presidente dell’associazione palestinesi d’Italia, che ha ricevuto un foglio di via di un anno da Milano. Tanti gli slogan e gli striscioni pro Pal e in solidarietà a Mohamed Shanin, l’imam di Torino colpito da un decreto di espulsione per un comizio in cui parlava del 7 ottobre. Per i manifestanti, l’appuntamento sotto il Piermarini (al quale hanno partecipato anche le sigle sindacali Cgil e Cub) e davanti al municipio di Milano «non è una ricorrenza, ma resistenza». Nel mirino, come detto, anche Giorgia Meloni: «Lady Mac Melon del distretto è venuta qui a ricordarci come la cultura non serve a niente, o meglio, non tutte le culture servono. Quelli come lei dicevano, libro e moschetto, fascista perfetto», ha proclamato un manifestante nel bel mezzo di un vero e proprio spettacolo inscenato in strada.
Tra fumogeni e slogan, sul palco dei contestatori sono comparsi anche i personaggi caricaturali del ministro Giuseppe Valditara, vestito da militare, del ministro della Cultura, Alessandro Giuli, del sindaco Beppe Sala e di Manfredi Catella, l’imprenditore (ceo di Coima) coinvolto nell’inchiesta sull’urbanistica a Milano. Infine, cori contro la neo direttrice della Fenice di Venezia, Beatrice Venezi. Un militante, sul piccolo palcoscenico di fortuna sui cui campeggiava la scritta «Il teatro delle complicità», ha detto: «Non vogliamo essere complici di un genocidio e non vogliamo un sindaco che dice “Palestina libera” e poi il Comune continua a incassare soldi da Israele».
Per Riccardo De Corato, deputato Fdi ed ex vicesindaco di Milano, «in piazza della Scala a Milano abbiamo assistito a nuove dichiarazioni offensive al presidente del Consiglio. In particolare, da parte di una consigliera ed esponente del Movimento 5 stelle sono state pronunciate frasi inaccettabili nei confronti di Giorgia Meloni», accusa. In scena, anche la protesta di una decina di ucraini, per tenere accesi i riflettori sulla guerra nel loro Paese.
Dentro il teatro, scarsa come annunciato la rappresentanza politica nazionale: niente Sergio Mattarella, niente Giorgia Meloni, il solo ministro della Cultura Alessandro Giuli per l’esecutivo: la star è la senatrice Liliana Segre. Tanto che il governatore lombardo Attilio Fontana ha buon gioco a fare l’autonomista: «Governo assente? Ce ne faremo una ragione».