2018-05-11
«Ho girato film ovunque, ritornare in Italia il mio sbaglio peggiore»
Venantino Venantini, un nome che non si dimentica, una faccia da canaglia: «Devo tutto alla Francia che mi adottò. E mi chiama ancora per farmi lavorare».Venantino Venantini, un nome che non si dimentica, che rimane impresso nella memoria come un gioco di parole. La faccia poi basta averla vista una volta, in uno qualsiasi dei tanti film da lui interpretati. Un bello tradito da un sorriso da canaglia. Più che un sorriso, un ghigno, una smorfia. Eppure in Italia quel nome e quella faccia sono confusi tra tanti, in quel limbo tra i divi e i mestieranti, a un passo dalla consacrazione. Ma il destino è strano e quello stesso Venantini in Francia è un'autentica star, invitata anche di recente per una celebrazione organizzata dalla Gaumont. Per i nostri cugini Venantini è Le dernier de tontons flinguers, come recita il titolo della sua autobiografia, edita da Michel Lafon (e ovviamente inedita in Italia). L'ultimo superstite di un film che in Francia è entrato nel mito: Les Tontons flinguers di Georges Lautner, con Lino Ventura e Bernard Blier.Venantini, grazie a quel film per lei è cominciata, nel 1963, una carriera francese costellata di successi e riconoscimenti. «La Francia era nel mio destino. Sono nato lo stesso giorno di Rémy Julienne, il più grande stuntman francese, il 17 aprile 1930, e come lui ho lavorato in giro per il mondo. Ma devo tutto alla Francia, che mi ha adottato fin da giovane. Facevo il pittore, ma a Roma non succedeva nulla. Allora ho preso la cassetta dei colori, le tele e la chitarra e sono partito per la Francia».Come?«In Lambretta... Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti, io le ho attraversate senza! Ci ho messo quasi sei giorni. Avevo 25 anni e un po' di soldi guadagnati facendo il generico nei kolossal, Cleopatra, Ben-Hur... Parlavo l'inglese perché avevo lavorato per due anni all'ambasciata americana».In Francia che ha fatto?«Ho vinto una borsa di studio per la scuola di Belle arti. Un giorno è venuto Georges Braque. Giacca nera di velluto a coste, capelli bianchi, una Gitanes sulla bocca, una bella faccia. Io all'epoca ero molto preso dagli impressionisti, davo tutte pennellatine con i miei piccoli pennelli. È arrivato il mio turno. Braque ha guardato la modella al centro della sala, poi ha osservato il mio quadro. “Non è male... da dove viene, giovanotto?". “Roma, Italia...". “Siete italiano? Permettete?". Ha allungato la mano, mi ha tolto i pennelli e li ha appoggiati sul tavolo. “Voi siete italiano... large... large"! Mi ha aperto gli orizzonti e ancor oggi che dipingo non ho dimenticato il suo insegnamento». Quando ha cominciato a fare l'attore seriamente?«C'entrano sempre la Francia e la pittura. Facendo il generico, avevo conosciuto Bianca Lattuada, la sorella del regista, che si occupava di casting. Quando sono partito per la Francia, mi aveva chiesto di lasciarle delle foto. Dopo un anno e mezzo che stavo a Parigi, il portiere della scuola mi ha detto: “C'è un italiano per te". Era Pietro Germi in persona, che stava preparando Un maledetto imbroglio. Doveva venire a Parigi con il suo assistente Nino Zanchin e Bianca gli aveva detto che lì viveva un ragazzo dalla faccia interessante. Quando è arrivato, stavo dipingendo nell'atelier con le modelle. Germi mi ha chiesto se ero interessato a fare cinema. Gli ho risposto: “Faccio il pittore, non mi interessa il cinema. Grazie molto". E lui: “Mi congratulo con lei. È la prima volta che mi si rifiuta di fare un film". E se n'è andato. Qualche mese dopo è arrivato Franco Rossi. Il portiere: “C'è un italiano per te". È salito su. “Bianca mi ha parlato di lei. È interessato per un ruolo? ". “No, grazie, io faccio il pittore". Se ne stava per andare. Per curiosità gli ho chiesto: “Dove lo girate questo film?". “A Tahiti". Stop, Tahiti, Gauguin... “Quando partiamo?". “Prima devi fare il provino!". Ho fatto il provino fuori Parigi e mi hanno preso per Odissea nuda».Con Enrico Maria Salerno...«Grande personaggio, conosceva tutte le poesie di Baudelaire a memoria! È uno dei primi film sull'alienazione, sul cambiamento dell'uomo. Tahiti era un paradiso terrestre. Non esiste al mondo un posto simile. Il modo di vivere, le donne, la natura... Sono rimasto a vivere lì per un anno. Ho conosciuto grande personaggi: il primo navigatore solitario, Thor Heyerdahl, il più grande vulcanologo del mondo, Haroun Tazieff. Poi c'erano straordinari registi francesi: Cayatte, Clouzot... I produttori li mandavano a scrivere dove volevano, loro sceglievano Tahiti e non tornavano più. Ho conosciuto pure Marlon Brando, che girava Gli ammunitati del Bounty. Al suo arrivo la produzione affittò una decina di donne per mettere sul collo dell'attore alcune corone di fiori in segno di benvenuto. Brando scese dalla barca e nessuna ragazza lo riconobbe. “Questo è il paese mio!" E si comprò un atollo, Tetiaroa. L'ho conosciuto una sera nella villa di Nancy Johnson, dei motoscafi Johnson, e mi ha comprato un quadro, un ritratto di una tahitiana, per 300 dollari, cash».Perché è tornato in Italia?«Perché noi italiani siamo dei fregnoni! Ho fatto male a lasciare New York, ho fatto male a lasciare la Francia, ho fatto un sacco di errori».Non è più tornato a Tahiti?«Quello è l'unico errore che non ho fatto. Mi hanno invitato molte volte, ma non voglio rovinare il ricordo».La svolta della sua carriera, almeno in Francia, è stato Les tontons flingueurs.«Lì lo conoscono anche i bambini! Ho campato di rendita, come nomea, grazie a questo film. Era girato tutto in argot, la lingua dei malviventi. In Italia lo hanno chiamato In famiglia si spara, che non c'entra nulla. Recitavo al fianco di Lino Ventura, che non voleva girarlo. Ricordo che un giorno mi disse: “Ho visto un film di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano: mi ha ucciso! È come se avessi visto attraverso il buco di una serratura"». Ha avuto la fortuna di lavorare con tutti i grandi attori francesi, o quasi.«Ho girato quattro film assieme a Jean-Paul Belmondo, con il quale continuo a sentirmi, e ho lavorato anche con Alain Delon».Che differenze c'erano tra i due?«La cosa curiosa è che il patrigno di Delon faceva il macellaio, Belmondo invece proveniva da una famiglia borghese. E invece sembra l'opposto...».E la loro rivalità?«Certo, erano rivali, ma avevano bisogno l'uno dell'altro». Ha lavorato anche con i divi americani.«Ero amico di Jack Palance, grande collezionista di quadri. Prima di recitare, nella Guerra continua di Leopoldo Savona, si assentava. Poi si sentivano delle urla: era lui che si caricava! In Lo sbarco di Anzio di Edward Dmytryk, che venne a casa mia e mi comprò un quadro, c'erano Peter Falk e Robert Mitchum. Ricordo che Mitchum diede due schiaffi alla figlia perché era tornata tardi la sera. Ma su di lui l'aneddoto più bello risale a La cena di Ettore Scola. Era un film corale, eravamo tantissimi attori. Io ho fatto una scena molto divertente con Gassman. Giravamo in una grande casa colonica, vicino a Cinecittà, a via delle Capannelle. Scola ci disse che voleva parlarci. “Voi siete tutti bravi, altrimenti non sareste qui con me, però vi do un consiglio su come recitare. Dovreste studiare come recita...". Noi ci siamo guardati: “Chi?". “Robert Mitchum". Non me lo sarei mai aspettato. Quest'aneddoto fa il pari con un altro: Dino Risi, con il quale ho girato La moglie del prete con Mastroianni e la Loren, mi raccontò che una sera a cena con Mario Monicelli scrissero su un menù chi era secondo loro il più grande attore del mondo. Entrambi scrissero il nome di James Cagney».Le piacevano gli attori americani?«Loro sanno fare tutto: andare a cavallo, sparare, ballare, ma come fanno? Saranno cani, ma cani bravi. A me però piaceva Mastroianni, lui era tutto, eppure mi diceva: “Venantino, io voglio avere la tua vita". Ci siamo ritrovati in Almeria. Io giravo Mania di grandezza di Gérard Oury, con il grandissimo Louis De Funès e Yves Montand, e Marcello discuteva al telefono, oltreoceano, con Faye Dunaway. Poi c'erano Toshiro Mifune, Alain Delon e Charles Bronson che giravano Sole rosso di Terence Young, e Yul Brynner, che girava Catlow, aveva una roulotte enorme e in fondo c'era un quadro gigantesco di El Greco. Eravamo tutti in Almeria! Ma la cosa che mi piaceva di più degli americani era il beach-volley. Sono stato il primo a portare in Italia la pallavolo da spiaggia, al Gambrinus di Ostia. L'avevo imparata in California».Ha vissuto anche lei il sogno americano...«Su consiglio di Georges Lautner, il regista di Les Tontons flinguers, con il quale ho girato altri sei film, Èdouard Molinaro venne in Italia per offrirmi una parte per Il vizietto. Soldi pochissimi, tre soli giorni di ripresa. Sono l'autista, con la Rolls Royce, il cappello nero e i guanti bianchi, di Michel Galabru, grande attore. Lui faceva la parte di un politico che la sera andava a divertirsi e per questo veniva inseguito dai giornalisti, i quali venivano da me a chiedere dove sarebbe andato. In America il film spopolò grazie alla comunità gay. Da cosa nasce cosa. Mi notarono: l'Abc cercava un attore francese per una soap opera, di quelle interminabili, La valle dei pini. Mi fecero il provino e mi dissero, come sempre: “Le faremo sapere". Cercarono in Francia un attore e poi presero me: ero meglio degli attori madrelingua. L'agente allora mi disse: “A te ti vendo come un hot dog"! Ho girato un film con il cantante Leif Garrett, poi, siccome noi italiani siamo dei fregnoni, sono tornato in Italia. È la storia della mia vita! Per fortuna, i francesi mi amano e ogni tanto mi chiamano».