
Bella ed elegante, è una donna di classe. Berlusconiana di ferro e assai decisa, non ha però mai fatto parte di cerchi magici. Per il leader di Forza Italia ha sempre combattuto a viso aperto. E da presidente del Senato ha subito demolito le fissazioni di Laura Boldrini. Già prima donna presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati è ora anche la seconda del gentil sesso (preceduta da Nilde Iotti, negli anni Ottanta) incaricata di sondare gli umori per un nuovo governo. Il tutto è accaduto in 3 settimane, meno di quanto serva a una crisalide per diventare farfalla. Una fulminea ribalta per una politica da un quarto di secolo ma finora appartata per naturale discrezione. Bella ed elegante settantunenne, Elisabetta Alberti, coniugata Casellati (nozze d'oro quest'anno) ha tutte le caratteristiche della gallinella padovana. Sono così designate nella sua città - Padova, appunto - le signore che per classe suscitano un'ammirazione pari alla candida ovaiola nota per il ciuffo lezioso. Elisabetta è una berlusconiana di ferro. S'infatuò del Cav quando ancora non era entrato in politica, colpita dal suo appoggio all'ex missino, Gianfranco Fini, contro il radical chic Francesco Rutelli. Ricorderete: era il novembre del 1993 e i due gareggiavano per il Campidoglio. «Se fossi a Roma, sceglierei Fini», dichiarò pubblicamente Silvio Berlusconi, noto all'epoca solo per le tv. «Mi piacque il coraggio», mi raccontò anni dopo la signora durante un'intervista e aggiunse: «Non conoscevo Silvio, ma pensai subito: “Questo ha i connotati"». Che fu un modo elegantissimo per alludere alla maschia determinazione del futuro premier. Così, nonostante un superbo studio matrimonialista a Padova, Elisabetta si convertì alla politica. Già nel 1994, con la discesa in campo del Cav, entrò in Senato. Rieletta poi ogni volta - salvo uno stop nella XIII legislatura (1996-2001), in cui fu battuta da un leghista -, è oggi alla sesta esperienza parlamentare. Un solido curriculum che deve alla propria determinazione. Non ha però guastato la grande amicizia con il collega e concittadino, Niccolò Ghedini, legale principe del Cav e, a sua volta, parlamentare da lunghi anni. E ha anche aiutato la protezione di Giancarlo Galan, dimestico di Silvio per essere stato dirigente di Publitalia, prima di diventare governatore Fi del Veneto per un quindicennio e sdrucciolare, ahimè, su tangenti e corruzione. Grazie ai due introduttori, Alberti Casellati imboccò la porta principale, godendo fin dall'inizio del favore dell'Arcoriano. Una benevolenza senza doppi sensi. Precisazione necessaria con quel birichino del Berlusca. Nonostante sia tra le fedelissime di Silvio, Elisabetta si è sempre tenuta a distanza dai cerchi magici. Non è mai stata confidente delle favorite che si alternavano al talamo del Cav, né ha frequentato le cene eleganti. Non era, insomma, tra le pie donne che attorniavano il Berlusca nelle sue crisi di sconforto, portandogli dolcetti fatti a mano, spingendolo a bere tisane e mandare giù antidepressivi, con l'obiettivo di intorcinarselo per i propri intenti. Le sue battaglie a favore di Silvio le ha fatte a viso aperto. Sia con l'arma del diritto da sottosegretario alla Giustizia del IV governo del Cav (2008-2011) e poi membro laico del Csm (2014-2018). Sia con interventi mediatici che hanno lasciato il segno. A indignare la senatrice fu soprattutto il caso di Ruby, la rubacuori marocchina che innescò una medievale inchiesta sull'incauto premier. Alberti Casellati affrontò in tv il giornalista Marco Travaglio in un'epica trasmissione in cui minacciò pure di andarsene. Quando poi, nel maggio 2013, si aprì il processo sui giochi d'alcova, Elisabetta sfilò con altri 150 parlamentari di Fi davanti al tribunale di Milano per protestare contro la foga inquisitoria del pm Ilda Boccassini che ficcanasava tra i piumini del Cav. Così come, il 27 novembre 2013, si vestì tutta di nero per la seduta del Senato che decise la radiazione di Silvio dopo la condanna per frode fiscale. «È un giorno di lutto per la democrazia», dichiarò Alberti Casellati insieme ad altre colleghe in gramaglie, tra cui Anna Maria Bernini. Nome, quest'ultimo, di tutto rispetto (oggi è capogruppo di Fi al Senato) che mi suggerisce un'altra virtù della nostra Elisabetta: accetta il fluire del tempo senza esorcizzarlo con espedienti chirurgici come invece la pur bella senatrice Bernini ha fatto con qualche larghezza. Il solo aiutino cui Alberti Casellati ricorre è, per sua stessa ammissione, l'eyeliner. Ha infatti dichiarato, esponendo la propria teoria estetica: «Detesto unghie lunghe e bocche colorate. Ma gli occhi devono essere truccati». Ho già detto di avere intervistato la senatrice. Aggiungo che ne ebbi un'impressione notevole. Le sue prime parole furono: «Chi mi conosce sa che, se parlo, sparo direttamente al cuore». Insomma, avrai pane per i tuoi denti. Ero lì infatti, in quel maggio 2005, per controllare un'indiscrezione giornalistica. La senatrice - all'epoca sottosegretario alla sanità del terzo governo Berlusconi - aveva nominato capo della segreteria la propria figlia Lodovica a 60.000 euro annui. Poiché pareva uno sfacciato favoritismo, mi ero presentato per capire. Posta la domanda, Elisabetta mi fulminò con lo sguardo mentre i gioielli, che le adornavano orecchie, collo e vestito, cominciarono a tintinnare per un fremito di stizza. Sbottò: «Mia figlia è la migliore. Ha un curriculum eccezionale. Non era una disoccupata. Anzi ha lasciato il posto fisso che da 10 anni aveva in Publitalia (col senno di poi: procurato da Galan? ndr) per fare la precaria da me. Lo stipendio non l'ho deciso io. Comunque, è lo stesso che aveva prima. Contento?», concluse guardandomi con sfida. «Sì, grazie», replicai avendo saputo quanto volevo. Elisabetta si rabbonì e cominciò a raccontarmi di sé. Prima di riferirvi, faccio un inciso. La figlia, Lodovica, lasciò poco dopo l'incarico per ragioni di opportunità. La senatrice, capito l'errore, ha sempre evitato di ripeterlo come dimostra la recente storia del figlio. Costui, Alvise - avvocato come la mamma e il papà, Giambattista - ha l'hobby del maestro d'orchestra. Nei giorni scorsi, a Genova, ha diretto un'opera di Giacomo Puccini e la mamma, per assistervi, ha preso un aereo di linea, rinunciando a quello militare cui aveva diritto come seconda carica dello Stato. Come dire: per un fatto privato non spendo soldi pubblici. Tornando al nostro incontro, le chiesi cosa c'entrasse un avvocato matrimonialista (difese Stefano Bettarini nel divorzio da Simona Ventura) con la sanità di cui era sottosegretario. «Gli Alberti», replicò, «sono giuristi e medici. Io stessa tergiversai tra l'uno e l'altro. Così, di 4 fratelli, 2 siamo avvocati, 2 dottori». Fino al colpo di fulmine per il Cav aveva votato Pli. Tradizione di famiglia. Il padre fu partigiano liberale. Condannato a morte dai fascisti, scampò per miracolo. Nel 1946, era vicequestore del Cln a Rovigo, dove nacque Elisabetta. La prima tenzone politica della senatrice fu con Romano Prodi. Gli dette del Pinocchio perché negava di tingersi i capelli. La moglie, Flavia, la sfidò: «Vuole le mandi una ciocca da analizzare?». Lei replicò da matrimonialista: «Le donne sono sempre le ultime a saperlo. Non si fidi di lui». In seguito, ha suscitato altre ire a sinistra. Ha chiesto la riapertura delle case chiuse e si è pronunciata contro le unioni omo e le adozioni gay. Il 24 marzo, eletta alla testa del Senato, ha demolito le fissazioni di Laura Boldrini: «Sono presidente, non presidentessa». Un ritorno ai fondamentali.
Il governatore: «Milano-Cortina 2026 sarà un laboratorio di metodo. Dalle Olimpiadi eredità durature per i territori».
«Ci siamo. Anzi, ghe sem, come si dice da queste parti». Con queste parole il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha aperto l’evento La Lombardia al centro della sfida olimpica, organizzato oggi a Palazzo Lombardia per fare il punto sulla corsa verso i Giochi invernali di Milano-Cortina 2026.
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
Audito dalla commissione Covid Zambon, ex funzionario dell’agenzia Onu. Dalle email prodotte emerge come il suo rapporto, critico sulle misure italiane, sia stato censurato per volontà politica, onde evitare di perdere fondi per la sede veneziana dell’Organizzazione.
Riavvolgere il nastro e rivedere il film della pandemia a ritroso può essere molto doloroso. Soprattutto se si passano al setaccio i documenti esplosivi portati ieri in commissione Covid da Francesco Zambon, oggi dirigente medico e, ai tempi tragici della pandemia, ufficiale tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Di tutte le clamorose notizie diffusamente documentate in audizione, ne balzano agli occhi due: la prima è che, mentre gli italiani morivano in casa con il paracetamolo o negli ospedali nonostante i ventilatori, il governo dell’epoca guidato da Giuseppe Conte (M5s) e il ministro della salute Roberto Speranza (Pd) trovavano il tempo di preoccuparsi che la reputazione del governo, messa in cattiva luce da un rapporto redatto da Zambon, non venisse offuscata, al punto che ne ottennero il ritiro. La seconda terribile evidenza è che la priorità dell’Oms in pandemia sembrava proprio quella di garantirsi i finanziamenti.
Quest’anno in Brasile doppio carnevale: oltre a quello di Rio, a Belém si terrà la Conferenza Onu sul clima Un evento che va avanti da 30 anni, malgrado le emissioni crescano e gli studi seri dicano che la crisi non esiste.
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Il 9 novembre 1971 si consumò il più grave incidente aereo per le forze armate italiane. Morirono 46 giovani parà della «Folgore». Oggi sono stati ricordati con una cerimonia indetta dall'Esercito.
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Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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