2020-05-01
Il governo attacca ancora le Regioni. Fa parte del delirio per restare a galla
Attilio Fontana e Luca Zaia (Pier Marco Tacca, Getty Images Europe)
Giuseppe Conte e il ministro Francesco Boccia riprendono le bordate contro i governatori. È il loro programma: centralismo e guerra al Nord. Come un collaudato duo di piromani, Francesco Boccia porta la tanica di benzina e Giuseppe Conte arriva con il fiammifero acceso. E così, il combinato disposto dell'azione del ministro per gli Affari regionali (i più perfidi correggono la definizione in Transatlantico: ministro contro gli Affari regionali) e di quella del premier è un incendio costante, un divampare di fiamme - mai davvero estinte - tra Roma e i governatori, specialmente quelli di centrodestra. Ieri mattina ha cominciato Boccia, che in un'intervista al Corriere ha rampognato i dodici presidenti di regione di centrodestra che si erano lamentati per iscritto con il Colle («le Regioni che hanno scritto al Quirinale hanno avuto dallo stato un sostegno senza precedenti»), e poi, attraverso retroscena e ricostruzioni, ha veicolato un'interpretazione umiliante per le Regioni dell'ultima riunione della cabina di regia: con la minaccia governativa di diffidarle in caso di ordinanze disallineate rispetto alla volontà romana, fino all'impugnazione al Tar o alla Consulta. Una provocazione. Come se non bastasse, il carico ha provveduto a metterlo Conte in Aula, con toni da centralismo aggressivo, dimenticando peraltro di non essere mai stato eletto da nessuno, diversamente dai governatori: le iniziative regionali e locali «che comportino un allentamento delle misure restrittive vigenti non sono possibili, perché in contrasto con le norme varate, e quindi sono da considerarsi a tutti gli effetti illegittime», ha sibilato il premier. Un doppio attacco all'ultima ordinanza veneta varata da Luca Zaia e al preannuncio della presidente della Calabria Jole Santelli di dare semaforo verde ai tavoli all'aperto per bar e ristoranti (opzione ragionevolissima, in un territorio quasi senza contagi). Con determinazione ammirevole, ieri la Santelli ha tenuto il punto: «Mi dispiace per Conte, ma io apro i bar e chiudo i confini». E che la situazione sia sfuggita di mano lo testimonia l'uscita da kamikaze politico di Antonio Decaro, sindaco di sinistra di Bari e presidente dell'Anci, che, preso dallo zelo di compiacere il governo, ha sparato a palle incatenate contro le Regioni: «Se volete una sfida, noi l'accettiamo. Possiamo iniziare emettendo ordinanze che disapplicano le ordinanze regionali». A Decaro hanno immediatamente risposto con prevedibile durezza altri sindaci. Alan Fabbri, sindaco di Ferrara, ha avuto buon gioco a chiedere come mai il presidente Anci non si sia «infastidito per gli show e le ordinanze del governatore Vincenzo De Luca che, guarda caso, è del suo stesso partito». Un pandemonio, insomma: Stato contro Regioni, Comuni contro Regioni, Comuni contro Comuni, tutti contro tutti. Ma quella di ieri è solo l'ultima puntata della soap opera. Dal 31 gennaio (dichiarazione dello stato d'emergenza) non è passata una sola settimana senza una sfida lanciata dal governo alle Regioni. Contro il Veneto ci fu una specie di fatwa, perché con lungimiranza Zaia (per fortuna del Veneto) seguì la linea del virologo Andrea Crisanti (tamponi a tappeto, anche agli asintomatici), cioè un'impostazione opposta a quella del guru governativo Walter Ricciardi. Da questo punto di vista, non si può non sottolineare che se il Veneto, a suo tempo, si fosse allineato ai diktat di Roma, oggi si troverebbe in una situazione devastante.E allora è partita la jihad governativa contro la Lombardia: insinuazioni contro gli ospedali di Lodi e Codogno, la provocazione dell'invio di mascherine inservibili, i ritardi e le liti sulle zone rosse, l'attacco ad Attilio Fontana su tutto, le minacce di commissariamento, fino alla visita notturna semiclandestina di Conte questa settimana. Da ieri, anche nei palazzi romani, le teste più fredde si interrogano sul perché di queste uscite di Conte e Boccia, oggettivamente volte a esacerbare il clima. E emergono quattro spiegazioni, variamente combinate. Primo: Conte, comunque finisca il governo, vuole irrobustire il suo profilo politico, ed è convinto che, oltre alla sovraesposizione mediatica e alla selvaggia caccia ai like sui social, gli giovi avere dei nemici: Matteo Salvini e i governatori del Nord. Secondo: Conte sa che il suo governo nasce senza e contro il voto degli elettori del Nord, e guarda a un'altra constituency, quella che nel 2018 premiò nel Sud i grillini. E il premier si è convinto di poter intercettare quegli elettori. Terzo: Boccia e Conte non hanno nessuna intenzione di condurre in porto la riforma dell'autonomia regionale, e anzi cercano un casus belli per sostenere la causa di una torsione centralista. Quarto, ed è purtroppo il leit-motiv delle analisi svolte in queste ore in non poche sedi istituzionali. Tale è il fallimento del governo su tutto (sul lato sanitario; su quello economico; su quello dell'organizzazione della ripartenza); tale è la rabbia del mondo produttivo, in particolare per la presa in giro che si sta materializzando sul tema della liquidità bancaria, che Conte si è convinto che la sua unica possibilità sia la rissa politica costante, una bagarre quotidiana. O per salvare il governo, o - più realisticamente - per precostituirsi un posizionamento politico futuro.Resta però un doppio paradosso. Per un verso, bene o male, Sergio Mattarella aveva chiesto al governo di farsi soggetto di ricucitura più che di lacerazione: tutto il contrario di ciò che sta facendo Conte. Per altro verso, la crociata contro le istituzioni regionali e la loro autonomia mette in terribile imbarazzo il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che una Regione la presiede.