2021-03-11
Il don che si fece «ergastolano» per i suoi detenuti
In un libro la storia di Fausto Resmini, cappellano del carcere di Bergamo, e quelle degli altri 205 preti italiani uccisi dal CovidL'ultimo saluto a don Fausto Resmini è stato in carcere. Lì dove per 18 anni ha speso ogni giorno la vita di prete, un picchetto di detenuti e di Polizia penitenziaria ha omaggiato l'uomo che ha segnato la loro esistenza dentro le mura della Casa circondariale di Bergamo. Prima di essere sepolto a Lurano, dove era nato il 7 aprile del 1952, don Fausto ha sostato un istante ancora tra la sua gente. […] Della cura dei detenuti don Fausto avvertiva l'urgenza, convinto che il carcere fosse un luogo in cui facilmente ci si dimentica di essere uomini. Lui, invece, dietro i volti dei condannati vedeva sempre la persona: «Quando io incontro un detenuto incontro l'uomo, non il reato che ha commesso». Dietro le sbarre trascorreva la maggior parte della giornata, al punto da spingere gli amici a scherzare con lui chiamandolo ergastolano. Ma di tutto ciò che accadeva tra le mura e delle confidenze che riceveva, don Fausto non faceva parola con nessuno. Anche quando i giornalisti lo incalzavano per avere indiscrezioni sui casi di cronaca più controversi, lui che tra gli altri era confessore di Massimo Bossetti. «Non che non fosse interessato ai reati che erano stati commessi» precisa don Dario (Acquaroli, il suo più stretto collaboratore, ndr), «ma lui incontrava la persona perché il perdono più difficile è quello che uno dà a sé stesso. E se non si aiuta la persona a fare un percorso di questo tipo, diventa difficile che sia in grado di chiedere perdono, di riconoscere la sua colpa e di attivare il cammino di cambiamento e di conversione che la porterà a rientrare in società». A chi gli domandava se fosse imbarazzato nel dare i sacramenti a un assassino, rispondeva con schiettezza: «Il prete è l'espressione massima dell'incontro libero con l'Altro. Quando avviene questo incontro, bisogna riconoscere innanzitutto che solo Dio sa leggere il cuore dell'uomo. In questi momenti, so che posso aver contro tutta la società, ma che ho davanti un uomo, solo un uomo che soffre. Quell'uomo chiede a me conto di Dio e io non glielo posso negare».Don Fausto metteva la persona al centro di qualsiasi discorso educativo, riabilitativo, di reinserimento sociale. Condividendo la sofferenza e il dramma interiore, cercava di accompagnare i detenuti a prendere coscienza dei propri errori e delle ripercussioni sugli altri, in modo che le esperienze negative potessero trasformarsi in occasioni di rinascita. […] Spesso la sera lo si poteva trovare in stazione o alla Casa del giovane che ospita i calciatori della primavera dell'Atalanta: ragazzini viziati, ad uno sguardo distratto, ma che lui vedeva fragili e lontani dalle famiglie. Una vita spesa per gli altri che, dietro la vetrina dell'attivismo, traeva forza dalla preghiera quotidiana. La messa tutti i giorni, il breviario recitato da solo o in compagnia, il rosario prima di andare a dormire, la devozione al santuario della Madonna delle Quaglie a Lurano. Una fede semplice e vera, come la terra in cui era nato. E guai a dire che era un prete di strada più che un prete d'altare, allora andava su tutte le furie: «Io sono un prete. Punto. Poi vivo il mio ministero nelle opere educative e caritative, ma io sono un prete. E se non parto dall'altare, tutto è perso». [...]Tutto in bilico, in un equilibrio difficile da mantenere per chi, come lui, era immerso nell'umanità dolente: poveri, prostitute, senza fissa dimora, orfani, giovani disagiati, tossicodipendenti, ragazzi sotto tutela giudiziaria, autori di piccoli reati, appartenenti a baby gang. Una missione per la quale don Fausto non si risparmiava, così come non lo faceva nel delicato e riservato incarico di seguire i confratelli con provvedimenti penali. Un servizio svolto nel silenzio e nella discrezione, con la cura che gli era propria anche quando si trovava di fronte a un prete che aveva deviato.La malattia arriva improvvisa e lo colpisce nei giorni in cui Bergamo diventa l'epicentro del contagio [...]. «All'una e mezza di notte di lunedì 23 marzo ci è arrivata la notizia della morte. […] Non averlo accompagnato nel tratto finale è stata per tutti noi la ferita più profonda», rivela don Dario.A don Fausto è adesso intitolata la Casa circondariale di Bergamo: la proposta era stata avanzata, oltre che dagli onorevoli Elena Carnevali e Maurizio Martina, anche dalla direttrice del carcere come espressione della volontà dell'intera comunità penitenziaria: «È stato un regalo dal valore inestimabile per tutti coloro che, per la loro funzione, accedono nell'istituto penitenziario e lo vivono a qualunque titolo, un gesto che manterrà imperitura la memoria del nostro amato cappellano, un segnale concreto per l'intera città e per la provincia di Bergamo». […] In un biglietto che oggi ha il valore di un testamento spirituale, don Fausto ha lasciato scritto: «Confesso che ho vissuto. A te, o Signore, che hai preso la mia vita e ne hai fatto molto di più, la mia totale riconoscenza».