2024-02-01
Gli inconsolabili per l’«acchiappanazi» ieri ridevano dell’umiliazione dei marò
Il detenuto commuove se il carceriere è di destra. Altrimenti serve a sfamare i comici.La misura della ipocrisia la forniscono le risate. Oggi, e grazie al cielo, anche a destra sono in pochissimi (forse nessuno) a sghignazzare della sorte di Ilaria Salis, e delle catene che le hanno avvinto i polsi e le caviglie. A dirla tutta, quasi tutti - a partire da coloro che occupano gli scranni di maggior rilievo istituzionale - hanno espresso per lo meno disappunto se non esplicita condanna alla vista delle immagini provenienti dal tribunale ungherese dove la ex maestra e militante antifa è apparsa in ceppi. Eppure ricordate quanto ridevano per i due marò? Ne avevano fatto addirittura un tormentone: «E allora i marò?». Paolo Kessisoglu e l’impegnatissimo - sui social - Luca Bizzarri avevano preso spunto dalla vicenda dei due fucilieri italiani trattenuti in India per uno sketch a cui qualcuno rideva di gusto (probabilmente non le famiglie dei militari private dei loro cari).Oh certo, è un filo squallido imbarcarsi in paragoni, trattandosi di vicende entrambe dolorose e intricate. Eppure lo squallore è la cifra del nostro dibattito invischiato di ipocrisia, in cui da un paio di giorni è stato gettato un nuovo ritornello che è d’obbligo recitare per sentirsi buoni e partecipi della vita pubblica. Per fare bella figura bisogna sdegnarsi e gridare di rabbia, scandalizzarsi della sorte della Salis, e far la morale all’Ungheria fascistoide di Viktor Orbán. Anche se l’Italia vanta carceri in condizioni pietose, tempi della giustizia smisurati, ignobili detenzioni preventive, un bel numero di suicidi nelle celle sovraffollate. Però, si dice, adesso non è il momento di guardarsi l’ombelico: al solito i confini della discussione sono già tracciati in partenza, a stabilire che cosa si possa dire e che cosa no sono gli articoli di Repubblica e le frigne dei talk show come si deve. E allora se si deve rimestare nel torbido e si deve giocare a chi lancia la palla di fango più grossa contro l’avversario, cimentiamoci pure nel triste gioco, e rimettiamo in ordine un paio di tasselli. Quelli che oggi invocano il patriottismo e l’amore per il sangue italico della militante al guinzaglio, l’altro ieri facevano la gara - sui giornali e nella cloaca Web - a insinuare che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone fossero colpevoli, due killer. Erano militari, dopo tutto, dunque gente violenta e in fondo fascista, come tutti gli uomini in divisa. L’orrenda odissea dei due iniziò nel 2012 e terminò malamente solo dieci anni dopo, con la cancellazione delle accuse verso i due. Malamente perché quei dieci anni non li avranno mai indietro, e perché la loro vita e la loro carriera sono state ferocemente segnate. Intanto loro, i moralisti di oggi, ridevano dei marò. Facevano battute, sibilavano sospetti. Oggi trattengono a stento le lacrime, ma prima come si divertivano. Eppure Latorre e Girone mica se ne stavano all’estero per manifestare con i centri sociali. Stavano prestando servizio a beneficio della collettività, e di sicuro non furono sorpresi con un manganello retrattile in tasca assieme a un gruppetto di sospetti facinorosi. Le sentiamo già le repliche dei maestrini: «Ma che c’entra», diranno. «Ora si sta parlando di Ilaria». Certo, come sempre tocca parlare solo di ciò che vogliono i furbetti dalla doppia morale, bisogna trascurare il contesto e fingere che il passato non esista. Se loro sentenziano che la causa della Salis è giusta, non c’è verso di sottrarsi: su, tutti in fila a schierarsi e a maledire Orbán, il fascista che incarcera l’antifa (benché sia un politico e non un magistrato). Di sicuro si infuriano meno per la sorte di Julian Assange, e probabilmente non hanno memoria di Daniele Franceschi, morto a 36 anni nel carcere francese di Grasse, nel 2010, in circostanze ancora piuttosto oscure. Sappiamo come funziona: il prigioniero interessa soltanto se politicamente utile allo scontro corrente. Altrimenti, che resti sepolto dove sta, peggio per lui se non si è fatto ammanettare da gente di destra.
Pier Luigi Lopalco (Imagoeconomica)
Nel riquadro la prima pagina della bozza notarile, datata 14 novembre 2000, dell’atto con cui Gianni Agnelli (nella foto insieme al figlio Edoardo in una foto d'archivio Ansa) cedeva in nuda proprietà il 25% della cassaforte del gruppo