2023-11-22
La contessa Alberica Filo della Torre e il delitto dell'Olgiata: il racconto del figlio Manfredi
True
Nonostante la condanna a 16 anni, Manuel Winston Reyes, reo confesso dopo il Dna, nel 2021 fu scarcerato dopo poco meno di 10 anni. Manfredi Mattei, il figlio dell’aristocratica assassinata il 10 luglio 1991: «Il messaggio che dà lo Stato è sbagliato. Il problema è che quando uno ammazza qualcuno, dice, vabbè lo ammazzo ma al massimo probabilmente mi faccio dieci anni…».Per l’identificazione e l’arresto di Manuel Winston Reyes che, il 10 luglio 1991, tra le 8:45 e le 9:15, assassinò Alberica Filo della Torre, 42 anni, nella sua camera da letto della villa all’isola 28 dell’Olgiata, a Roma, occorsero vent’anni. Se gli inquirenti avessero ascoltato tutte le registrazioni disponibili delle telefonate dell’ex-cameriere filippino della contessa, avrebbero trovato quella che lo incastrava. Stava contattando un ricettatore per vendere i gioielli rubati in quella stanza al primo piano, dove fu sorpreso dalla nobildonna, che uccise, prima tramortendola con due colpi di zoccolo alla fronte e poi strozzandola mediante stretta della carotide con due dita, pratica diffusa in estremo oriente. C’era quel lenzuolo imbrattato di sangue con cui l’assassino avvolse il capo della vittima, prima di dileguarsi indisturbato. Le indagini non diedero esito. Nel 2005, l’archiviazione. Se Pietro Mattei, classe 1942, il marito di Alberica, si fosse rassegnato al decorso investigativo, oggi quel delitto sarebbe un caso irrisolto.In quella calda estate del 1991 si scatenava Tangentopoli. I romantici ascoltavano Se stiamo insieme di Cocciante, i rockettari Losing my religion dei Rem. Su quell’omicidio nacquero ipotesi di ogni tipo. I lati occulti della «Roma andreottiana», i fondi neri del Sisde, il cui capo-gabinetto, Michele Finocchi, frequentava casa Mattei e si sarebbe invaghito della contessa, la frenesia dei «palazzinari», la maxi-tangente Enimont, tutto finì in un gran crogiolo. Mettici la curiosità sugli enigmi della haute, quella vicenda divenne una telenovela e, sul versante giudiziario, un «pasticciaccio», come quello raccontato da Carlo Emilio Gadda su un simile delitto romano, quello di via Merulana, romanzo incompiuto, caso insoluto. Ma chi uccise la contessa? Dopo l’archiviazione, lo gnommero, a Roma il gomitolo, fu sbrogliato nel 2011. Non c’entravano né conti esteri, né mazzette o 007, faccende su cui la magistratura scagionò i Mattei. Alberica Filo della Torre fu uccisa dal filippino che la subissava di richieste di denaro mai restituito e, poco prima del reato, fu licenziato. Con 71 campionature, i Ris dei carabinieri, incaricati dalla pm Francesca Loy, lo inchiodarono attraverso il Dna trovato soprattutto sul lenzuolo. L’intercettazione prima non sbobinata, fu un’altra conferma. Nel 1991 Manfredi Mattei, il figlio dell’aristocratica, aveva 9 anni. Si trovava, con la sorella Domitilla, 7 anni, un bambino coetaneo, l’insegnante d’inglese e due cameriere filippine, al piano terra della dimora nell’esclusiva enclave residenziale dell’Olgiata, protetta da vigilantes, sulla Cassia, a nord di Roma, pochi servizi fuori, molti agi dentro. La madre scese, in vestaglia bianca, per far funzionare un tostapane. Poi risalì la scala, verso il suo tragico destino. Su questo giallo, il canale Nove di Discovery+, sta mandando in onda un docufilm.Che lavoro fa?«Faccio il ristrutturatore edile, papà faceva il costruttore, io piccole operazioni di recupero edilizio, mia sorella fa la stilista. È stata molto più sveglia di me». Come ricorda la sua infanzia fino a quel giorno orribile?«Eravamo una famiglia felice, da sogno. Abbiamo avuto la fortuna di avere un padre che in quegli anni di boom ebbe una serie di successi lavorativi non indifferenti. Papà era diventato dirigente della Vianini e il braccio destro di Caltagirone, sicuramente una situazione invidiabile a molti». E sua madre?«Era una donna molto severa, bella tosta. Quando facevo qualcosa di non proprio ordinario, mi prendeva per i capelli e mi trascinava per casa… Però detto questo, qualcosa per cui uno potrebbe dire “chiamo Telefono azzurro”, siamo cresciuti abbastanza bene, con buoni valori. Era elegante, c’erano questi ricevimenti con tante persone. Poi uno, negli anni, scopre che appartenevano a un mondo importante, dove giravano un sacco di soldi…». Ma un ricordo che preferisce?«Le vacanze in montagna, i viaggi. Mio padre ci portò in Florida, andammo a Disneyworld con mia mamma che ci portò in giro con mio padre… Io e mia sorella con questi cappelli da Paperino io e da Paperina lei, loro si erano comprati quelle cose turistiche…».E subito dopo il delitto?«Ricordo che fummo allontanati e andammo a dormire da amici. Andare a casa era difficile perché c’erano la polizia, i giornalisti che giravano in cerca di scoop. Una volta, in un passaparola, uno disse “ce’ sta Margherita”, il cane, “che corre intorno alla piscina”. Sui giornali uscì che la piscina era piena di margherite, un letto di margherite in ricordo di mamma…». Poco dopo cambiaste casa?«Sì, varie volte, siamo andati alla Giustiniana, ai Parioli, poi mio padre dietro al Vaticano».Vi ha cresciuto vostro padre…«Sì, ci ha cresciuto. Ha provato, negli anni, a ricostruirsi una vita. Purtroppo si è trovato spesso a interfacciarsi con donne che non erano il massimo del cristallino».Non si è più risposato?«No. Lui ebbe, sul finire degli anni ’90, una storia, incontrò un’amica con cui si erano conosciuti negli anni ’70, era separata dal marito e tornata in Italia, una lunga storia, finì tutto credo nel 2009, quando ci fecero la rapina alla Giustiniana. Mi riempirono di botte, 20 giorni di ospedale. Non avevamo né Rolex né collier di diamanti, spendevamo i soldi per i mobili, per studiare, insomma cose un po’ più intelligenti…». Aveste ancora filippini tra il vostro personale di servizio?«Posso risponderle alla romana?».Certo.«Col cazzo (sorride). Non per il discorso dei filippini in sé, ma abbiamo iniziato ad avere coppie dell’est Europa, una signora che teneva in ordine la casa, mentre un’altra persona faceva le manutenzioni in giardino…». Dopo quel fattaccio, con vostro padre parlavate della mamma? «Era un argomento che usciva quando uno faceva qualche gaffe a livello di educazione, della serie “se ve vedesse vostra madre!”. Poi papà ogni tanto tirava fuori racconti che era anche bello sentire». Sapevate del fatto che stava facendo di tutto per trovare l’assassino di Alberica? Mise anche una taglia di 500 milioni di lire.«Assolutamente sì. Nonostante alcuni diverbi, anche per questioni lavorative, “dopo tanti anni, lascia perdere! Le cose sono andate così…”, aveva ragione lui. È stata la più grande lezione di vita che un figlio possa avere». Aveva sospetti su Manuel Winston Reyes?«In realtà, come gli investigatori, i sospetti più forti li avevamo su Roberto Iacono (figlio dell’insegnante di inglese, ndr.)». Qualora, dopo la prima archiviazione del caso, non ne avesse invocato la riapertura, l’assassino di sua madre sarebbe stato trovato? «Ne dubito fortemente».Ci riuscì, ma nel 2008 nuova archiviazione. I tre consulenti tecnici della Procura non furono all’altezza. Poi la pm Francesca Loy e i Ris lo risolsero. Da qui la causa civile, con richiesta di risarcimento per la fondazione “Alberica Filo della Torre”, che presiede. «Il risarcimento è stato riconosciuto con sentenza di primo grado, ma quei soldi sono congelati perché, in appello, è stata annullata. La fondazione va avanti con fondi di tasca nostra. Siamo in attesa del giudizio della Cassazione (Jacopo Squillante, legale della famiglia Mattei, del foro di Roma, conferma e invia sentenza n. 8079 della 13ª sezione civile del tribunale di Roma, ove si legge che, per “la consulenza errata” e “il ritardo nell’accertamento della verità resosi possibile solo con il deposito della consulenza dei Ris”, ai consulenti Albarello, Pascali e Vecchiotti, si chiedeva un risarcimento di danni “complessivamente quantificati in euro 120.000”)».Suo padre presentò anche un esposto al Csm.«Sì, quando furono aperti i fascicoli e si è vista la sciatteria con cui furono svolte le attività investigative. I reperti del nostro caso furono persino mescolati con quelli di un altro (nella relazione di Marina Baldi, perito di parte dei Mattei, si legge che in un plico furono trovate «formazioni pilifere del piccolo Samuele Lorenzi», delitto di Cogne, ndr.)». Nonostante la condanna a 16 anni, Reyes, reo confesso dopo il Dna, nel 2021 fu scarcerato dopo poco meno di 10. Come reagiste e come avrebbe reagito suo padre, che mancò prima, il 24 gennaio 2020?«Ci è spiaciuto, perché è morta mia madre e, come si dice a Roma, te rode pure il culo. Il messaggio che dà lo Stato è sbagliato. Il problema è che quando uno ammazza qualcuno, dice, vabbè lo ammazzo ma al massimo probabilmente me faccio diec’anni… Non credo che mio padre si sarebbe stupito più di tanto». La vostra fondazione vorrebbe costituire un data base sui cold case. Lo farete?«Ci stiamo lavorando, iniziando con i documenti del caso di mamma. Il problema degli altri casi è capire normativamente come poterli inserire. Dovrebbero essere solo casi chiusi o archiviati». La villa dell’Olgiata è ancora di vostra proprietà? «Sì, ma è chiusa dal 2022, per una procedura giudiziaria a causa di un debito di una società. Stiamo cercando di sistemare i conti e riscattarla. Negli anni abbiamo avuto inquilini. L’ultimo è stato un simpatico giocatore della Lazio che non pagava gli affitti, ma vabbè…». Ci è entrato?«Spesso, e penso sia stata la cosa più giusta da fare per oltrepassare una situazione simile, andare in quel posto, ci tornavo anche da ragazzino a tagliare le siepi». Le è capitato di sognare sua madre? «Ultimamente sogno mio padre che me cazzia nel sonno e mi dà qualche consiglio… Mia mamma un po’ meno. È la loro saggezza che abbiamo incamerato in gioventù e poi il subconscio la tira fuori quando ce’ stanno momenti de difficoltà…».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)