2020-10-30
Il tycoon in rimonta soffia a Biden i voti delle minoranze e degli operai
Dato per spacciato, ha quasi colmato il divario con lo sfidante in North Carolina e lo ha superato in Florida The Donald può contare anche sulle spaccature nell'Asinello e sull'astio dei sostenitori di Bernie Sanders per il demVeto di Donald Trump alla nomina dell'ex ministro nigeriano Okonjo-Iweala a direttore del Wto. Spinta da Pechino, è nel board di Gavi e Twitter. Ma dirle di no è considerato «razzista»Lo speciale contiene due articoli Lo chiamano «comeback». E, nel gergo elettorale americano, con questo termine si indica la riscossa del candidato che tutti davano per spacciato. Non è al momento chiaro se un tale genere di rimonta sia nelle possibilità di Donald Trump. Eppure qualcosa inizia a muoversi. Martedì, la media sondaggistica di Real Clear Politics ha dato per la prima volta il presidente avanti in Florida. Tutto questo, mentre l'inquilino della Casa Bianca ha colmato il divario in North Carolina, dove è ora in sostanziale parità con Joe Biden. Un Biden che, in Pennsylvania, ha visto scendere il suo vantaggio dal 5,2% al 3,5%. Notizie preoccupanti per l'ex vicepresidente si registrano anche sul fronte nazionale, in cui un recente sondaggio Ibd/Tipp lo dà avanti di appena 4,5 punti. Del resto, se è vero che per Trump la situazione resta difficile, è altrettanto vero che si stanno registrando segnali in chiaroscuro. Biden sta guadagnando terreno tra le donne e i pensionati bianchi: un elemento che può aiutarlo in Florida. Tuttavia il presidente sta crescendo tra gli ispanici sotto i 45 anni: se nel 2016 poteva contare sul 22% di costoro, al momento è salito a quota 35%. Un simile incremento Trump lo sta registrando anche tra i giovani afroamericani, dove ha guadagnato circa 11 punti rispetto a quattro anni fa. Questo avanzamento (spesso sottaciuto) tra le minoranze etniche può consentire al presidente di erodere efficacemente la base di Biden in Florida e in Texas, oltre che in Nevada (dove la Casa Bianca spera ancora in un colpaccio). Abbiamo poi la questione del voto operaio, notoriamente concentrato nella Rust Belt: un'area che anche stavolta è destinata a rivelarsi dirimente. Se Biden resta potenzialmente competitivo tra i colletti blu locali, è anche vero che riscontra non pochi problemi. In primis, troviamo l'ambientalismo: la sua ambiguità in materia di fratturazione idraulica ha creato molto nervosismo tra gli operai della Pennsylvania, dove -non a caso- Trump sta rimontando. In secondo luogo, troviamo il commercio internazionale. Non solo il presidente sta ripetutamente attaccando Biden per essere stato -da senatore- tra i fautori dell'ingresso della Cina nel Wto, ma sta anche rivendicando la rinegoziazione del Nafta, per cercare di farsi strada in Michigan e Wisconsin (dove, secondo i sondaggi, risulta più in difficoltà). Infine, non trascuriamo che la stretta vicinanza di Kamala Harris alla Silicon Valley possa rivelarsi un boomerang per il ticket democratico nella Rust Belt (come già accaduto a Hillary Clinton nel 2016). Un ticket democratico che, a causa delle sue posizioni nettamente abortiste, rischia di alienarsi il fondamentale voto cattolico in Stati come la Pennsylvania e il Michigan. Senza poi contare che il presidente potrebbe recuperare consensi nelle periferie cittadine grazie alla sua linea securitaria, sfruttando - sul tema - le ambiguità del rivale. Tra l'altro nella Rust Belt Trump può cavalcare anche i dati diffusi ieri sul Pil, che nel terzo trimestre ha registrato un inatteso boom del 33,1%. In tutto questo, non tralasciamo poi le divisioni interne al Partito democratico. Nonostante l'apparente coesione legata all'anti-trumpismo, è tutto da dimostrare che i sostenitori di Bernie Sanders vadano a votare compattamente per Biden. Un candidato che i sandersiani considerano un'inaccettabile espressione dell'establishment di Washington e Wall Street. Senza poi dimenticare che i fautori di Sanders non hanno mai digerito granché neppure la Harris, da loro spesso tacciata di opportunismo e vicinanza ai poteri forti. Non è quindi del tutto escludibile che possa ripetersi la dinamica del 2016, quando una manciata di sandersiani votò alla fine per Trump in Pennsylvania e Michigan, aprendogli così le porte della Casa Bianca. Suggerire che questo non accadrà perché Biden sarebbe «più simpatico» di Hillary lascia il tempo che trova: lo zoccolo duro di Sanders ha una mentalità giacobina e ragiona in termini di appoggi politici e proposte programmatiche, non in termini di «simpatia personale». E, in materia di commercio internazionale, i sandersiani sono molto più vicini a Trump che a Biden. Forse temendo problemi nella Rust Belt, il candidato dem ha iniziato a fare campagna in Stati tradizionalmente repubblicani come la Georgia: una strategia che già Hillary, confortata dai sondaggi, tentò nel 2016 ma che si rivelò alla fine fallimentare. Insomma, prima di dare Biden come sicuro vincitore di queste elezioni, bisogna essere molto cauti. Certo: la situazione per il presidente resta complicata (si pensi alla battaglia in Arizona). Ma parliamoci chiaro: da quando si è candidato nel 2015 alla nomination repubblicana, complicata -per Trump- la situazione lo è sempre stata. La sua leadership ha tra l'altro ripetutamente mostrato di temprarsi proprio nei momenti di assedio e bombardamento mediatico: quando tutto sembrava perduto. Non sarà un caso che un sondaggio Abc News dell'11 ottobre rilevò come, rispetto a Biden, il presidente fosse avanti di 15 punti nell'entusiasmo suscitato. Per cui, prima di darlo per morto, si faccia attenzione. Perché Trump queste elezioni può ancora vincerle. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-tycoon-in-rimonta-soffia-a-biden-i-voti-delle-minoranze-e-degli-operai-2648551849.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="storico-boom-del-pil-usa-331" data-post-id="2648551849" data-published-at="1603997203" data-use-pagination="False"> Storico boom del Pil Usa: +33,1% Buone notizie per Donald Trump. A ormai pochi giorni dal voto, il Dipartimento del Commercio ha reso noto ieri come, nel terzo trimestre, il Pil americano abbia registrato un boom del 33,1%: si tratta di un dato superiore alle aspettative, visto che la stima più ottimistica si attestava al 32%. Inoltre, i sussidi settimanali di disoccupazione restano sotto quota 800.000 unità, attestandosi a 751.000, in flessione rispetto a 791.000 della precedente settimana. Certo, la produzione economica non è ancora tornata ai livelli antecedenti alla pandemia. Resta tuttavia oggettivo che un simile rimbalzo a meno di una settimana dal voto sia una notizia confortante per il presidente in carica, che ieri ha twittato: «Numeri del Pil appena annunciati. I più grandi e i migliori del nostro Paese […] Tuttavia Sleepy Joe Biden e la sua proposta di aumento delle tasse da record ucciderebbero tutto. Sono così felice che questo dato sia uscito prima del 3 novembre». Insomma, il presidente è tornato a rinverdire il suo classico cavallo di battaglia: quello dell'economia. Trump adesso ha la possibilità di ribattere alle critiche dei democratici che -negli ultimi mesi- lo avevano incolpato per la crisi economica, scaturita a causa della pandemia. È del resto in una simile ottica che, in campagna elettorale, sta assumendo una rilevanza sempre maggiore la questione del commercio internazionale. Non sarà quindi un caso che la Casa Bianca sia tornata a interessarsi dell'Organizzazione mondiale del commercio. Mercoledì scorso, gli Stati Uniti hanno infatti espresso parere negativo sull'ex ministro delle Finanze nigeriano, Ngozi Okonjo-Iweala, come nuova direttrice generale del Wto. Washington ha infatti indicato per l'incarico un'altra donna, l'attuale ministro del Commercio sudcoreano, Yoo Myung-hee. Una decisione dovrebbe essere presa il prossimo 9 novembre, pochi giorni dopo le presidenziali americane. Nonostante le accuse di razzismo rivolte a Trump per il veto imposto sull'ex ministro nigeriano, è chiaro che l'opposizione di Washington verso Ngozi Okonjo-Iweala nasca da considerazioni di carattere geopolitico e commerciale. Come sottolineato ieri dal South China Morning Post, l'ex ministro nigeriano gode dell'appoggio non soltanto dell'Unione europea ma anche della Cina. Quella stessa Cina che notoriamente fa leva sulla strategia del debito africano, per riuscire a imporre la propria influenza in seno agli organismi internazionali (si pensi soltanto all'Oms). Se è vero che Ngozi Okonjo-Iweala ha vissuto per molto tempo a Washington e detiene la cittadinanza statunitense, è altrettanto vero che la Nigeria intrattiene forti connessioni economiche con Pechino. Negli anni passati, Trump ha tra l'altro più volte polemizzato con il Wto, arrivando anche a minacciare un suo abbandono. Nel luglio 2019, il presidente esortò l'organismo a modificare i parametri con cui attribuisce lo status di Paese in via di sviluppo: una linea d'attacco che aveva ovviamente come bersaglio la Repubblica popolare. D'altronde, lo stesso fatto di aver puntato su una sudcoreana come nuova direttrice generale rende ancor più evidente la linea anticinese che sta portando avanti la Casa Bianca. Infine, non bisogna neppure trascurare che l'ex ministro nigeriano sieda tra le alte sfere di società non particolarmente amichevoli verso Trump: è presidente del board di Gavi Alliance (strettamente legata a Bill Gates) e, dal 2018, membro del consiglio d'amministrazione di Twitter.