2020-12-15
La paura del voto vanifica la mossa del cavallo
Secondo Repubblica, il D-day è fissato per il 28 dicembre. Sarebbe dunque l'ultimo lunedì dell'anno il giorno che Matteo Renzi avrebbe segnato sul calendario per il duello finale con Giuseppe Conte. A meno che il presidente del Consiglio non si inginocchi sulla via di Rignano, il fondatore di Italia viva andrà allo scontro, pronto anche a staccare la spina e a rischiare le elezioni.Così almeno scrive il quotidiano diretto da Maurizio Molinari. Ma chi conosce bene il senatore semplice di Scandicci dubita che l'ex premier voglia arrivare alla resa dei conti prima della fine dell'anno. «Mettetevi tranquilli», dicono a Firenze, «fino all'11 gennaio il Bomba non farà niente». La data non sarebbe casuale, ma quella del suo quarantaseiesimo compleanno: «Tutte le grandi scelte Renzi le ha fatte dopo, compreso far cadere il governo Letta».Sarà vero? Nessuno è in grado di assicurarlo, perché se c'è una cosa che l'ex presidente del Consiglio ama più d'ogni altra è sparigliare le carte. Ogni passaggio cruciale della sua storia politica infatti è disseminato di colpi di scena, vale a dire di giuramenti fatti il giorno prima e traditi subito dopo. Non c'è solo la mossa del cavallo, ovvero la smentita di una linea politica portata avanti per un anno e sintetizzabile in uno slogan: «Mai con i 5 stelle». C'è anche «enricostaisereno», l'hashtag lanciato poche settimane prima di pugnalare il nipotissimo. C'è la promessa che non sarebbe mai andato a Palazzo Chigi senza prima passare dalle elezioni. C'è l'impegno solenne di cambiare mestiere in caso di sconfitta al referendum. E pure se sepolte nella memoria, ci sono poi alcune altre parole date che sono state smentite dai fatti come, dopo la sconfitta alle primarie, la decisione solenne di tornare a fare il sindaco. Sì, insomma, su ciò che dice Renzi nessuno è convinto di mettere la mano sul fuoco senza bruciarsela. L'ultima volta è stata la sfiducia a Bonafede, ministro della Giustizia: neanche il tempo di discuterne che Renzi aveva già cambiato idea.Dunque, se è vero che adesso l'ex segretario del Pd giura e stragiura che non farà passi indietro, e a procedere in retromarcia dovrà essere per forza Giuseppe Conte, risulta difficile credergli. Soprattutto è impossibile pensare che la sua guerra alla cabina di regia per il Recovery plan sia davvero convinta. In Senato, Renzi ha bombardato l'idea, bollandola come un tentativo di esautorare il Parlamento e lo stesso Consiglio dei ministri dei poteri di controllo e indirizzo sui miliardi in arrivo dalla Ue. In realtà, il primo che impedì alle Camere di ficcare il naso nella gestione delle decisioni di Palazzo Chigi fu lui, quand'era premier. All'epoca, siamo tra il 2014 e il 2016, Renzi varò alcune task force per esautorare i ministeri e portare sotto la sua ala i provvedimenti. Ci provò anche con la cybersecurity, tentando di sottrarre le attività di monitoraggio delle minacce via Web non solo ai servizi segreti, ma anche al comitato che vigila sugli 007. Tuttavia, al di là di quanto sia fondata o meno la sua critica alla task force con cui Conte vorrebbe concentrare nelle sue mani tutto il potere sui fondi europei, resta un tema, ovvero fino a che punto Renzi intenda arrivare e soprattutto di quali armi disponga per indurre il presidente del Consiglio a piegarsi. Alla crisi di governo che sfocia in nuove elezioni non crede nessuno, perché se davvero il fondatore di Italia viva volesse andare fino alle estreme conseguenze si tratterebbe di un suicidio. Con il voto, il senatore semplice di Scandicci rischierebbe di tornare in Parlamento con una pattuglia decimata, che secondo alcuni non andrebbe oltre i cinque onorevoli. No, Renzi non vuole le elezioni. Gli basterebbe cacciare Conte e sostituirlo con qualcuno che, quanto a vanità e ambizione, non lo oscuri. E magari gli consenta di far meglio i suoi giochi, sulle nomine e sulle partite che gli stanno a cuore. Alla fine, però, l'uomo potrebbe accontentarsi di ciò che ha negato di volere, ossia del rimpasto. Del resto, se uno premette di non essere attaccato alla poltrona e di essere pronto a mollarla è perché alla poltrona tiene. Oppure perché è pronto a rinunciare alla cadrega, ma solo in cambio di una che conti di più. Chi lo conosce bene giura che finirà così, con qualche posto in più, un'operazione indolore che non richiederebbe neppure di dover passare dalle Camere per votare la fiducia. Il riferimento è a trent'anni fa, quando Sergio Mattarella e altri quattro ministri della sinistra Dc si dimisero dal governo Andreotti per protesta contro la legge Mammí. Il precedente garantirebbe che cambiare fino a cinque ministri si può, anche senza la crisi. E poi, diciamoci la verità, tranne i tre o quattro che contano, tutti gli attuali titolari di dicasteri sono figurine intercambiabili, che si possono mettere o far dimettere per garantire che la legislatura prosegua senza scossoni. E che Renzi si possa accomodare dopo l'ennesima mossa del cavallo. Ovvero, dopo l'ennesima giravolta.