2021-07-09
La scuola è nel caos, ma il ministro pensa al sesso
Il ministro non risponde sul rientro in aula a settembre: preferisce parlare di affettivitàGià oggi l'urgenza di molti medici in Italia è sostenere la causa di donne divenute «uomini» che «desiderano una gravidanza» Ma quando il patema dei «pronomi corretti» sopravanza l'obiettivo di risolvere problemi ai pazienti, non è più scienza. È ideologiaLo speciale contiene due articoli Il ministro Patrizio Bianchi sembra essere convinto di non avere abbastanza gatte da pelare, tanto che è andato a cercarsene un'altra, e pure bella grossa. Il fatto che il ritorno in classe in presenza non sia ancora garantito pare non rappresentare un grosso problema per il responsabile dell'Istruzione. Qualora infatti a settembre la situazione andasse a catafascio, il nostro formidabile Bianchi ha già pronto il capro espiatorio: gli italiani. «Non è che il ritorno in presenza è un problema solo del governo: tutti dobbiamo lavorare per tornare alla normalità», ha detto ieri partecipando a La Repubblica delle idee. «Io me ne sto già occupando, voglio che se ne occupino anche gli altri, voglio che lo facciamo assieme. Io ci sono ma dovete esserci anche voi». Il messaggio è abbastanza chiaro: se non si riuscirà a tornare in aula fisicamente, daremo la colpa ai non vaccinati o ai soliti «irresponsabili» buoni per tutte le stagioni. Dopo tutto, il povero Bianchi è soltanto un ministro, che pretendete da lui? Sempre ieri ha replicato un po' spazientito a una mamma che gli chiedeva di risolvere il problema delle classi troppo affollate: «Classi pollaio? Non sono Harry Potter né Albus Silente». Come a dire: mica ho i poteri magici, accontentatevi di quel che sto facendo. Il punto è proprio questo: che sta facendo, di preciso, il signor ministro per garantire il ritorno in presenza? Boh. In compenso, ha avuto la brillante idea di buttare sul tavolo un altro argomento per niente complesso: l'educazione sessuale a scuola. «È ora di andare avanti, se ne parla da quando ero piccolo io», ha dichiarato. «Bisogna educare tutti noi agli affetti, e c'è ovviamente una parte fondamentale di sesso, che è una parte della nostra vita, e quindi sta dentro all'idea che a scuola stiamo formando i nostri ragazzi alla vita». Vero: Bianchi ha risposto a una domanda, non ha emesso una circolare. Però il solo fatto che certe idee gli frullino in testa suscita una profonda inquietudine. Primo perché, appunto, la scuola italiana ha una marea di problemi che andrebbero risolti (a parte evitare la dad ci sarebbe, tra le altre cose, da assumere un po' di insegnanti). Ma soprattutto perché di certe questioni sarebbe decisamente meglio se il ministero proprio non si occupasse. Non ci sfugge che i ragazzi abbiano, in questi anni, un rapporto sempre più difficile con la sessualità. Un rapporto che una miriade di elementi concorre a complicare ulteriormente: dalla diffusione smisurata della pornografia in Rete all'aumento del bullismo; dal confronto forzato con culture diverse all'emergere prepotente delle questioni Lgbt. Farsi carico di tale, ponderoso fardello non è compito della scuola, che, per altro, allo stato attuale nemmeno ne sarebbe in grado. L'educazione all'affettività, come va di moda chiamarla ora, così come quella alla sessualità compete alla famiglia. E se la famiglia non è in grado di fornirla per vari motivi, è compito dello Stato supportarla e aiutarla, non sostituirsi ad essa. L'idea di introdurre l'educazione sessuale a scuola è caldeggiata da molti, specie a sinistra. Ma rifiutarla non è cosa da bigotti. Al contrario, non c'è nulla di più libertario che evitare alle istituzioni di infilarsi nell'intimità degli studenti. Se è vero che la liberazione sessuale male interpretata e peggio realizzata provoca scompensi nell'età verde, è ancor più vero che le difficoltà non si possono sciogliere con la burocratizzazione del sesso. È un vizio antico quello di affidarsi a improbabili commissioni e stravaganti «linee guida» al fine di risolvere faccende estremamente delicate. Sappiamo bene dove questa tendenza possa condurre. I progetti di educazione affettiva messi in campo nel corso degli anni si sono rivelati spesso una scusa per introdurre nelle scuole concetti balzani simili a quelli presenti nel ddl Zan. E di sicuro, a questo riguardo, non confortano le scelte ideologiche prese da Bianchi in altri ambiti. Basti ricordare che ha affidato il compito di vigilare sui programmi di Storia a gente che ama paragonare Salvini a Hitler e si diverte quando vede la Meloni a testa in giù. Chissà a chi potrebbe affidare una eventuale commissione sull'educazione sessuale. Il ministro vuole sincerarsi che gli studenti vivano gli affetti nel modo giusto? Bene: li faccia tornare in classe. Il resto, vedrete, verrà da sé.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-scuola-e-nel-caos-ma-bianchi-pensa-alleducazione-sessuale-per-studenti-2653719161.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prossima-frontiera-far-partorire-i-maschi" data-post-id="2653719161" data-published-at="1625766978" data-use-pagination="False"> Prossima frontiera: far partorire i «maschi» «In Italia essere un uomo transgender e portare avanti una gravidanza è ancora un problema». Il titolo dell'articolo è esattamente questo, senza un filo d'ironia. Si tratta di un lungo servizio apparso nei giorni scorsi su Fanpage.it e dedicato a quelli che in inglese si chiamano seahorse dad («papà cavalluccio marino»), ovvero «gli uomini transgender che desiderano portare avanti una gravidanza». Ecco la misura della mistificazione, della perversione delle parole operata nella convinzione che basti modificare il linguaggio per ribaltare la realtà. Provate a rileggere le frasi appena citate, e riflettete sul loro significato. Per prima cosa, vi viene presentata come un dato di fatto l'esistenza di «uomini transgender». Viene cioè stabilito che per diventare maschi (o femmine) sia sufficiente un'operazione chirurgica, un intervento della tecnica. In secondo luogo, vi viene presentato come normale il fatto che un uomo possa «portare avanti una gravidanza», cancellando così la differenza radicale della femmina rispetto al maschio, la quale consiste appunto nella capacità di mettere al mondo figli. Poi c'è un ulteriore passaggio: questi «uomini transgender» non solo possono «portare avanti una gravidanza», ma ne hanno pure il diritto in quanto «lo desiderano». Infine, la conclusione implicita del ragionamento: se il fatto che un «uomo trans» possa partorire vi sembra strano, il dramma è tutto nella vostra testa. Siete voi, retrogradi e bigotti, a far sì che sia «ancora un problema» questa assurda «gravidanza maschile». Ora, se a propagandare la sovversione della realtà fosse semplicemente un articolo su Fanpage, poco male. Il guaio vero è che a diffondere questo genere di idee provvede, tramite il giornale online, Giulia Senofonte, endocrinologa e dottoressa presso l'ospedale Umberto I di Roma. Parliamo del policlinico universitario legato all'università La Sapienza, cioè una delle strutture a cui in Italia ci si può rivolgere per le operazioni di cambiamento di sesso. La dottoressa Senofonte spiega che in Italia gestazioni da parte di trans non ci sono ancora state. «Succede nei Paesi più aperti», sospira l'esperta. «In Italia non voglio nemmeno pensare a cosa potrebbe accadere a un ragazzo con la barba magari al settimo mese di gravidanza. Purtroppo è un fenomeno che va contestualizzato». Già, a quanto pare dalle nostre parti si è ancora molto arretrati. «Se io sono un uomo trans e voglio avere una gravidanza devo andare nel privato, perché con il mio codice fiscale non posso accedere al pubblico dato che per lo Stato italiano ora sono un uomo», continua la Senofonte. «Se sono un uomo trans omosessuale è impossibile avere un figlio, a meno che non decida io di portare avanti la gravidanza. È tutto troppo complicato e dovrebbe cambiare la legislazione, allo stato attuale bisogna andare all'estero». È chiaro, la prossima battaglia dovrà essere quella per sdoganare le gravidanze transgender, come ci ha gentilmente ricordato una copertina dell'Espresso di qualche settimana fa. Suscita un vago senso di inquietudine trovare tracce di ideologia così profonde negli specialisti che lavorano negli ospedali italiani. Pensavamo che il Saifip (Servizio di adeguamento tra identità fisica e identità psichica) che opera all'interno del San Camillo di Roma fosse un caso particolare. Ma a quanto pare un po' ovunque scienza e ideologia si mescolano, e la seconda esercita una influenza fondamentale sulla prima. Abbiamo già raccontato quali siano le convinzioni dei professionisti del Saifip, espresse con chiarezza anche in audizione parlamentare alla Camera. E probabilmente non è un caso che pure Maddalena Mosconi, responsabile dell'area minori del Saifip, sia molto interessata ai temi della «genitorialità trans». In un'intervista al Corriere della Sera del 2019, la psicologa raccontò di essere al lavoro con una decina di ragazzi intenzionati a cambiare genere e in procinto di iniziare la terapia ormonale. «Stiamo riflettendo», disse, «sulla possibilità che possano raccogliere e crioconservare i propri gameti (liquido seminale oppure ovociti) prima che gli ormoni ne annientino la capacità riproduttiva. Come specialisti, il nostro compito è quello di offrire loro il supporto e le informazioni necessarie affinché possano compiere la scelta che ritengono più giusta, non solo per l'immediato, ma anche per il futuro». In attesa che si inizi a combattere per sostenere «gli uomini incinti», i medici italiani si concentrano su altre lotte «per i diritti». Giulia Lo Russo, celebre chirurgo dell'ospedale Careggi di Firenze (forse il centro più noto per il cambiamento di sesso in Italia), di recente ha spiegato come trattare chi intende sottoporsi alla transizione di genere. «È assolutamente da abolire l'uso del nome di nascita e si deve chiamare il paziente col nome che ha scelto», ha detto la dottoressa. «Non uso mai la parola transessualismo, in quanto la riassegnazione di genere non ha nulla a che vedere col sesso, è una questione di identità e genere, perciò uso solo la parola transgender. Poi è fondamentale l'uso corretto del pronome». Quest'ultima dichiarazione è un concentrato di ideologia, come dimostra la riflessione sull'uso dei «pronomi corretti». La parola «transessualismo», inoltre, viene combattuta perché i movimenti trans stanno cercando in ogni modo di «desessualizzare» tutto ciò che li riguarda. «L'opinione corretta da avere ora è che i trans non traggano il minimo brivido sessuale all'idea di essere trans», ha scritto l'intellettuale inglese Douglas Murray. In realtà, ricerche autorevoli come quelle di J. Michael Bailey della Northwestern University hanno mostrato l'esistenza di una correlazione fra transessualismo (soprattutto maschile) e desiderio sessuale. Purtroppo Bailey, dopo la pubblicazione del suo studio, è stato attaccato ferocemente e persino minacciato (assieme ai suoi figli piccoli) da attivisti trans. È così che l'ideologia mette in ombra la ricerca scientifica. E allora capite bene che i dubbi crescono. Quando sentiamo un medico parlare di questioni Lgbt ci chiediamo ogni volta: dove finisce la conoscenza scientifica e dove inizia la visione imposta da associazioni e militanti? Ce lo domandiamo leggendo ciò che dice alla Stampa la neuropsicologa infantile Chiara Baietto dell'ospedale Regina Margherita di Torino. A suo dire, il percorso dei bimbi trans può iniziare addirittura «a 2-5 anni». Certo non stupisce che a quell'età si manifesti androginia, piuttosto lascia perplessi l'inserimento in un percorso che possa prevedere utilizzo di «pronomi corretti». La dottoressa Damiana Massara, coordinatrice del Cidigem delle Molinette di Torino, fa sapere ad esempio che nel suo centro «aiutiamo i genitori ad accettare le prove, i vestiti, il farsi chiamare con un nome al maschile o al femminile». Tutto questo perché «se si dà modo di provare e tempo il ragazzo capirà cosa desidera». Come vedete siamo sempre lì, al desiderio. È il desiderio che detta legge e si trasforma quasi automaticamente in «diritto». Resta da dimostrare come e quanto desideri e diritti debbano avere a che fare con la scienza.