L’Inps fallisce pure la rivoluzione digitale ma Tridico sogna un europaracadute

I Cinque Stelle e il Pd, lo ha scritto ieri La Verità, hanno piazzato una mina dentro al bilancio. Le agevolazioni edilizie esagerate volute dal Conte bis (di cui i dem facevano parte) hanno, infatti, dato spazio a truffe e creato una bolla gigantesca. Poi Eurostat la settimana scorsa ha detto che quei crediti erano deficit e l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni è dovuto correre ai ripari, fermando tutto perché continuare sarebbe equivalso a creare un buco gigantesco nelle casse dello Stato. Morale: grazie al governo giallorosso è stata piantata la mina che né Conte né Draghi hanno cercato di disinnescare preferendo lasciare la patata bollente a chi sarebbe venuto dopo. Il problema è che il conto dell’avventura grillina a Palazzo Chigi comincia a farsi sempre più salato. Perché un copione simile a quello andato in scena sul superbonus 110% lo si è visto anche con il reddito di cittadinanza, l’altro pesante mattone che la manovra di Meloni ha dovuto abbattere. E che ci sta costando pure una procedura d’infrazione da parte della Commissione Ue «per discriminazione» perché Bruxelles vorrebbe dare il sussidio anche ai cittadini di tutti i Paesi europei che vivono in Italia. Il grande piano anti povertà era stato ideato e infine difeso ad oltranza dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. Che presto potrebbe essere candidato proprio da Conte alle prossime elezioni europee come capolista al Sud. Voluto da Luigi Di Maio nella primavera del 2019, a maggio il suo mandato scadrà.
La presidenza Inps non è sottoposta alla regola dello spoil system che permette al governo entrante di cambiare i vertici della pubblica amministrazione. Ma al netto di chi sarà il suo successore e quali saranno i nuovi lidi cui presto approderà, dietro di sé Tridico non lascia solo il conto da pagare sugli effetti del reddito di cittadinanza ma pure le falle aperte nell’Istituto nazionale della previdenza sociale. L’Inps per il 2023 prevede di chiudere il bilancio con un risultato negativo per 9,7 miliardi dopo il dato positivo di 1,8 miliardi del 2022. Pesano l’inflazione, la popolazione invecchia, si fanno meno figli e senza una ripresa sostenuta dell’occupazione il rapporto tra pensionati e lavoratori attivi è destinato inesorabilmente a peggiorare.
Come ha scritto La Verità lo scorso 28 gennaio, però, è la stessa «macchina» dell’Inps ad aver bisogno di una profonda revisione. La gestione, infatti, sta svuotando le sedi del Nord. Avevamo citato il caso di Prato, in Toscana con l’allarme lanciato a dicembre dai sindacati: la pianta organica dell’Istituto a Prato risulta non solo carente di 19 unità ma rischia di ridursi ulteriormente per 22 mobilità in uscita e tre pensionamenti. La situazione è simile ad altre città in tutto il Centro e il Nord: a muoversi sono prevalentemente dipendenti del Sud che dopo aver vinto il concorso altrove adesso cercano di tornare più vicini a casa, e in molti casi dopo meno di tre anni dall’assunzione. Il flusso, dunque, aumenterà dal Settentrione alle regioni meridionali e non viceversa. Con il paradosso che molti dei vincitori del penultimo concorso che si sposteranno a Sud ma sono stati formati al Nord, non saranno rimpiazzati nel breve periodo perché i vincitori dell’ultima selezione impiegheranno anni per diventare fungibili. Alcune sedi fanno da centro di formazione, una parte del personale sta due o tre anni e impara, poi se ne va e il gap di preparazione si riallarga.
Pensiamo, poi, agli utenti: non sono tutti avvezzi all’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche, o sufficientemente preparati in materia previdenziale, o dotati di Spid che accedono da soli ai servizi anche per conto dei propri figli e genitori anziani. Quando il personale Inps dialoga con utenti esperti o consulenti, riesce a dare risposte efficaci rapidamente. Ma negli altri casi i tempi si allungano e l’efficacia si complica. L’11 febbraio l’economista dell’Università Tor Vergata, Nicola Rossi, in un suo intervento sul Foglio aveva ricordato che nello stesso 2002, a stare ai bilanci dell’Istituto, i dipendenti dell’Inps erano poco più di 19.000 a fronte di qualcosa come diciannove milioni di lavoratori assicurati. A vent’anni di distanza, i dipendenti sono diventati poco più di 24.000: come vent’anni fa, più o meno, mille assicurati per dipendente. Non esattamente quel che ci si sarebbe attesi negli anni della rivoluzione digitale (nonostante l’Inps abbia effettuato investimenti non trascurabili nel campo). Sarebbe, insomma, opportuno essere in grado di offrirli con la tempestività e l’efficienza che le odierne tecnologie dovrebbero permettere. O quantomeno scegliere persone seriamente interessate a, e capaci di, far funzionare la macchina che potrebbero guidare e dar loro come obbiettivo, e fermo restando il vincolo di bilancio, in primo luogo la soddisfazione degli utenti.
Di certo, in attesa di soluzioni per riparare la macchina Inps, sembra un paradosso che si pensi già a preparare la poltrona a chi ha contribuito a ingolfarla.






