2023-03-10
Marzia Ubaldi: «Ecco perché De André non mi ha ucciso»
La sua vita è il teatro, ma ha trovato una seconda giovinezza con la serie tv «Call my Agent»: «Iniziai al Piccolo, poi mi trasferii a Genova dove conobbi Faber. Cantai a modo mio e incisi una sua canzone. Ne temevo la reazione... Disse che era una meraviglia».Dopo tanti anni di teatro, il cinema e la televisione hanno scoperto il talento di Marzia Ubaldi, una delle protagoniste della serie Call my Agent, in onda su Sky. Nella sua carriera ha spaziato in ogni forma dello spettacolo con la versatilità che ha contraddistinto lei e il suo compagno di vita e di scena Gastone Moschin. Com’è nata la sua vocazione alla recitazione? «Non c’erano artisti in famiglia. Mia madre adorava il teatro e mi ci portava fin da piccolina: io ero affascinata da quel miracolo pazzesco che vedevo nascere sul palcoscenico. Ho cominciato a fare degli spettacolini per i miei amichetti, verso i cinque anni, nell’androne del palazzo dove abitavo, a Milano. Entrando, c’erano, sulla destra, quattro larghi gradini che portavano a un pianerottolone. Due porte ai lati fungevano da quinte. Sembrava un vero palcoscenico! I miei amichetti si portavano la seggiolina e io esigevo da tutti un “pedaggio”: una caramella, un biscottino…». Quando ha intrapreso questa strada, non avrà quindi incontrato ostacoli in famiglia?«Invece sì! Mia madre aveva un atelier di moda e voleva che lavorassi con lei. Allora le modelle non erano altissime né magrissime come oggi, così io, per fare contenta mia madre, ho frequentato una scuola per modelle, dove mi hanno insegnato a camminare, a truccarmi… Ho fatto questo lavoro per un paio di mesi, poi ho pensato: “Non fa per me” e, di nascosto, ho fatto l’esame di ammissione alla scuola del Piccolo Teatro di Milano. Mi hanno presa, sono tornata a casa e ho annunciato: “Io vado alla scuola del Piccolo. Basta con la moda”. Tragedia!».I suoi genitori come hanno reagito?«Mio padre mi ha detto: “Tu vai a Roma per la dolce vita… vergognati”. Ero stata educata in un collegio da monache svizzere per imparare l’inglese, il francese e le buone maniere…».Finita la scuola, ha debuttato al Piccolo Teatro?«Sì, con La Congiura di Giorgio Prosperi. Sono stata fortunata perché, appena uscita dalla scuola, sono stata scritturata (dopo un provino che mi sembrò eterno!) per un bellissimo ruolo proprio al Piccolo. E lì, sempre per un caso fortunato, mi ha vista un regista, il quale mi ha chiesto se cantassi. Io ovviamente ho risposto: “Certo!”. E, incredibilmente, sulla fiducia, mi ha proposto di andare a fare cabaret, a Genova, alla Borsa di Arlecchino, un piccolissimo teatro off molto in voga. Il canto era la mia passione. In questo spettacolo le musiche erano di Paoli, Bindi e De André, che cantava i suoi brani e mi accompagnava quando cantavo io».Fabrizio De André ha scritto per lei La ballata dell’amore cieco…«Ma nooo… Non è vero, non l’ha scritta per me!»Però l’ha cantata?«Sì. C’è un aneddoto carino su questa canzone. In un ristorante c’era un posteggiatore, bravissimo con la chitarra. Gli ho detto: “Senta, lei lo farebbe un disco con me?”. Ha accettato e dopo poche prove siamo andati a registrare questo brano che mi piaceva molto. L’ho cantato a modo mio, completamente diverso da come lo eseguiva Fabrizio. Poi gliel’ho mandato, dicendogli: “Io ho fatto questa cosa, ascoltala poi mi dici se mi uccidi oppure no!”. Lui l’ha sentita e mi ha risposto: “Non ti uccido perché è una meraviglia. Così deve essere cantata questa canzone, non come la canto io”. È stato molto generoso».Era diventata amica di De André?«Per quello che si poteva essere amici di Fabrizio. Era un ragazzo un po’ chiuso, rideva poco, non era un compagnone, però, dopo cena, quando si cominciava a cantare, sembrava felice». Perché non ha continuato a cantare?«Mah, non lo so! Mi piaceva molto, ho fatto anche la commedia musicale con Garinei e Giovannini. Cantavo con l’orchestra, ballavo, recitavo… ne facevo di tutti i colori, mi sono divertita da pazzi»La voce però è stato un elemento fondamentale della sua carriera: le ha permesso di fare la doppiatrice a grandi livelli.«La voce non è un merito, è un dono».La sua è particolare…«Non è proprio una voce da femminuccia!».Infatti ha doppiato attrici anglosassoni di grande personalità, come Judi Dench, Maggie Smith, Anne Bancroft, Gena Rowlands, Vanessa Redgrave.«Tutte geniali». Con chi ha trovato più affinità?«Judi Dench. È come se fosse mia sorella, anche se lei non lo sa. So che faccia farà dicendo una battuta, so come la dirà. È meravigliosa!».Dopo lo spettacolo a Genova come ha proseguito la sua carriera?«Sono venuti a vedere lo spettacolo Ivo Chiesa e Luigi Squarzina, che dirigevano il Teatro Stabile di Genova. Squarzina già mi conosceva perché avevo fatto con lui La Congiura. Il mattino dopo stavo nell’ufficio di Chiesa a firmare un contratto! Ah, mi viene in mente una cosa carina: vuoi sapere le parole di un critico, fine intellettuale, Roberto Rebora, dopo aver visto la prima de La Congiura? «O lei è un fenomeno o lei è pazza! Per essere il debutto di una giovane, non si percepisce un minimo di paura. Era sul palcoscenico sicura come una vecchia attrice». Intanto mi ha dato della vecchia… però mi ha fatto questo complimento che mi sono portata nel cuore per tutta la vita».Era vero che non aveva paura?«Non era vero per niente, avevo una fifa blu, però non si vedeva. Ancora adesso, ho sempre paura… è un po’ che non faccio teatro, ho mollato perché si fa tanta fatica, anche perché adesso sì che so’ vecchietta!».Anche sul set ha paura?«Un po’ meno perché nel cinema c’è il paracadute del “la rifacciamo”, ma c’è anche la punizione del “la rivediamo”!».Il cinema ha iniziato a farlo presto, piccole parti…«Sì, ma ho smesso subito perché ho cominciato a fare teatro molto assiduamente. Quando c’era il teatro vero, le tournée duravano otto-nove mesi. Si partiva ai primi di settembre e si finiva a fine maggio. Fai le valigie, disfa le valigie, rifai le valigie… Ma la cosa che mi piaceva di più era la radio! Ho fatto di tutto: letture integrali di libri, melodrammi, riviste, commedie e soprattutto il programma 3131, che andava in onda di notte. Ho fatto una stagione dalle otto di sera a mezzanotte e un’altra da mezzanotte alle sei del mattino. Era bellissimo».La grande popolarità è arrivata per caso, non l’ha mai cercata?«Mai. A dire il vero, tutto quanto mi è arrivato, non ho mai cercato niente. Sono un po’ “orsa”: finito il lavoro mi chiudo nella mia tana e lì non ce n’è più per nessuno. Non mi interessano la mondanità, i rapporti di lavoro, le relazioni pubbliche... I miei agenti mi hanno sempre detto: “Devi andare, devi fare, devi intrecciare…”. Io sto a casa mia! Se mi vogliono, mi chiamano, se mi piace, vado. Nella mia vita ho detto più no che sì».Sibilla Mancini, il personaggio di Suburra, è entrato nel cuore del pubblico…«È piaciuto tanto, ma io non ho visto la serie perché non amo rivedermi».Si è ritrovata in questa donna di grandissimo carattere che deteneva le chiavi segrete della criminalità?«Insomma! In alcuni punti c’era anche qualche battuta mia, però non sono così: lei era una vera dura, io no!».Nel personaggio di Call my Agent, Elvira Bo, si ritrova di più?«È un personaggio che ha alcune mie peculiarità: tant’è vero che quando sono sul set, diverse battute vengono fuori da sole».Del resto, si racconta un mondo che conosce benissimo.«Esatto! Ho avuto tanti agenti, quindi più o meno so cosa fanno, cosa dicono, cosa pensano… non è un mistero». Ritorniamo ai suoi esordi. Quando ha conosciuto Gastone Moschin?«Appena uscita dalla scuola del Piccolo. Lui era un bravissimo attore, non ancora famoso. Un giorno sono andata a Venezia per vedere uno spettacolo del Piccolo al Teatro La Fenice, nel quale alcuni miei compagni di corso facevano piccole parti, però lo spettacolo è saltato perché Tino Buazzelli, il protagonista, ha avuto una congestione, quindi ci siamo ritrovati tutti fuori dal teatro. Lì uno di loro, Francesco Carnelutti, nipote dell’omonimo celebre avvocato, mi ha detto: “Ti devo presentare una persona che va bene per te”. “Per me non va bene nessuno, lascia perdere, lasciami in pace…”. In quel momento è uscito Gastone, ricciolino, biondo, gigantone. “Eccolo, è lui”. E io: “Ma tu sei pazzo! Non mi piace, è un vecchio!”. Gastone aveva nove anni più di me e allora mi sembravano tanti». Non è stato un colpo di fulmine…«Assolutamente no! Ci siamo accordati con gli altri per ritrovarci alle otto nello stesso posto e andare a cena tutti insieme. Uno di qua, uno di là, siamo rimasti solo io e Gastone, che dovevamo prendere un treno per Milano. Siamo andati a portare le valigie al deposito della stazione, ma, alle otto, forse perché Francesco aveva architettato tutto, non si è presentato nessuno. Abbiamo deciso di andare comunque a mangiare, ma era la festa del Redentore con la regata e turisti ovunque: trovare un tavolo è stata un’impresa». Com’era Moschin?«Abbiamo subito cominciato a chiacchierare e pensavo: «Mah, però è simpatico». Io sono astemia, se bevo un bicchiere di vino, parto… a cena abbiamo bevuto un pochino e abbiamo cominciato a ridere, a scherzare. Quando ci siamo accorti che era tardi, abbiamo dovuto fare una corsa tremenda fino alla stazione e anche durante il viaggio ci siamo fatti un sacco di risate. Siamo arrivati a Milano, all’alba, e prima di separarci Gastone mi ha detto: “Io sono stato molto bene questa notte”. “Anch’io”. Ci siamo scambiati i numeri di telefono. Solo che lui era fidanzato con una signora e io avevo un fidanzatino… insomma, è una storia lunga, il resto lo racconto un’altra volta!». È un bellissimo incipit per un libro…«Infatti lo sto scrivendo con Emanuela, la figlia che ho avuto con Gastone. Ognuna scrive le parti che la riguardano. Se troviamo un editore, si saprà com’è andata a finire!».
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