L’idea di governo e Cassa depositi: fare debito con il risparmio postale

La comunità degli analisti di rischio politico, di cui fa parte chi scrive, ha ormai rimesso l'Italia al centro delle proprie riflessioni. Uno sguardo al calendario, tra referendum, legge elettorale e batticuore bancario, offre in effetti abbondanza di spunti. Spunti contingenti che si accavallano con problematiche profonde, come gli squilibri demografici e la loro crescente pressione sui conti pubblici, specie per quanta riguarda le voci pensionistiche.

I dati economici di queste settimane fotografano poi una crescita ormai piatta e una spesa che non accenna a frenare, mentre le cronache politiche descrivono un meteo in rapido deterioramento e un capo del governo in cerca di soluzioni per espandere la propria capacitá di spesa e recuperare in tal modo consenso.

Sullo sfondo, incombe l'enorme - e crescente - mole del debito pubblico italiano, record tricolore ampiamente noto nelle piazze finanziarie di tutto il globo.

È anche in questo scenario che va necessariamente esaminata la campagna acquisti di Poste delle ultime settimane, finalizzata a consolidarsi nei sistemi di pagamento attraverso l'acquisto di Sia dalla Cassa Depositi e Prestiti, soggetto a cui Poste è legata, oltre che da legami azionari anche da un accordo multimiliardario per il placement del risparmio postale. A questa mossa va aggiunta l'offerta per Pioneer, colosso dell'asset management da poco messo in vendita da Unicredit. Troppo frettolosamente derubricata a «banca diffusa», l'organizzazione guidata da Francesco Caio si rivela un soggetto per molti versi più sofisticato degli attori del credito tradizionale. Facendo leva sugli uffici-emporio presenti pressoché ovunque nella penisola italiana, Poste ha infatti evitato di mutuare il modello bancario nella sua totalità, preferendo concentrarsi selettivamente nei pochi ambiti profittevoli rimasti.

Scelta tanto più comprensibile in un'epoca storico-finanziaria di tassi bassi che ha letteralmente messo in ginocchio il tradizionale business di raccolta tramite depositi e conti correnti delle banche. Va peraltro detto che le banche postali sfuggono alla disciplina sul bail-in e sono percepite come molto sicure dai risparmiatori di tutta Europa. Non a caso il bancoposta tedesco da qualche tempo a questa parte «vende protezione», nel senso che si fa pagare dai propri correntisti per tenere i loro soldi sui propri conti.

Tutto bene, dunque?

Non proprio, perché la strategia di Poste potrebbe rivelare un ulteriore aspetto su cui al momento poco è stato scritto. Il tema è quello della possibile interferenza politica rispetto alle scelte di Poste come gestore di fondi. Quali accorgimenti consentiranno di evitare che Poste sottoscriva debito pubblico italiano oltre limiti fisiologici?

Come noto, in sede europea fa molta paura la sovraesposizione delle banche italiane al rischio sovrano. La passione per i Btp dei nostri istituti bancari non nasce certo oggi ed è il riflesso dell'architettura chiusa della finanza italiana, in cui lo Stato emette (molto) debito, che viene sottoscritto massicciamente da banche italiane, le quali fino a non molto tempo fa erano controllate dalle fondazioni bancarie. Le fondazioni sono a loro volta soggetti dalla cifra politica molto marcata, in un continuo rapporto dialettico con i palazzi romani.

Oggi da una parte questa architettura è in crisi molte fondazioni si sono diluite per via della crisi e dei continui aumenti di capitale delle banche partecipate o hanno passato del tutto la mano mentre dall'altra parte le critiche alle politiche di investimento delle banche italiane si sono fatte sempre più vigorose. L'ultima in ordine di tempo, poche settimane fa, è del consiglio dei saggi economici della Merkel.

Le banche italiane, dicevamo, sottoscrivono troppi Btp. Finora sono state forti del fatto che i titoli di Stato vengono convenzionalmente classificati come a «rischio zero». Ebbene, questa convenzione ora è seriamente messa in discussione, ed è ragionevole attendersene uno smantellamento graduale.

Logico dunque che per un Paese come l'Italia, con un enorme debito pubblico da rifinanziare e gli alleati di sempre - le banche - in grave crisi, si ponga una questione di fondo: chi è l'acquirente di ultima istanza del debito tricolore? Finora, grazie alle alchimie di Francoforte la risposta è stata solo una: la Bce. Ma con un maxi-gestore di fondi controllato dallo Stato, se non si adottano gli opportuni provvediamenti, il rischio è davvero che Poste subisca pressioni e finisca per essere piegata a disegni di espansione incontrollata del budget pubblico. Per giunta con soldi privati, quelli dei risparmiatori.

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