2023-02-09
LeBron è il nuovo signore dell’anello. Michael Jordan è un po’ meno solo
LeBron James supera il record di punti di Kareem Abdul-Jabbar, stabilito nel 1984. Sin dal liceo ha retto l’enorme pressione del predestinato e non ha mai fallito, vincendo il titolo in tre città diverse. È l’unico che si avvicini ad «Air». Gli uomini di genio, benedetti dal talento che lo scientismo procedurale derubricherebbe a semplice genetica, si dividono in due categorie. Ci sono quelli che fanno cose che gli altri non riescono a fare. Poi ci sono quelli - pochissimi - che fanno cose che gli altri non riuscirebbero nemmeno a pensare. Prendete l’Nba. Il 5 aprile 1984, Kareem Abdul-Jabbar segnava il punto numero 31.422 della sua carriera nella massima lega americana di pallacanestro, infrangendo il primato di quell’altro lungagnone di Wilt Chamberlain, all’epoca impegnato nella sua nuova vita da attore sul set di Conan il distruttore, a fianco di Arnold Schwarzenegger. Lo fece con la sua specialità, il gancio cielo: Kareem teneva il corpo tra palla e difensore avversario, stendeva il braccio che maneggiava la sfera - solitamente lanciato dai generosi assist di Magic Johnson - dalla parte opposta, sopra la testa, spiccava il volo forte dei 218 cm di statura con la mano tesa, verticale, completamente rivolta a canestro. Manco la contraerea l’avrebbe fermato. Indossava la maglia dei Los Angeles Lakers e quella partita contro gli Utah Jazz viene ricordata sui parquet di mezzo mondo. Ma il 1984, pieno edonismo reaganiano, era destinato a generare ulteriori leggende. Otto mesi dopo, gli dei del basket mandarono sulla terra qualcuno capace di ricevere il testimone da Abdul-Jabbar, sfoggiando la stessa casacca. LeBron James, nato il 30 dicembre 1984 dal ventre di mamma Gloria minorenne, un’infanzia travagliata, una carriera da predestinato fin dagli albori del liceo, ha segnato martedì notte, nel match tra i Lakers e Oklahoma City, i 36 punti necessari a diventare il cestista più prolifico di sempre. Davanti a lui c’era proprio Kareem, che simbolicamente gli ha passato il testimone sotto forma di pallone. Tra il pubblico, Magic Johnson, John McEnroe, una pattuglia di vip disposti a pagare fino a 24.000 dollari per un posto in prima fila. Adesso c’è già chi scatena i campanilismi, domandandosi se il più grande di tutti sia lui o rimanga Michael Jordan. Una prima differenza tra i due emerge scartabellando tra gli inizi delle rispettive carriere. «Air» Jordan, da giovane liceale, era considerato una nuova leva promettente ma il suo percorso verso il dominio assoluto comincia con un’esclusione clamorosa: l’allenatore Pop Herring della squadra dei Buccaneers lo considera troppo basso, poco attrezzato per militare nella prima squadra, e lo scarta. Instillandogli la rabbia necessaria per prendersi la rivincita l’anno successivo. LeBron no, per lui la strada parte in discesa. A tre anni si dice che il compagno della madre gli abbia regalato un piccolo canestro per far pratica, distogliendo la sua attenzione dal wrestling, passione infantile. Al liceo si allena come un forsennato e spicca sia nella squadra di basket della Saint Vincent-Saint Mary, sia in quella di football americano, al punto che prendere una decisione su quale carriera intraprendere diventa un nodo gordiano. Ci pensa il giornalista Grant Wahl - morto di recente durante i Mondiali di calcio del Qatar - a persuaderlo: grazie a lui, James diventa il primo liceale ad apparire sulla copertina di Sports Illustrated, nel 2003, e il suo nome quello stesso anno è in cima alla lista dei possibili nuovi ingressi in Nba. Ha 18 anni, è un’ala di 206 cm. Lo ingaggiano i Cleveland Cavaliers, la squadra della città vicino a Akron, dove è nato. La prima partita finisce con una sconfitta, ma i 17.000 tifosi accorsi a vederlo intuiscono che quel titano non è un atleta qualsiasi: 25 punti, 6 rimbalzi, 9 assist e la promessa di fare molto di più nell’immediato futuro. Disputa le prime finali per il titolo nel 2007, inanella riconoscimenti, aiuta i compagni a compiere passi in avanti verso la conquista del campiobnato, che però non arriva. Lui ci resta male, patisce la compagnia di sodali volenterosi e devoti però poco disinvolti nei momenti decisivi. Sceglie di trasferirsi ai Miami Heat, nel cuore della Florida, dopo un’intervista rilasciata a Espn l’8 luglio 2010 in cui spiega ai tifosi disperati quella che passerà alla storia come «The decision», la decisione fatale. Un anno di rodaggio, poi dimostra di averci visto giusto. Al sole di South Beach arrivano due titoli Nba, seguiti dalla controdecisione: tornare ai suoi Cavaliers per portarli finalmente al trionfo (mai raggiunto nella storia della franchigia) che puntualmente arriva. Ormai leggenda vivente, James si trasferisce a Los Angeles, costa occidentale del Paese, nei Lakers che hanno visto passare giocatori come Abdul-Jabbar, Shaquille O’Neal, Kobe Bryant e «Magic» Johnson. Gente della schiatta di Larry Bird dei Boston Celtics, incastonati nel Pantheon dei migliori proprio assieme a James e naturalmente al demiurgo Michael Jordan. Ed è con il titolo vinto indossando la casacca gialloviola che LeBron si propone nel ruolo di sfidante dell’immaginario contro MJ, i due cestisti statunitensi più famosi della storia. Se li si paragonasse sulla base dei titoli, non ci sarebbero dubbi: Jordan ha vinto sei finali Nba su sei disputate, LeBron è a quota tre su nove. Jordan era la punta di lancia di una macchina perfetta: i Bulls degli anni Novanta. James sovente è stato squadra da solo, non tanto per una mera questione di punti ma per la capacità di risultare decisivo in collettivi distinti, vincendo l’Nba con tre franchigie diverse in 10 anni. Insomma, la disfida su chi sia il migliore non passa attraverso i canestri realizzati, che nel basket sono semplice statistica. Torna alla mente il bizzarro caso del brasiliano Oscar Schmidt, pilastro nella serie A1 italiana degli anni Novanta con la squadra di Pavia. Una media realizzativa mostruosa, talvolta di 40 punti e oltre a match, condita però dalla capacità quasi cannibale di fagocitare il gioco, facendo perdere brillantezza alla formazione. Ciò non significa che per LeBron James i punti siano bazzecole. Ultimamente gli interessano eccome, specie sul piano elettorale. In questo si innesca un’ulteriore differenza con Jordan. LeBron fa politica, talvolta con entrate a gamba tesa non sempre pertinenti ai contesti in cui è chiamato in causa, preda di una foga ultraliberal e pro black live matters che lo ha portato ad appoggiare in maniera acritica la corsa di Barack Obama prima e Hillary Clinton poi alla Casa Bianca. Scatenando l’ironia del suo arcinemico di sempre, Donald Trump: «Il migliore di tutti è Michael Jordan, soprattutto perché non faceva politica», ha detto un giorno l’ex presidente, rincarando la dose: «Una volta ho visto LeBron intervistato dal più stupido giornalista della tv americana, Don Lemon della Cnn, che lo ha fatto quasi sembrare intelligente, il che, per LeBron non è facile». E fosse solo Trump, il problema. James ha più volte incrociato i guantoni sullo stesso argomento pure con Zlatan Ibrahimovic. «La politica divide, lo sport unisce, non mi piacciono le persone che sfruttano la loro fama per occuparsi di argomenti che non conoscono, meglio fare ciò in cui si è bravi», disse un giorno il campione svedese pungolando il cestista. «Predico alla mia gente su uguaglianza e ingiustizia sociale», aveva replicato James, piccato. Le ruggini tra i due hanno una genesi gustosa: si dice che quando Ibrahimovic fu ingaggiato dai Los Angeles Galaxy per militare nel campionato di calcio nordamericano, James gli abbia spedito una sua canotta dei Los Angeles Lakers. Zlatan, dopo averla ricevuta, pare l’abbia autografata e rispedita al mittente, scatenando l’ilarità del Web. Ma anche qui il destino ha poi deciso di mettere uno zampino. LeBron James è tra gli investitori del fondo Main Street Advisors di Los Angeles, a sua volta collegato con la Red Bird di Gerry Cardinale, attuale patron del Milan, squadra in cui giganteggia il veterano Ibra.
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