Sandro Donati: «So chi ha inquinato le analisi di Schwazer»

C'è un qualcosa di non facilmente descrivibile nella persistenza con cui Sandro Donati non si rassegna a considerare chiusa la vicenda che riguarda il marciatore azzurro, squalificato otto anni perché recidivo nel doping. È qualcosa più del puntiglio, dell'ostinazione, della determinazione: «È che non posso accettare un'infamia del genere» mi dice.

C'è sicuramente anche la voglia di difendere una carriera intera. Donati ha passato metà della sua vita a combattere le frodi sportive. Fu lui a denunciare il salto con misurazione truccata di Giovanni Evangelisti ai campionati del mondo del 1987 a Roma. Fu lui, tra gli altri, nel 2012, a far scoprire la prima positività di Schwazer e fu proprio lui, due anni dopo, a scommettere su Alex, a volerlo allenare per dimostrare che era un campione anche senza aiutini esterni. La mazzata della nuova positività del marciatore azzurro è una vicenda che Donati non manda giù.

Professore, Schwazer stavolta non si è dopato?

«No. C'è stata una manomissione della provetta di urina per eliminarlo dall'atletica, e con lui anche me».

Perché?

«Schwazer, gestito in modo approssimativo in passato, nel 2012 si era riempito di incertezze fino a cadere nel doping. Io stavo dimostrando che il suo fallimento era in realtà il fallimento di chi aveva operato attorno a lui».

La procura di Bolzano ha ordinato l'esame del dna su quella provetta.

«Speriamo. La giustizia sportiva è stata sommaria. Al contrario la giustizia ordinaria rischia di essere molto lenta, ma almeno è neutrale».

Quella sportiva no?

«Ma per carità. Siamo stati giudicati dal Tas, un organismo composto da membri nominati dalle federazioni internazionali. L'esito era quasi scontato. Al Tas c'è una serietà apparente e formale, in realtà tutto è svolto in modo notarile. Nel momento in cui hanno messo molecole estranee nelle urine di Alex il gioco era fatto. Era l'atleta che doveva dimostrare di essere innocente».

Lei ne parla come se fosse certo della manipolazione.

«Ho chiara l'idea di chi sia stato il mandante, di quali siano stati i complici e di dove si sia svolto il tutto».

Di quante persone parliamo?

«Un numero limitato».

Italiani?

«Italiani e stranieri. I nomi li abbiamo fatti alla magistratura».

Come finirà questa storia?

«Se scoperchieremo la verità faremo tremare lo sport mondiale. La matrice nella quale si è svolto il controllo è la federazione internazionale di atletica, la Iaaf. Lì la magistratura francese aveva già detto tutto accusando l'allora presidente, il senegalese Lamine Diack, predecessore di Sebastian Coe, per truffa e riciclaggio di denaro».

Diack fu accusato di aver ricevuto denaro per insabbiare i casi di doping russo, da qui nasce l'esclusione dei russi da Rio.

«Capisce la perversione? A Rio Sebastian Coe ha avuto l'ardire di presentare la federazione come un modello».

Non è così?

«Prima di parlare devi fare pulizia all'interno. Lamine Diack e i parenti erano coinvolti, era coinvolto il capo dell'antidoping Gabriel Dollé al quale hanno trovato i soldi a casa, sotto la lavatrice. Potrei continuare».

E lei vorrebbe sconfiggere questo sistema?

«Devo difendere l'onore mio e di Schwazer. Forse questa gente si aspettava, una volta emersa la positività, organizzata non per caso nella settimana in cui Alex era a casa, che io prendessi le distanze da lui».

Non ha dubitato un solo secondo?

«Mai. Conoscevo la linearità e la naturalezza con la quale rispondeva agli allenamenti. Ho solo verificato che non si fosse esposto a contaminazioni di cibo e bevande date da qualcuno. Se vuole saperlo, avevo molta diffidenza nei suoi confronti nei primi mesi di allenamento. A volte l'ho anche trattato in modo duro, sprezzante».

Addirittura?

«Ero molto scettico sul fatto che sapesse andare avanti con le sue sole forze. Quando faticava ero ironico, tagliente. Gli dicevo: “Adesso voglio vedere se sai misurarti con te stesso". Invece, poverino, aveva solo bisogno di qualche settimana per adeguarsi a un sistema di allenamento del tutto differente da quello tradizionale».

Dal Dna cosa sperate che emerga?

«Dipende dal livello qualitativo della manomissione. A un livello qualitativo massimo diventa più difficile trovare tracce, a un livello qualitativo basso si trovano».

Donati, alle Olimpiadi partecipano migliaia di atleti. Quanti sono i dopati?

«È sufficiente vedere il bubbone esploso con le “esenzioni terapeutiche" di cui godono molti atleti».

Spieghiamolo: alcuni hacker, pare vicini ad ambienti russi, hanno violato gli archivi della Wada, l'Agenzia mondiale antidoping, e hanno pubblicato le liste di atleti che godono di esenzioni terapeutiche e sono legittimati a prendere sostanze dopanti.

«Lei pensi: in Germania sono state autorizzate una cinquantina di esenzioni, in Spagna diverse centinaia. Basta un'osservazione statistica».

Sono esenzioni reali?

«Insomma. Ci sono numerosi atleti che dichiarano di avere l'asma e quindi sono autorizzati a prendere farmaci dopanti. Ma chi ci crede a quell'asma così diffusa?».

Perché in alcune nazioni ci sono molte esenzioni?

«Dipende dalla fase in cui si trova il contrasto, anche culturale, al doping. In Spagna c'è un clima di assoluta tolleranza che perdura da tanti anni. Lì non mi meraviglio se usano anche l'escamotage delle esenzioni terapeutiche per concedere un doping legalizzato».

Quali sono le discipline più compromesse?

«Facciamo al contrario: ci sono sport dove il doping praticamente non esiste».

Per esempio?

«La scherma. Qualche dopato ci sarà, ma laddove prevale una cultura specifica fatta di conoscenza, tecnica e tattica il doping non prevale. Lo stesso vale per il judo. Al contrario dove dominano la forza e la resistenza i farmaci hanno un effetto dirompente. Penso all'atletica, al ciclismo, al canottaggio o al sollevamento pesi».

Schwazer come sta?

«È sofferente, ma vive il suo dolore con discrezione, dignità, riservatezza. È nelle sue valli, con le persone care. Cerca con semplicità di leccarsi le ferite dopo questa terribile infamia».

Tornerà a gareggiare?

«C'è una possibilità su mille. Guardi che Alex andava a Rio non per cercare una medaglia qualunque».

No?

«Alex avrebbe stravinto l'oro, lo scriva. Anzi due ori, nella 50 e nella 20 chilometri. Al campionato del mondo a Roma tra lui e il secondo c'era un chilometro di distacco».

È stato sparso molto veleno. Il saltatore Tamberi è stato durissimo con Alex.

«Lui non fa parte di camarille, ha parlato a titolo personale, per una visione magari giovanile. Tamberi peraltro mi piace moltissimo, è pulitissimo e forte. Altri hanno fatto il lavoro sporco».

A chi pensa?

«Gli ex miracolati di Conconi, quelli che hanno tratto beneficio dal doping che il professor Conconi ha elargito a piene mani nella atletica degli anni Ottanta. Questi hanno percepito il ritorno di Schwazer come destabilizzante e si sono organizzati. Sono iniziate le maldicenze, le insinuazioni, le ostilità».

Torno alla domanda iniziale: chi glielo ha fatto fare?

«Quando ho cominciato ad allenare Schwazer non immaginavo che il sistema potesse conservare questa memoria elefantiaca e il desiderio di vendetta nei miei confronti. Invece il sistema è arroccato, conservativo, gretto. Difende la propria mediocrità, perché chi abbraccia il doping di fondo è un mediocre».

E dire che fu proprio lei a inchiodare Schwazer.

«Già. Checché ne dica qualcuno, scrissi due mail l'11 e il 12 luglio 2012 alla Wada nelle quali indicai che la situazione di Schwazer era molto sospetta. Partivo dall'informazione che incredibilmente Alex andava a preparare le Olimpiadi nell'ultimo mese in Germania da solo. E sa chi ha accettato che andasse lì? I responsabili della federazione di atletica e della preparazione olimpica del Coni».

Lei lo fece beccare, poi gli ha dato una seconda possibilità.

«Se la devo dire tutta, io non sono così generoso e comprensivo. Io ero e sono più duro. Ho pensato: “Solo se mi dimostri che hai cambiato, Alex, io ti do una seconda chance. Fino ad allora sospendo il giudizio". Il mio è stato un atteggiamento di sfida. Lui si è messo in gioco e ha avuta un merito e una fortuna».

Quali?

«Il merito è stato il suo coraggio e chiarezza di idee. La sua fortuna, mi permetta l'unico atto di superbia, è che ho studiato per lui un metodo di allenamento rivoluzionario. Ma questo è un demerito, in questo sistema».

Dopo una vita antidoping, non ha paura di chiudere con una macchia indelebile?

«Affronto quello che la vita mi mette davanti. Che faccio? Fuggo? Se perdo, perdo. Ma vedrà che, anche nella peggiore delle ipotesi, certa gente uscirà con la credibilità a pezzi».

C'è una amarezza su tutte che le rimane?

«Non avrei mai pensato che nel lavoro sporco sarebbe stata compresa anche la delegittimazione della mia collaborazione con la Wada».

Hanno scritto: Donati dice di essere stato consulente dell'agenzia antidoping ma è un millantatore.

«Ho sopportato a lungo, in silenzio, per non esporre Alex. Ma sono stato molto più di un consulente. Per loro ho svolto una serie di attività, alcune delle quali delicate che non posso dire. Ma se mi spingono a farlo, un giorno rivelerò pure quelle».

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