
La tentazione di collegarsi per esprimere le perplessità dell’Italia c’è, anche se sarebbe bizzarro sedersi a un tavolo di «volenterosi» solo per ribadire l’assoluto no all’invio di truppe italiane in Ucraina. Giorgia Meloni, a quanto apprende La Verità, non ha ancora deciso definitivamente, ma l’orientamento è disertare il vertice in video convocato per sabato prossimo dal premier britannico Keir Starmer, al quale parteciperanno i leader della cosiddetta «coalizione dei volenterosi», gli Stati che hanno dato o daranno la loro disponibilità all’eventuale invio di truppe di peacekeeping. Il «no» all’invio di soldati italiani è un limite invalicabile per il governo, tuttavia l’evoluzione del quadro internazionale è talmente veloce da lasciare ancora una porticina aperta.
La proposta Usa-Ucraina di una tregua di un mese è sul tavolo, ed è stata accolta con grande favore da Giorgia Meloni, da sempre scettica (eufemismo) sulla strampalata idea di una Europa che si potesse sganciare dagli Usa. Tra l’altro, se ci fosse una missione Onu, sostenuta anche dagli Usa, l’Italia potrebbe prendervi parte. Roma continua a rappresentare la capitale dell’equilibrio e della responsabilità: il governo ha esplicitato in tutti i modi la sua posizione di netta contrarietà a strappi con gli Usa, ma senza dall’altro lato rompere i rapporti con le cancellerie europee. Un esempio: l’altro ieri Emmanuel Macron, di concerto con la Gran Bretagna, ha convocato a Parigi i vertici militari degli Stati pronti a fornire un contributo a un’eventuale azione di peacekeeping, al di là dell’invio di soldati: Albania, Germania, Australia, Austria, Belgio, Bulgaria, Canada, Cipro, Croazia, Danimarca, Spagna, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Islanda, Giappone, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Montenegro, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia e Turchia. Presente anche l’Italia, con il capo di Stato maggiore della Difesa, Luciano Portolano, in qualità di «osservatore». La riunione convocata da Starmer per sabato, però, ha un significato molto diverso rispetto all’incontro dei militari: partecipare al summit dei «volenterosi» vuol dire essere pronti a impegnarsi sul campo, opzione che per Giorgia Meloni non esiste, e partecipare da «osservatore» sarebbe politicamente impossibile.
Un elenco di governi pronti a inviare truppe in Ucraina, non è noto, ma oltre a Gran Bretagna e Francia hanno dato una disponibilità di massima Australia, Irlanda, Lussemburgo, Belgio e Turchia, mentre sono possibilisti Canada, Danimarca e Svezia. L’Italia e la Polonia sono nettamente contrarie, e così anche la Spagna, come ha ribadito proprio ieri davanti ai suoi parlamentari il ministro degli Esteri di Madrid José Manuel Albares, mentre la Germania è in un momento di transizione tra il cancellierato di Olaf Scholz (contrario) e quello di Friedrich Merz. Ieri anche la Finlandia ha ufficializzato il suo «no»: «Siamo pronti a fornire assistenza in qualsiasi modo per noi conveniente», ha affermato il primo ministro Petteri Orpo, «ma non invieremo personale militare in Ucraina. Sarebbe pericoloso che i militari finlandesi vengano esposti al rischio di conflitto con le forze armate di un Paese vicino». C’è anche da sottolineare un dettaglio non di poco conto: «La Russia al tavolo» ha sottolineato a 5 Minuti, su Rai 1, il ministro Crosetto, «non accetterà mai che ci siano in Ucraina solo truppe europee. L’unica possibilità è una coalizione internazionale. Esiste un solo esempio al mondo di una cosa tipo quella che si sta immaginando per l’Ucraina, ed è in Corea. Tra la Corea del Nord e la Corea del Sud ci sono 18.000 soldati Onu per 250 km. Se si moltiplicano quei 18.000 soldati per la lunghezza del confine ucraino avrebbe 200.000 persone. Molte di più di quelle che si stanno ipotizzando».
Nessuna opzione che contempli una frattura tra Europa e Stati Uniti verrà presa in considerazione da Giorgia Meloni, come si è visto anche ieri all’Europarlamento, dove i deputati di Fdi si sono astenuti su una mozione sull’Ucraina che, ha spiegato Nicola Procaccini, non teneva conto «delle novità delle scorse ore» finendo «per scatenare odio verso gli Usa invece di aiutare l’Ucraina». La posizione assunta da Roma, è improntata al più solido realismo: del resto, basta poco per comprendere come anche chi pubblicamente si lancia in proclami anti Trump, da Londra a Parigi a Bruxelles a Kiev, poi dietro le quinte si affretta a tentare di accreditarsi come interlocutore privilegiato con la Casa Bianca. La cautela è un obbligo, anche perché il gioco dell’amministrazione Usa non è a carte scoperte: non manca chi ha maliziosamente osservato che in fondo la proposta di un mese di tregua avanzata da Usa e Ucraina alla Russia era stata messa sul tavolo pochi giorni prima da Francia e Gran Bretagna, che l’avevano poi rimessa in un cassetto. Dalla risposta della Russia dipende quello che accadrà nei prossimi giorni: un «no» provocherebbe una reazione molto dura degli Usa, un «sì» aprirebbe la strada al vero negoziato. Iniziative come quelle dei «volenterosi» appaiono al momento velleitarie nel migliore dei casi, controproducenti se finiscono col mettere i bastoni tra le ruote a chi si sta muovendo nella direzione della fine della guerra, ovvero Trump.






