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2022-11-02
La setta chiede per i colleghi lettera scarlatta e rieducazione
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Non sono ricercatori; sono sacerdoti. Non è una comunità di studiosi; è una setta d’illuminati. Non è metodo sperimentale; è superstizione. Non è scienza; è fede. La fine dell’apartheid nei confronti dei sanitari non vaccinati, decisa dal governo Meloni, ha fatto scoppiare parecchi fegati, tra i tifosi di obblighi e divieti. Squarciando anche il velo sull’ispirazione ideologica di certe norme, finora coperta dalla foglia di fico dell’appello alle «evidenze». In realtà, l’emergenza sanitaria aveva predisposto l’ennesima congiuntura storica, buona per riesumare l’inossidabile tentazione novecentesca: la mania del controllo, l’imposizione di una religione senza metafisica. In una parola, il comunismo. Sotto la veste pandemica.
Parla per tutti il candore con cui Fabio Fazio, domenica, esigeva i nomi dei dottori non vaccinati: «Vorrei sapere se il medico che mi cura crede nella scienza». È questione di fedeltà alla linea: ci si può forse fidare di un eretico? Bisogna affibbiargli la lettera scarlatta, o la «spilletta no vax», come dice Giancarlo Loquenzi, giornalista Rai. Così, il renitente diventa un facile capro espiatorio. L’ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, nello stesso salottino di Rai 3, ha affermato che i professionisti non inoculati «hanno tante vite umane sulla loro coscienza». In che modo, dal momento che hanno le stesse possibilità dei vaccinati di infettarsi e infettare e, anzi, stando ai dati Iss, al di sotto degli 80 anni, si contagiano persino meno? Mistero della fede. O pensiero magico: cause ed effetti collegati per antipatia.
Il dogma, dunque, si sostanzia nell’affermazione apodittica di postulati indimostrabili. È il caso del feticcio delle mascherine: vari paper - menzioniamo quello uscito, nel 2021, sulla rivista della Southern medical association - ne denunciavano la sostanziale inutilità in ambienti ospedalieri. Ma pur di mantenerle nei reparti, sono state alzate le barricate. Ciò che conta non è la prova scientifica; è la bandierina politica, nobilitata dal «rispetto per gli altri» (Aldo Cazzullo). Finché si arriva alla sfacciata esibizione della menzogna.
Ancora ieri, Roberto Burioni scriveva su Repubblica che, «fino alla fine del 2021», avevamo a disposizione «un vaccino estremamente efficace nel ridurre la diffusione del contagio». Falso come una banconota da 30 euro: c’era stata l’ondata estiva di Delta, già capace di aggirare l’immunità acquisita; ed era ormai dominante Omicron, la variante più elusiva. A uno scienziato si chiederebbe conto della balla. Ma questi sono più simili agli alchimisti. O ai predicatori.
Il nodo sta nella logica fideistica sposata dai nostalgici dell’apartheid. Con buona pace della consapevolezza, proclamata proprio da Burioni, che «scienza e religione sono cose profondamente diverse».
La colpa dei ribelli è che «hanno rifiutato di seguire la scienza». Non importa, poi, che si tratti della scienza riveduta e corretta dalle virostar. La macchia non è il misconoscimento ostinato di una prova fattuale, che in fondo nemmeno esiste. Semmai, esiste la prova del contrario: che i vaccini anti Covid non bloccano il Covid. Il punto è che i medici liquidati come no vax, respingendo la dottrina, picconano il regime. Alimentano la «narrazione» antivaccinista. Corrompono le coscienze.
Tutto ciò spiega sia lo sdegno per la presunta «amnistia» concessa ai reprobi, sia lo zelo di chi desidera correggere i compagni che sbagliano.
Andrea Crisanti, tre giorni fa, parlava del «paradosso» per cui, «se leviamo la multa a quelli che non si sono vaccinati, dovremmo premiare quelli che si sono vaccinati». Enrico Letta ha rimproverato a Giorgia Meloni di aver «premiato i no vax». Ergo, il senso del gioco stava nella trasformazione dei diritti costituzionali - tipo quello al lavoro - in un riconoscimento per l’obbedienza. Il cui correlato è la punizione del dissenso. Premi e castighi, certo, inquadrano un terreno scivoloso: il comunismo accresce il potere dello Stato per plasmare l’uomo nuovo. Poi l’uomo rimane quello di sempre e i poteri dello Stato non si riducono mai.
È qui che subentra la rieducazione: Silvestro Scotti, capo del sindacato dei medici di famiglia, considera l’obbligo vaccinale «una questione deontologica». Mescolando pere e mele - i vaccini usati da decenni, testati ed efficaci e quelli a mRna - ma soprattutto svelando che in ballo c’è una scriminante morale, travestita da verità scientifica. Ai dottori-banderuola, Fabrizio Pregliasco farebbe seguire «lezioni di immunologia e vaccinazioni, così almeno scoprirebbero le indicazioni della scienza». Peccato che, sui banchi, dovrebbero imparare quel che già sanno: che gli antidoti contro il Sars-Cov-2 non schermano dal contagio, che perdono rapidamente efficacia contro la malattia grave e che, specie negli under 40, possono provocare effetti collaterali tali da rendere opinabile il vantaggio relativo dell’iniezione. Ma è davvero al corso di medicina che vorrebbero spedire i disobbedienti? O, magari, alla scuola di partito?
La Ronzulli ha perso la sua battaglia ma insiste: «Fi non molli sui no vax»
Il capogruppo di Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli, se la politica fosse una cosa seria, dovrebbe farsi un esame di coscienza, o almeno di opportunismo politico. Il motivo? Elementare: le sue dichiarazioni rilasciate ieri alla Stampa sulla decisione del governo guidato da Giorgia Meloni riguardo al reintegro in servizio del personale non vaccinato. Il governo, chiede il cronista, strizza l’occhio ai no vax? «No», risponde la Ronzulli, «ma è il messaggio che potrebbe passare rivedendo di punto in bianco le norme che regolano la somministrazione dei vaccini. È anche per questo che auspico un processo graduale per il superamento delle misure anti Covid. La delegazione di Forza Italia su questo non getterà la spugna». Peccato che la delegazione di Forza Italia al governo, a quanto risulta da tutte le cronache del Consiglio dei ministri dell’altro ieri, non abbia assolutamente contestato, neanche con un sospiro, un’alzata di sopracciglio, un brontolio, il provvedimento preso dall’esecutivo. Sulla linea della Ronzulli si attesta solo il vicepresidente di Palazzo Madama, Maurizio Gasparri, che ieri ha twittato: «Sinceramente i medici no vax, a parte chi avesse delle incompatibilità accertate, mi lasciano perplesso. È come se un militare fosse per il disarmo o se un pilota non volesse salire su un aereo per paura del volo».
Ora, al di là di ogni considerazione di merito, se un capogruppo al Senato di un partito di maggioranza non ha la minima influenza sui ministri del suo stesso partito, i casi sono due: o si dimettono i ministri, o si dimette il capogruppo. Naturalmente, non succederà nessuna delle due cose, perché quello che abbiamo capito tutti è che, esattamente come è accaduto con il governo guidato da Mario Draghi, i ministri di Forza Italia non li ha scelti Forza Italia, ma il presidente del Consiglio, in questo caso Giorgia Meloni.
Ma la Ronzulli va oltre: alla domanda se sia giusto reintegrare i medici non vaccinati, il capogruppo forzista a Palazzo Madama risponde così: «Forse si sarebbe potuta attendere la scadenza naturale della misura, il 31 dicembre, così da evitare che la maggioranza silenziosa di chi, onorando il camice, si è responsabilmente vaccinato si sentisse sconfitta dalla minoranza chiassosa dei no vax. Ma se lo chiede a me», aggiunge la Ronzulli, «chi è no vax e quindi va contro la medicina e la scienza non dovrebbe operare in campo sanitario». Ottimo: la Ronzulli conferma la sua contrarietà al provvedimento votato in maniera compatta dai ministri di Forza Italia. Le sue parole, al di là del «forse» che non è esattamente segnale di grande convinzione, vanno considerate quindi, d’ora in poi, esternazioni da opinionista. Licia Ronzulli, stando ai fatti, rilascia interviste sui provvedimenti del governo che sostiene a parlando a titolo personale, come se commentasse partite di calcio, località turistiche, concerti rock. Quello che lei pensa e dice non ha alcun rilievo politico, perché se lo avesse sarebbe stata consultata dai cinque ministri di Forza Italia prima del Consiglio dei ministri, avrebbe espresso le sue perplessità sul reintegro dei medici non vaccinati, gli stessi ministri avrebbero riportato in Cdm le perplessità del partito, avrebbero chiesto un approfondimento, magari si sarebbero astenuti o avrebbero votato contro. Invece no: Antonio Tajani, Anna Maria Bernini, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Gilberto Pichetto e Paolo Zangrillo non hanno fatto una piega e hanno approvato il decreto, quel decreto che la Ronzulli critica aspramente. Niente di personale, la Ronzulli lo sa bene, ma sconfessare l’operato dei propri ministri a mezzo stampa, 12 ore dopo il primo Cdm operativo, dimostra solo che in Forza Italia regna il caos. Vedremo nelle prossime settimane se la grande confusione sotto il cielo azzurro sarà un vantaggio o un ostacolo per il premier Meloni.
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Medici, giornalisti e politici affezionati al regime sanitario a testa bassa contro i dottori reintegrati. Ma i loro argomenti si basano su ragionamenti più religiosi che scientifici. Anche perché la ricerca ha già smentito la maggiore pericolosità dei non vaccinati.Licia Ronzulli ha perso la sua battaglia ma insiste: «Fi non molli sui no vax». Ministri azzurri allineati al governo. La pasionaria forzista, tuttavia, non sente ragioni. Lo speciale comprende due articoli.Non sono ricercatori; sono sacerdoti. Non è una comunità di studiosi; è una setta d’illuminati. Non è metodo sperimentale; è superstizione. Non è scienza; è fede. La fine dell’apartheid nei confronti dei sanitari non vaccinati, decisa dal governo Meloni, ha fatto scoppiare parecchi fegati, tra i tifosi di obblighi e divieti. Squarciando anche il velo sull’ispirazione ideologica di certe norme, finora coperta dalla foglia di fico dell’appello alle «evidenze». In realtà, l’emergenza sanitaria aveva predisposto l’ennesima congiuntura storica, buona per riesumare l’inossidabile tentazione novecentesca: la mania del controllo, l’imposizione di una religione senza metafisica. In una parola, il comunismo. Sotto la veste pandemica. Parla per tutti il candore con cui Fabio Fazio, domenica, esigeva i nomi dei dottori non vaccinati: «Vorrei sapere se il medico che mi cura crede nella scienza». È questione di fedeltà alla linea: ci si può forse fidare di un eretico? Bisogna affibbiargli la lettera scarlatta, o la «spilletta no vax», come dice Giancarlo Loquenzi, giornalista Rai. Così, il renitente diventa un facile capro espiatorio. L’ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, nello stesso salottino di Rai 3, ha affermato che i professionisti non inoculati «hanno tante vite umane sulla loro coscienza». In che modo, dal momento che hanno le stesse possibilità dei vaccinati di infettarsi e infettare e, anzi, stando ai dati Iss, al di sotto degli 80 anni, si contagiano persino meno? Mistero della fede. O pensiero magico: cause ed effetti collegati per antipatia. Il dogma, dunque, si sostanzia nell’affermazione apodittica di postulati indimostrabili. È il caso del feticcio delle mascherine: vari paper - menzioniamo quello uscito, nel 2021, sulla rivista della Southern medical association - ne denunciavano la sostanziale inutilità in ambienti ospedalieri. Ma pur di mantenerle nei reparti, sono state alzate le barricate. Ciò che conta non è la prova scientifica; è la bandierina politica, nobilitata dal «rispetto per gli altri» (Aldo Cazzullo). Finché si arriva alla sfacciata esibizione della menzogna. Ancora ieri, Roberto Burioni scriveva su Repubblica che, «fino alla fine del 2021», avevamo a disposizione «un vaccino estremamente efficace nel ridurre la diffusione del contagio». Falso come una banconota da 30 euro: c’era stata l’ondata estiva di Delta, già capace di aggirare l’immunità acquisita; ed era ormai dominante Omicron, la variante più elusiva. A uno scienziato si chiederebbe conto della balla. Ma questi sono più simili agli alchimisti. O ai predicatori. Il nodo sta nella logica fideistica sposata dai nostalgici dell’apartheid. Con buona pace della consapevolezza, proclamata proprio da Burioni, che «scienza e religione sono cose profondamente diverse». La colpa dei ribelli è che «hanno rifiutato di seguire la scienza». Non importa, poi, che si tratti della scienza riveduta e corretta dalle virostar. La macchia non è il misconoscimento ostinato di una prova fattuale, che in fondo nemmeno esiste. Semmai, esiste la prova del contrario: che i vaccini anti Covid non bloccano il Covid. Il punto è che i medici liquidati come no vax, respingendo la dottrina, picconano il regime. Alimentano la «narrazione» antivaccinista. Corrompono le coscienze.Tutto ciò spiega sia lo sdegno per la presunta «amnistia» concessa ai reprobi, sia lo zelo di chi desidera correggere i compagni che sbagliano.Andrea Crisanti, tre giorni fa, parlava del «paradosso» per cui, «se leviamo la multa a quelli che non si sono vaccinati, dovremmo premiare quelli che si sono vaccinati». Enrico Letta ha rimproverato a Giorgia Meloni di aver «premiato i no vax». Ergo, il senso del gioco stava nella trasformazione dei diritti costituzionali - tipo quello al lavoro - in un riconoscimento per l’obbedienza. Il cui correlato è la punizione del dissenso. Premi e castighi, certo, inquadrano un terreno scivoloso: il comunismo accresce il potere dello Stato per plasmare l’uomo nuovo. Poi l’uomo rimane quello di sempre e i poteri dello Stato non si riducono mai. È qui che subentra la rieducazione: Silvestro Scotti, capo del sindacato dei medici di famiglia, considera l’obbligo vaccinale «una questione deontologica». Mescolando pere e mele - i vaccini usati da decenni, testati ed efficaci e quelli a mRna - ma soprattutto svelando che in ballo c’è una scriminante morale, travestita da verità scientifica. Ai dottori-banderuola, Fabrizio Pregliasco farebbe seguire «lezioni di immunologia e vaccinazioni, così almeno scoprirebbero le indicazioni della scienza». Peccato che, sui banchi, dovrebbero imparare quel che già sanno: che gli antidoti contro il Sars-Cov-2 non schermano dal contagio, che perdono rapidamente efficacia contro la malattia grave e che, specie negli under 40, possono provocare effetti collaterali tali da rendere opinabile il vantaggio relativo dell’iniezione. Ma è davvero al corso di medicina che vorrebbero spedire i disobbedienti? O, magari, alla scuola di partito? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-setta-chiede-per-i-colleghi-lettera-scarlatta-e-rieducazione-2658582942.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-ronzulli-ha-perso-la-sua-battaglia-ma-insiste-fi-non-molli-sui-no-vax" data-post-id="2658582942" data-published-at="1667333985" data-use-pagination="False"> La Ronzulli ha perso la sua battaglia ma insiste: «Fi non molli sui no vax» Il capogruppo di Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli, se la politica fosse una cosa seria, dovrebbe farsi un esame di coscienza, o almeno di opportunismo politico. Il motivo? Elementare: le sue dichiarazioni rilasciate ieri alla Stampa sulla decisione del governo guidato da Giorgia Meloni riguardo al reintegro in servizio del personale non vaccinato. Il governo, chiede il cronista, strizza l’occhio ai no vax? «No», risponde la Ronzulli, «ma è il messaggio che potrebbe passare rivedendo di punto in bianco le norme che regolano la somministrazione dei vaccini. È anche per questo che auspico un processo graduale per il superamento delle misure anti Covid. La delegazione di Forza Italia su questo non getterà la spugna». Peccato che la delegazione di Forza Italia al governo, a quanto risulta da tutte le cronache del Consiglio dei ministri dell’altro ieri, non abbia assolutamente contestato, neanche con un sospiro, un’alzata di sopracciglio, un brontolio, il provvedimento preso dall’esecutivo. Sulla linea della Ronzulli si attesta solo il vicepresidente di Palazzo Madama, Maurizio Gasparri, che ieri ha twittato: «Sinceramente i medici no vax, a parte chi avesse delle incompatibilità accertate, mi lasciano perplesso. È come se un militare fosse per il disarmo o se un pilota non volesse salire su un aereo per paura del volo». Ora, al di là di ogni considerazione di merito, se un capogruppo al Senato di un partito di maggioranza non ha la minima influenza sui ministri del suo stesso partito, i casi sono due: o si dimettono i ministri, o si dimette il capogruppo. Naturalmente, non succederà nessuna delle due cose, perché quello che abbiamo capito tutti è che, esattamente come è accaduto con il governo guidato da Mario Draghi, i ministri di Forza Italia non li ha scelti Forza Italia, ma il presidente del Consiglio, in questo caso Giorgia Meloni. Ma la Ronzulli va oltre: alla domanda se sia giusto reintegrare i medici non vaccinati, il capogruppo forzista a Palazzo Madama risponde così: «Forse si sarebbe potuta attendere la scadenza naturale della misura, il 31 dicembre, così da evitare che la maggioranza silenziosa di chi, onorando il camice, si è responsabilmente vaccinato si sentisse sconfitta dalla minoranza chiassosa dei no vax. Ma se lo chiede a me», aggiunge la Ronzulli, «chi è no vax e quindi va contro la medicina e la scienza non dovrebbe operare in campo sanitario». Ottimo: la Ronzulli conferma la sua contrarietà al provvedimento votato in maniera compatta dai ministri di Forza Italia. Le sue parole, al di là del «forse» che non è esattamente segnale di grande convinzione, vanno considerate quindi, d’ora in poi, esternazioni da opinionista. Licia Ronzulli, stando ai fatti, rilascia interviste sui provvedimenti del governo che sostiene a parlando a titolo personale, come se commentasse partite di calcio, località turistiche, concerti rock. Quello che lei pensa e dice non ha alcun rilievo politico, perché se lo avesse sarebbe stata consultata dai cinque ministri di Forza Italia prima del Consiglio dei ministri, avrebbe espresso le sue perplessità sul reintegro dei medici non vaccinati, gli stessi ministri avrebbero riportato in Cdm le perplessità del partito, avrebbero chiesto un approfondimento, magari si sarebbero astenuti o avrebbero votato contro. Invece no: Antonio Tajani, Anna Maria Bernini, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Gilberto Pichetto e Paolo Zangrillo non hanno fatto una piega e hanno approvato il decreto, quel decreto che la Ronzulli critica aspramente. Niente di personale, la Ronzulli lo sa bene, ma sconfessare l’operato dei propri ministri a mezzo stampa, 12 ore dopo il primo Cdm operativo, dimostra solo che in Forza Italia regna il caos. Vedremo nelle prossime settimane se la grande confusione sotto il cielo azzurro sarà un vantaggio o un ostacolo per il premier Meloni.
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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