2022-07-20
Il pg rinuncia all’appello: finisce la farsa Eni
Il procuratore generale di Milano attacca i pm De Pasquale e Spadaro sul processo flop Opl 245: «Una inchiesta fondata sul nulla Il diritto alla difesa danneggiato da “passioni perverse” delle toghe». Diventano così definitive le assoluzioni di primo grado.«Passioni perverse». Usa queste parole il procuratore generale di Milano Celestina Gravina per mettere per sempre la parola fine al famigerato fascicolo Opl 245, la licenza petrolifera che Eni e Shell avevano rilevato nel 2011 in Nigeria. Lo fa durante la requisitoria dell’appello, dopo l’assoluzione in primo grado di tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste». Quello che doveva essere il processo del secolo, con al centro una tangente da più di un miliardo di euro, è diventato invece il flop del secolo della Procura di Milano. Non si era mai visto un procedimento per corruzione internazionale così reclamizzato da giornali e televisioni (da Report al Fatto Quotidiano), come dalla politica italiana (in testa i 5 Stelle), finire con una raffica di assoluzioni, non solo in Italia ma in tutto il mondo. E non si tratta di semplici assoluzioni, perché i giudici, entrando nel merito delle vicende, hanno scoperto come i fatti non avessero mai avuto alcun fondamento e che, anzi, da parte dei pm, ci sarebbero state per di più «gravi mancanze» nei confronti delle difese, spesso dettate da «errori» non casuali, «incertezze» e appunto «passioni perverse».Resta in piedi ancora il procedimento civile di risarcimento al governo nigeriano, ma anche questo viaggia su un binario morto, dal momento che sia negli Stati Uniti sia Inghilterra le richieste di Abuja sono sempre state respinte. Il motivo è sempre stato lo stesso: la mancanza di prove.Gravina - che ha deciso di rinunciare al ricorso confermando quindi tutte le assoluzioni che diventano definitive -, era già stata titolare dell’appello su un procedimento collegato, quello a carico dei presunti intermediari Gianluca Di Nardo ed Emeka Obi. Già lo scorso anno aveva messo nel mirino la linea dell’accusa, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati di aver assunto «superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchiericcio e sulla maldicenza» ma anche di aver «sposato la linea delle ong». Ieri ha rincarato la dose, non risparmiando critiche anche molto pesanti a De Pasquale e Spadaro. I due, oltre al fallimento di una vicenda durata quasi 8 anni, sono stati anche rinviati a giudizio a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, perché avrebbero nascosto prove alle difese per portare avanti la loro tesi accusatoria: a breve si saprà se andranno a processo. Ma intanto devono fare i conti con un intervento che seppellisce una volta per tutte un lavoro di indagine durato 8 anni, dove a guadagnarci sono stati solo gli avvocati. Escono da questo incubo 13 imputati, tra cui l’attuale amministratore Claudio Descalzi e l’ex Paolo Scaroni, insieme con le società Eni e Shell. «Non c’è in questo processo prova dell’accordo per una corruzione. Non c’è in questo processo prova del pagamento di un’utilità corruttiva» spiega Gravina nell’aula del tribunale di Milano. «Il pm» Fabio De Pasquale (anche se non viene mai citato) «non riesce a individuare l’utilità che sarebbe stata il prezzo della corruzione» e quindi si riduce a sostenere che «quest’operazione non doveva farsi perché era illecita. Ma anche questa affermazione è fondata su un atteggiamento fondamentalmente neocolonialista. Altro che il colonialismo predatorio di cui sono accusate le due compagnie petrolifere che hanno fatto la ricchezza della Nigeria!». Il procuratore generale dice «non di non voler cercare la suspense», come invece fu fatto dall’accusa sempre alla ricerca di testimoni nigeriani ambigui, «ma ritiene di dover esercitare la sua funzione di osservanza della legge». E soprattutto Gravina ribadisce come manchino «le prove in questo processo. I binari di legalità del processo segnato dalla Cassazione sono corrispondenti al diritto delle persone in questo Paese a non subire processi penali quando non sussistano i presupposti di legge, questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento». Per di più, sostiene Gravina, «la mancanza di qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa» non fa altro che ribadire come un possibile ricorso non abbia la forza «per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio». Già la sentenza definitiva che aveva assolto in appello Obi e Di Nardo stabilisce che i due non sono mai stati collettori «di una tangente destinata ai pubblici ufficiali nigeriani» e De Pasquale «di questo non se ne accorge». Mancano insomma tutti gli «elementi costitutivi del reato». Il pm «dice cose come sempre un po’ incerte», arriva a sostenere di «un acquisto a prezzo di favore di un immobile» l’ex ministro di Giustizia Adoke Bello, ex ministro della Giustizia nigeriano, «ma anche questa ipotesi viene buttata lì come una insinuazione». Del resto, aggiunge ancora il procuratore generale non sarebbe stato difficile «scoprire se le società hanno fatturato» e se sono state pagate «da chi e come». Gravina cita poi la collega Sara Cockerill della Corte inglese, che ha respinto negli ultimi mesi ogni tesi accusatoria, mentre la Procura di Milano invece ha creduto di essere una sorta di «Tribunale amministrativo della Nigeria». Per questo motivo, conclude «gli imputati che hanno patito un processo lungo 7 anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti, si deve muovere nei binari corretti in ogni fase del suo avanzamento». Per Eni, la decisione di ieri, «ha sancito la fine della immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria».