2019-02-27
La cura Di Maio per il M5s: basta vincoli di mandato. Intanto lui si blinda 4 anni
Svolta da partito: «Dialogo con le liste civiche». I consigli comunali come «palestre» dei candidati nazionali. Il suo ruolo: «Resto il capo politico».Dopo la spinta di Via XX settembre per la Tav, il premier rilancia il piano per sbloccare i cantieri con la regia di Palazzo Chigi. In ballo ci sono opere congelate per decine di miliardi.Lo speciale contiene due articoli«Il corpo è cambiato ma l'anima è sempre la stessa». Il giorno dopo la seconda batosta elettorale in tre settimane, Luigi Di Maio non si sente sotto processo e presenta due priorità: accelerare sul progetto di trasformazione del Movimento 5 stelle in partito politico e convincere gli elettori che nessuno, ma proprio nessuno, dei valori originari verrà intaccato. «Onestà, lotta alla corruzione e agli sprechi, modernizzazione sostenibile, il ritorno del cittadino al centro della politica: le bandiere continueranno a sventolare mentre il bambino cresce», è il mantra nel quartiere generale grillino. Perché il risultato finale non dovrà essere Frankenstein junior e neppure E.T. ma un partito maggiorenne con la testa a Roma e il cuore sul territorio, dove oggi arrivano le legnate più dolorose.«È il momento di cambiare passo e pensare al futuro», spiega il vicepremier, prima ai giornalisti e subito dopo agli adepti via Web. E il futuro prevede quattro capisaldi: alleanze con liste civiche vere, più presenza ed esperienza nei comuni, via il vincolo di mandato per i consiglieri. E lui in sella per altri quattro anni. «Scriveremo insieme il programma per le elezioni del 26 maggio; inizierà su Rousseau un percorso di ascolto degli iscritti (una settimana) per decidere come dare una nuova organizzazione al Movimento. Dobbiamo dare un colpo di reni per poter avere una forza maggiore per migliorare l'Italia e l'Europa. E per farlo abbiamo bisogno di organizzarci meglio». La necessità s'era mostrata dopo la sconfitta in Abruzzo e si è trasformata in urgenza dopo il flop sardo. Messa la sordina ad Alessandro Di Battista e chiesto al presidente della Camera, Roberto Fico, di non sbandare troppo a sinistra, non c'erano altre mosse da fare attorno agli uomini. Di Maio ha quindi smentito dissapori con Beppe Grillo: «Ci siamo sentiti dieci minuti fa, non c'è nessun diverbio. Ma vi ringrazio per ciò che scrivete, ci costringete a sentirci ancora di più». Poi ha ribadito che «il governo va avanti per cinque anni». E ha ricordato soprattutto ad uso interno che «del capo politico se ne riparla fra quattro anni, non sto pensando al mio terzo mandato». La causa del misero 9,7% in Sardegna secondo lui è organizzativa, strutturale. Per vincere le amministrative bisogna radicarsi nei comuni, nelle città, nelle regioni. «I due temi più delicati su cui ora dovrà aprirsi il dibattito» prosegue Di Maio nel dipingere il movimento 2.0, «sono gli apparentamenti con le liste civiche e la deroga alla regola dei due mandati. Avvieremo un dialogo con le vere liste civiche. Ci sono liste fabbricate in provetta che non ci interessano mentre ci sono gruppi civici che sul territorio collaborano col Movimento». La scrematura sarà impegnativa «per evitare trappole». Lo sblocco dei due mandati (che per ora non vale per i parlamentari) è fondamentale proprio per presidiare le amministrazioni locali, con lo scopo di costruire una classe dirigente all'altezza, una vera scuola di partito sul territorio sulla scorta di ciò che la Lega ha realizzato al Nord. Maggiore esperienza, un parco più ampio di candidati competenti da proiettare a livello nazionale. Con un problemino: il Carroccio, per essere tale, ha impiegato 20 anni. Di Maio non ha fretta. «Possiamo discutere di nuove regole per i consiglieri comunali. Per esempio che il loro secondo mandato non valga e possano candidarsi anche al consiglio regionale o in Parlamento. Ma per maturare quell'esperienza, il primo mandato da consigliere lo devi fare». Le sconfitte hanno fatto riflettere i leader pentastellati, i quali hanno compreso che lo scenario è cambiato. «Oggi siamo al governo e sappiamo che, oltre che a livello nazionale, è fondamentale lavorare a livello locale ed europeo. Per questo vogliamo migliorare la nostra organizzazione. Possiamo farlo individuando persone, di comprovata competenza, che siano un punto di riferimento del Movimento per i vari mondi che ogni giorno si mettono in contatto con noi. Dal mondo dell'impresa al mondo delle università e del volontariato, dai sindaci alle camere di commercio passando per le associazioni e i comitati».La base della piramide dovrà essere più larga, il vertice invece no. Il vicepremier tira dritto e ribadisce: «Ogni volta si canta la morte del cigno, la morte del M5s, ma noi siamo vivi e vegeti. E lo dico non perché dica che va tutto bene, ma perché penso che le amministrative non abbiano alcun impatto sulla vita del Movimento e tanto meno del governo». La botta sembra assorbita e certi desideri inespressi dalla pancia parlamentare dei grillini (per esempio sostituire il ministro Danilo Toninelli per le sue gaffe) rimangono a livello gossip. Domanda bruciante a Circo Massimo (Radio Capital): le esternazioni di Toninelli vi fanno perdere voti? Risposta del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Stefano Buffagni: «Non posso rispondere...». Parte il circo mediatico, vuoi vedere che è vero? Allora Buffagni precisa: «Toninelli sta svolgendo un gran lavoro in un ministero non facile come quello delle Infrastrutture. Una domanda così non meritava risposta, mi sono limitato a una risata». Avanti il prossimo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-cura-di-maio-per-il-m5s-basta-vincoli-di-mandato-intanto-lui-si-blinda-4-anni-2630095811.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="linedita-sponda-tra-conte-e-tria-per-mettere-in-moto-gli-investimenti" data-post-id="2630095811" data-published-at="1757853386" data-use-pagination="False"> L’inedita sponda tra Conte e Tria per mettere in moto gli investimenti Al confine tra opportunità (economica) e rischio (politico), l'inedito tandem Giuseppe Conte-Giovanni Tria cerca di giocare la carta di un'accelerazione sugli investimenti, forse profittando del momento di sbandamento dei 5 stelle, dopo la doppia sberla in Abruzzo e in Sardegna, e confidando che il potere di interdizione pentastellato sia - per un fazzoletto di settimane - meno potente e occhiuto del passato. Il primo a provarci, l'altra sera, a urne appena chiuse, è stato il ministro dell'Economia. Ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, Tria si è schierato non solo a favore della Tav, ma di una direzione di marcia complessiva: «Non mi interessa l'analisi costi-benefici. Il problema è che nessuno verrà mai a investire in Italia se il governo non sta ai patti, cambia i contratti e le leggi, e le fa retroattive». Neanche il tempo di sbollire l'arrabbiatura e far passare la notte, che già ieri mattina a qualche grillino di peso sarà andato di traverso il caffè leggendo l'intervista a Giuseppe Conte su Il Sole 24 Ore: «Ho firmato i decreti su cabina di regia, struttura di missione e piano anti dissesto. In settimana tocca alla centrale di progettazione. Anticiperemo per decreto la riforma del codice degli appalti». Da quanto si comprende, la cabina di regia garantirà «il raccordo per un'efficace integrazione tra gli investimenti promossi e favorire l'accelerazione degli interventi finanziari». Ancora: la cabina dovrà «individuare le cause di eventuali ostacoli e ritardi relativi allo stato di attuazione di piani e interventi». Insomma, far partire i lavori e accompagnare passo dopo passo la soluzione di ogni criticità. Per ciò che riguarda il codice degli appalti, l'obiettivo è smontare la macchina mostruosa concepita ai tempi del ministro Graziano Delrio: spostando un po' di controlli a valle, ed evitando il meccanismo paradossale per cui si scrivono norme a maglie talmente strette da divenire inapplicabili, anzi da imporre immediate e plurime deroghe o richieste di leggi speciali. Tutto ciò viene incontro a un'esplicita richiesta del mondo produttivo, Confindustria e Ance in testa, e affronta uno dei due nodi essenziali per la crescita (l'altro è ovviamente la riduzione fiscale). Sugli investimenti, nella legge di stabilità, c'era stato un primo (e triplo) passo: per le regioni, erano state introdotte norme sulla contabilità che permutano la spesa corrente in spesa per investimenti; per le province, erano stati stanziati 250 milioni di fondi strutturali; per i comuni, erano stati coperti gli avanzi di bilancio, di fatto incoraggiandoli a sbloccare gli investimenti. D'altra parte, però, la trattativa con Bruxelles aveva in vari aspetti peggiorato la legge di bilancio, con 4 miliardi di investimenti in meno rispetto alla versione iniziale della manovra. Su questo, tuttavia, il governo non si era perso d'animo. Alla Camera, alla vigilia dell'ultima presenza europea di Giuseppe Conte, lo stesso premier aveva fatto annunci precisi: «Sugli investimenti», aveva detto, «il governo sta per adottare un decreto che ripartisce le risorse, pari ad un ammontare di circa 36 miliardi, del fondo per gli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese. Contestualmente, stiamo lavorando al decreto di ripartizione dei fondi stanziati per il 2019, dando priorità ai progetti fermi esclusivamente per mancanza di fondi. Sono sufficienti poco più di 900 milioni per garantire la messa in opera di infrastrutture del valore di quasi 2 miliardi. L'effetto sull'economia di questi interventi sarebbe immediato». Tutto questo eterogeneo pacchetto dovrebbe avere due punti di caduta. Da un lato, dare impulso anche agli investimenti privati, con un messaggio alle imprese: la mano pubblica investe, ora ci sono le condizioni affinché pure le aziende private tornino a scommettere. Dall'altro, immaginare un secondo tempo (più positivo) della partita con Bruxelles, che si era aperto proprio con l'ultimo colloquio tra Conte e Jean-Claude Juncker, nel quale Conte aveva iniziato a illustrare il ruolo «fluidificante» della cabina di regia. E il governo ha un obiettivo ambiziosissimo: arrivare allo sblocco di una massa enorme di risorse, il cui ammontare nel tempo potrebbe arrivare fino a 140 miliardi. Tra l'altro, c'è un precedente, legato a una scelta autolesionista della manovra 2017 del governo Gentiloni, che bloccò (fu il famoso comma 466) ben 16 miliardi di investimenti che erano già nella disponibilità delle amministrazioni periferiche. Ma il timore di aumentare il deficit portò quell'esecutivo a decidere uno stop, successivamente sconfessato dalla Corte Costituzionale. Ora, dinanzi a una massa di investimenti ancora maggiore, occorre evitare che siano i «vigili urbani» di Bruxelles ad alzare la paletta un'altra volta. Diventa dunque essenziale (Conte potrà farlo in modo più flautato e suadente, i leader della maggioranza in modo più robusto) convincere Bruxelles a smettere di dire no a tutto: a tagli-choc delle tasse e ad aumenti consistenti degli investimenti.
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)