
«Abbiamo il dovere di non sottovalutare la situazione, ma non so dove possano portarci l'allarmismo continuo e il catastrofismo. Che scenari abbiamo? Possiamo permetterci un nuovo lockdown? Possiamo permetterci di tenere ancora chiuse le scuole? Io dico di no, con questo virus vivremo ancora a lungo, forse per sempre». Prudenza, ma non allarmismo. Di fronte alla curva dei contagi che ha ripreso a salire, Giorgio Palù, professore emerito di microbiologia e virologia dell'Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia, invita a non drammatizzare.
I contagi sono tornati a crescere. Lo hanno definito «effetto Ferragosto». Che cosa dobbiamo aspettarci?
«I nuovi contagi sono delle infezioni in larga misura asintomatiche, per le quali i ricoveri non sono necessari. In Italia ci sono tra i 65 e i 70 pazienti in rianimazione, siamo lontanissimi dalle migliaia di casi che abbiamo vissuto nella prima fase dell'emergenza. La letalità è bassa, anche se ci trasciniamo ancora le percentuali dei primi mesi».
Insomma, non ci sono i presupposti per una seconda ondata.
«È ancora presto per dire quando finirà. È il primo coronavirus pandemico che conosciamo, ha trovato una popolazione totalmente scoperta. Eppure, commentando le Cassandre, posso dire che non c'è alcuna seconda ondata. Abbiamo avuto un picco, ma poi c'è stata una decrescita».
Al momento, in che fase siamo?
«Siamo nella fase discendente, con oscillazioni giornaliere. Per parlare di seconda ondata dovremmo avere una risalita della curva importante, un picco superiore al primo».
Come si spiegano allora i numeri in aumento? L'estate, con le sue condizioni ambientali favorevoli, avrebbe dovuto mitigare ancora gli effetti del contagio.
«Si è verificata una trasmissione da movida, da vacanza, da discoteca: ambienti chiusi e affollati. L'aria condizionata ha contribuito a diffondere con più facilità il virus».
Saremo pronti a gestire i contagi da Covid in autunno?
«Abbiamo imparato molto a livello clinico. Abbiamo imparato a prevenire la cosiddetta tempesta citochinica. Se questo virus lo lasciamo andare, c'è il rischio che l'infiammazione produca serie complicazioni, come embolie polmonari e ipercoagulazione. E poi, abbiamo imparato a usare alcuni farmaci importanti».
Per esempio?
«Il desametasone: un vecchissimo farmaco, che è un salvavita anche in una condizione abbastanza avanzata della malattia, non solo in quella iniziale. E poi il remdesivir, autorizzato anche dalla Fda americana e già noto per essere efficace contro la Sars e la Mers. C'è da essere un po' più ottimisti: anche se non ho la sfera di cristallo, più che una seconda ondata mi aspetto una convivenza con il virus».
Sta dicendo che il coronavirus è destinato a diventare endemico, come lo sono diventati altri virus?
«Questo virus non si estinguerà come quello della Sars, che aveva una letalità molto più elevata. Oggi la percentuale dei decessi sui casi diagnosticati è bassa, tra il 3 e il 4%. Ma sappiamo che il numero di infezioni è almeno 4 o 5 volte maggiore rispetto a quelle confermate, per questo credo che la mortalità scenderà all'1% o anche sotto. Un virus con questi numeri è destinato a rimanere e a tornare con stagionalità ogni autunno e inverno. Ora che abbiamo affinato le metodologie diagnostiche e terapeutiche, dovremmo concentrare gli sforzi per proteggere gli anziani e per bloccare i nuovi focolai».
Secondo l'ultimo monitoraggio settimanale dell'Istituto superiore di sanità, ce ne sono 1.374 attivi, di cui 490 nuovi.
«Ci sono focolai in Italia in cui la replicazione è esponenziale. Si stanno tracciando i contatti e si scoprono casi tutti i giorni. Questo ci deve allarmare. Da un punto di vista virologico, analizzare la modalità di replicazione virale nei focolai è fondamentale».
Questo parametro assume ora una maggiore rilevanza rispetto al numero dei morti e all'indice di riproduzione di base del virus?
«Da tempo sostengo che i numeri dei morti e dei positivi al tampone, che non significa soggetti malati, non andrebbero presi giornalmente. La misurazione dell'Rt, ora che i ricoveri si sono ridotti e i nuovi contagi non presentano sintomi rilevanti, ha poco significato».
A che punto siamo con il vaccino?
«Una risposta la avremo quando sarà completata la fase 3, raggiunta solo da alcuni vaccini. In base all'esperienza di Ebola, penso che per avere un vaccino a disposizione sia necessario attendere un anno e mezzo, anche due. Anche in questo caso verrà rispettata tale temporalità».
Dovremmo attendere la prossima primavera, come spiegato da Francesco Vaia, direttore sanitario dell'ospedale Spallanzani di Roma?
«Se avremo un vaccino pronto per il prossimo anno, sarà per utilizzarlo in forma sperimentale sui soggetti più a rischio: medici, infermieri, operatori sanitari nelle case di riposo per anziani e chi lavora nella sanità pubblica».
Si discute molto sull'obbligatorietà del vaccino. Lei da che parte sta?
«In vista della stagione autunnale, credo sia più importante discutere su altre due vaccinazioni da stimolare: l'antinfluenzale e il vaccino contro lo pneumococco».
Le regioni sono corse ad acquistare l'antinfluenzale: l'incremento medio è del 43%.
«Vaccinarsi servirà per semplificare le diagnosi: questo autunno ci troveremo a fare i conti non solo con il coronavirus, ma anche con l'influenza, con i 4 virus parainfluenzali, con l'adenovirus, solo per citarne alcuni».
Secondo Federfarma, 1,2 milioni di persone rischiano di rimanere senza vaccino contro l'influenza.
«In Italia, tra le persone che dovrebbero vaccinarsi, la copertura è del 50%. E poi, sa chi si vaccina meno di tutti contro l'influenza?».
Me lo dica lei.
«I medici e gli infermieri. E vorrei stigmatizzare questo segnale: chi è a contatto con i malati non può correre il rischio di trasmettere l'influenza. Per loro, vaccinarsi è un dovere».
Il 14 settembre si torna in classe. Eppure, sulla ripresa regna ancora il caos.
«Il governo centrale ha dimostrato di non essere in grado di dare linee guida chiare su principi semplici. Credo sia opportuno che l'operatività venga lasciata alle Regioni».
Per Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico, le mascherine in classe non servono per i bambini tra i 6 e i 10 anni se viene rispettata la regola del distanziamento di almeno 1 metro.
«La mascherina va data a chi la sa usare. Fino ai 10 anni, condivido la scelta di non imporla. In determinate condizioni, temerei più le complicanze che può provocare».
Che cosa intende?
«Immagini un bambino in classe per sei ore: in tutto quel tempo si toccherà il naso, alzerà la mascherina, la appoggerà sul tavolo. Se usate impropriamente, le mascherine possono diventare una fonte di contagio».
Che cos'altro non la convince delle nuove regole pensate per la scuola?
«Senza dubbio, la misurazione della temperatura a casa».
Condivide la linea del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che vuole la rilevazione a scuola?
«Lasciare ai genitori la rilevazione della temperatura non ha senso. Le temperature dei ragazzi devono essere prese a scuola, tutte con lo stesso strumento».
Preoccupano anche i trasporti. Sembra che il Cts sia disposto ad aumentare la capienza dei mezzi.
«Bisogna fare molta attenzione ai trasporti: il distanziamento nelle classi è inutile se ammassiamo i bambini nei bus o nei treni provinciali ci sono studenti a contatto gomito a gomito. Ma al di là delle mascherine e dei banchi, credo che il tema vero sia un altro».
Quale?
«La sicurezza nelle scuole verrà garantita solo se saremo in grado di intervenire presto nel focolaio, qualora se ne accenda uno. Se si accende, dobbiamo evitare la crescita esponenziale del virus. Dobbiamo fare quarantene selettive e parziali, ma non possiamo permetterci di bloccare oltremodo la scuola. Non possiamo rinunciare a quelle che sono le priorità per una nazione. Prima viene la salute, certo, ma poi ci sono l'istruzione, la scienza, la cultura. Non possiamo permetterci di far perdere anni scolastici ai ragazzi, di impoverire le generazioni che verranno».
Professore, un'ultima domanda che riguarda lei e la sua categoria, quella dei virologi. Per Ilaria Capua «la pandemia poteva essere evitata. La comunità scientifica ha fallito e deve fare autocritica». Che ne pensa?
«Per prevenire le pandemie bisognerebbe investire di più in virologia, soprattutto in quella evoluzionistica. Non credo che questa pandemia fosse prevedibile. Avremmo potuto fare di più, forse, se i cinesi non avessero ritardato la trasmissione delle informazioni. Sappiamo che il virus circolava già a settembre, perché le informazioni sono arrivate solo 4 mesi dopo?».






