2022-05-18
L’Eni ai pm: indagate su chi ha preso i nostri soldi
Massimo D'Alema (Imagoeconomica)
Dura opposizione dell’azienda alla richiesta di archiviazione sulle mail taroccate: a chi sono finiti i soldi della transazione?Nuovo capitolo nella guerra senza frontiere tra l’Eni e la Procura di Milano. Questa volta casus belli è il lavoro dell’aggiunto Laura Pedio, già stretta collaboratrice dell’ex capo degli inquirenti milanesi Francesco Greco. A far arrabbiare gli avvocati del Cane a sei zampe è la richiesta di archiviazione di una denuncia presentata dalla compagnia petrolifera e riguardante alcune mail ritenute contraffatte inviate da un postino anonimo. Missive depositate in un arbitrato londinese tra Eni e l’azienda Blue power guidata da Francesco Nettis, ex socio della famiglia di Massimo D’Alema in un’attività vitivinicola. Blue power alla fine ha incassato 35 milioni di euro grazie a una transazione. Nell’istanza la Pedio ammette che «le circostanze evidenziate dal denunciante […] potrebbero far ritenere configurato il reato» di falso, eppure, secondo l’aggiunto, l’Eni non avrebbe offerto elementi «sufficienti a identificare» i presunti corvi. Ma l’avvocato Giovanni Paolo Accinni, difensore di Eni e dell’ad Claudio Descalzi, persone offese nel procedimento, ha presentato una dura opposizione all’archiviazione. Anche perché i denuncianti evidenziano che «il fascicolo contiene le sole produzioni difensive» e dunque «l’indagine prima ancora che incompleta, non è neppure stata svolta» e per questo, si legge nell’atto, «la richiesta di archiviazione non può essere accolta» perché «finirebbe per dipendere non già dall’esistenza dei necessari presupposti, ma dalla semplice condotta inerte» dei pm. All’Eni, invece, si sarebbero aspettati che «il Signor pubblico ministero, anziché limitarsi a recepire le informazioni nella disponibilità dei denuncianti compisse anche attività di indagine all’interno del gruppo Blue power». Quindi i legali del Cane a sei zampe auspicavano che gli inquirenti facessero approfondimenti proprio sull’azienda con cui, a voler credere al faccendiere Piero Amara, avrebbero provato a organizzare oscuri traffici, compresa una transazione da 130 milioni di euro, poi ridottasi a 35. Infatti nella versione del pluripregiudicato legale siracusano certe aziende erano «strumento per drenare soldi dall’Eni a favore dei politici». Peccato che in tutta questa storia l’unico ad ammettere di aver cercato di lucrarci sia lo stesso Amara: «Io volevo fare a tutti i costi l’operazione perché avrei guadagnato se riuscivo a chiudere». Ma, secondo l’avvocato siciliano, lui non sarebbe stato il solo a spingere: «L’operazione interessava a D’Alema e all’interno dell’Eni era gestita da questo Carollo (Salvatore, ndr), uomo di Descalzi». Però il tono sferzante dell’opposizione di Accinni rende poco plausibile l’ipotesi che la compagnia petrolifera fosse complice di un accordo occulto con un’azienda su cui si invocano investigazioni. Sebbene con aspettative non altissime: «È paradossale che debba essere l’opponente» si legge nell’atto, «a dover supplire al difetto investigativo», indicando, come prescrive la legge, possibili nuove piste per evitare l’archiviazione. Il motivo della stravaganza? In questo caso non si tratterebbe di «individuare elementi suppletivi», bensì «di svolgere ab initio un’indagine che non è mai stata nemmeno abbozzata» dal momento che «in atti non c’è neppure una delega di indagine». Quindi l’Eni offre alla Procura una possibile lista testi a partire da Nettis, l’ex socio della famiglia D’Alema, e da Carollo, l’ex manager Eni passato successivamente alla Blue power. I legali della compagnia petrolifera non sembrano disposti a fare sconti e suggeriscono agli inquirenti anche alcuni possibili quesiti. Le contestazioni alla Pedio, però, non sono finite. Nella richiesta di archiviazione il magistrato aveva ricordato la decisione dell’Eni di pagare a titolo di risarcimento 35 milioni alla Blue power, rimarcando come non fosse noto «l’impatto delle mail sulla decisione». Una sottolineatura apparentemente anodina che, però, a detta di Accinni potrebbe racchiudere persino qualche capziosa insinuazione: «Non è ben chiaro quale sia lo spirito di siffatto ultimo inciso», ma comunque «ogni allusione a possibili implicazioni tra le mail e la conclusione dell’accordo sarebbe davvero intollerabile» scrive il legale. Per l’Eni quella falsificazione «non ha avuto alcun effetto sulla transazione» e l’azienda «ha semplicemente pagato quanto ritenuto congruo sulla scorta del parere dei suoi avvocati inglesi che la vedevano parzialmente potenzialmente soccombente rispetto ad alcuni titoli (minori) di danno». La cifra di 35 milioni, del resto, sarebbe «significativamente inferiore» rispetto alla richiesta della Blue power (1 miliardo), senza contare che «il solo costo della causa sarebbe stato maggiore». Insomma dietro alla transazione non ci sarebbero trattamenti di favore e tanto meno pagamenti sotto banco. Anche perché l’Eni già nel 2019 aveva denunciato le presunte mail fasulle e prima di firmare la transazione aveva fatto istanza d’accesso al fascicolo non per «interesse alla chiusura del procedimento», ma perché «se fosse emersa evidenza di responsabilità» da parte della Blue power avrebbe evitato di pagare le rate pattuite. C’è, infine, la questione dei documenti giudiziari finiti sui giornali, ma assenti nel fascicolo sui presunti messaggi farlocchi favorevoli alla Blue power. A novembre La Verità aveva pubblicato parte della trascrizione di una conversazione tra Giuseppe Calafiore, sodale di Amara, e il lobbista e pierre Alessandro Casali, considerato vicino a D’Alema, in cui i due ammettevano l’interesse della cricca per la transazione tra Blue Power ed Eni. Il quotidiano Domani nei giorni scorsi ha trascritto altri passaggi di quell’intercettazione e ha titolato l’articolo in modo suggestivo: «Così l’Eni ha dato 35 milioni all’ex socio di D’Alema», specificando che «ora la vicenda è nei verbali di tre Procure». Ma se l’Eni ha negato subito ogni stranezza, i cronisti, pur ammettendo che Amara e Casali probabilmente non hanno incassato un euro dalla tentata mediazione, hanno gettato qualche ombra sulla decisione presa dal Cane a sei zampe di pagare Blue power. Dopo l’istruttiva lettura, l’Eni ha deciso di domandare agli inquirenti come mai i due verbali di Amara e la registrazione di Casali citati negli articoli non si trovino all’interno del fascicolo, e ha suggerito di «verificare se gli autori o coautori della false mail non possano essere stati i medesimi presunti beneficiari a cominciare (a questo punto) dallo stesso avvocato Amara che si autoattribuisce una quota parte “del 10 per cento” di un’altra ipotetica transazione (precedente -2017- e mai conosciuta dall’Eni) in cui avrebbe cercato di inserirsi come intermediario». Quindi l’Eni ha chiesto al giudice di «ordinare alla Procura di Milano di svolgere i diversi approfondimenti». In particolare di acquisire le registrazioni di Casali e di domandare a Carollo, Calafiore e allo stesso pierre «se e quale ruolo abbiano svolto nella vicenda su indicazione di Nettis e/o di altri apicali di Blue power e se fosse prevista una qualche remunerazione in loro favore in caso di conclusione di una transazione con Eni». Ma soprattutto di «verificare, in ogni caso, la destinazione ultima dei fondi sinora corrisposti da Eni a Blue power in esecuzione della transazione al fine di accertare se siffatti proventi siano anche solo in parte destinati (direttamente e/o indirettamente) alle persone indicate o anche (eventualmente) ad altri». E qui non sembra esclusa la richiesta di un controllo sui movimenti bancari di tutti i soggetti citati da Amara.
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Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
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