
Alla «prima» grande enfasi per gli applausi a Sergio Mattarella e Liliana Segre, ignorata fino a ieri. Ma la macchina antisovranista dimentica che Giacomo Puccini, autore della «Tosca», voleva lo «Stato forte» e osannò Benito Mussolini «che ha salvato l'Italia dallo sfacelo». Mancava solo il geometra Luciano Calboni di fantozziana memoria a spellarsi le mani e a gridare: «È un bel presidente!». Lo certificano i resoconti di cronaca della prima della Scala sui principali quotidiani: Sergio Mattarella è stato accolto a Milano da grida di giubilo: «Bravo presidente!» e «Viva il presidente!». Ed è estremamente rilevante ai fini di indagine sui sentimenti degli italiani notare che, secondo gli stessi giornali, nel 2018 l'anonimo urlatore aveva sbraitato soltanto «Bravo presidente!». Quel «Viva!» in più - ci suggeriscono i fini analisti - è chiaramente da leggersi come la vera e viva espressione dell'anima del popolo italiano, ovviamente interpretabile in chiave antisovranista.Ne siamo certi poiché la piaggeria è ormai elevata a scienza infallibile. Dice Repubblica che gli applausi al presidente sono durati la bellezza di 3,26 minuti di cronometro, anche se tutti arrotondano a 4. Dopo tutto, nel 2018 qualcuno scrisse addirittura che l'ovazione era durata 5 minuti, e questo non è proprio possibile: il consenso presidenziale deve aumentare da un anno all'altro, non scemare. Chi dice il contrario è senz'altro un controrivoluzionario. È giusto così, bisogna arrotondare per eccesso, poiché - apprendiamo ancora una volta leggendo - il battimani di ieri l'altro alla Scala si è arrestato solo perché il direttore Riccardo Chailly ha fatto suonare dall'orchestra l'inno di Mameli. Altrimenti, ne sono tutti certi, gli applausi sarebbero proseguiti per 5, 6, 10, 20 minuti. Talmente a lungo che la Tosca manco sarebbe andata in scena: un'ora di applausi a Mattarella e via tutti a casa, chissenefrega dell'opera. In effetti, del dramma pucciniano interessa davvero poco ai più. Quel che conta, come sempre, è la politichetta. L'importante è sentenziare che la platea milanese - benché non esattamente popolare visti i prezzi della prima - ha espresso «affetto per Liliana Segre» (e cosa vi aspettavate, che le tirassero i pomodori?). La quale Segre, per altro, è abbonata alla Scala da 30 anni e nessuno prima d'ora l'aveva notata. Ora però ci sono i sovranisti, c'è questo clima... Dunque pure la più piccola smorfia ostile alla destra ringhiante va messa in risalto. Bisogna poi dire che la Tosca è un'opera femminista, tirare in ballo il femminicidio, e andare in sollucchero se alla fine, invece di gettarsi nel vuoto il regista la fa ascendere al cielo, simbolo della donna che finalmente si ribella al maschio oppressore. La prima della Scala, insomma, è il baluardo della Resistenza. Là dove un tempo si tiravano uova agli odiati borghesi impellicciati oggi si suona la fanfara antifascista, e gli intellettuali combattenti scendono nella mischia. Tra un abito griffato e l'altro, non a caso, spuntano pure i mustacchi di Patti Smith, già eroina della contestazione e «poetessa punk», quella di People have the power. Il popolo avrà pure il potere, ma lei ha il palco, perciò la rivoluzione ha vinto. Il regista David Livermore, lo scorso anno, spiegava che al teatro milanese si rafforza l'amore per la Costituzione. Stavolta ha fatto di più. Con leonino coraggio ha attaccato Giulio Tremonti, il quale «25 anni fa ha ridotto i finanziamenti del 33% e non sono mai stati ripristinati». Non pago ha aggiunto che oggi «troppi politici non dicono che il fascismo è fuorilegge e bisogna cominciare a ribadirlo». Giusto, via i fascisti dalla Scala democratica. Non sia mai che prevalga la tentazione messa in evidenza dai sondaggi squadernati proprio mentre la Tosca iniziava, rilevazioni secondo cui una bella fetta di italiani auspica l'avvento di un «uomo forte». Ah, sapete chi la vedeva così? Giacomo Puccini. Non fu fascistissimo poiché morì nel 1924, ma fece in tempo a scrivere: «E Mussolini? Sia quello che ci vuole! Ben venga se svecchierà e darà un po' di calma al nostro Paese». Secondo un suo amico e biografo, poi, il compositore aveva idee piuttosto chiare in tarda età: «Io sono per lo Stato forte», confessava. «A me sono sempre andati a genio uomini come De Pretis, Crispi, Giolitti, perché comandavano e non si facevano comandare. Ora c'è Mussolini che ha salvato l'Italia dallo sfacelo». Poi aggiungeva: «La Germania era lo Stato meglio governato, che avrebbe dovuto servire da modello per gli altri. Non credo alla democrazia perché non credo alla possibilità di educare le masse. È lo stesso che cavar l'acqua con un cesto! Se non c'è un governo forte, con a capo un uomo col pugno di ferro come Bismarck una volta in Germania, come Mussolini adesso in Italia, c'è sempre pericolo che il popolo, il quale non sa intendere la libertà se non sotto forma di licenza, rompa la disciplina e travolga tutto. Ecco perché sono fascista: perché spero che il fascismo realizzi in Italia, per il bene del Paese, il modello statale germanico dell'anteguerra».Vabbè, saranno state interpretazioni forzate dal regime dopo la morte del musicista, e comunque di adesione al Male non si può parlare. E in fondo, poi, che importa. 3,26 minuti applausi a Mattarella, e tutto il resto svanisce in sottofondo, oscurato dalla potenza del coro che rimarca: «È un bel presidente!».
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





