2021-11-03
«Il calcio sta diventando uno strumento di geopolitica»
- Daniele Ruvinetti, analista geopolitico e Senior Advisor della Fondazione Med Or, spiega: «Gli investimenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni sono segnali di apertura al mondo occidentale. Il grande consenso intorno al mondo sportivo permette loro di ottenere visibilità e consenso».
- Non solo Manchester City, Paris Saint-Germain e Newcastle: in Europa 11 club sono di proprietà dei paesi del Golfo. A comandare la mappa è proprio l'Arabia Saudita con cinque squadre. E il fondo Pif è pronto a sbarcare anche nel golf.
Lo speciale contiene due articoli.
«Nei paesi del Golfo c'è una grande passione per il calcio. Vanno pazzi per quello europeo. Molti bar e ristoranti trasmettono le partite. Non hanno gli spazi né le temperature elevate permettono di avere campionati competitivi, quindi investono all'estero, in Europa, anche per un discorso di tipo geopolitico. Il calcio sta diventando uno strumento di geopolitica». Daniele Ruvinetti, analista geopolitico e Senior Advisor della Fondazione Med Or, spiega alla Verità l'attivismo degli ultimi 10 anni di paesi come Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Barhein nel mondo del pallone. Abu Dhabi è stata tra i primi a investire nel Manchester City. Poi si è subito accodata Doha, con gli investimenti milionari nel Paris Saint-Germain. Da poco è entrata in scena Ryad, che con Moḥammad bin Salman ha deciso di rilevare la squadra inglese del Newcastle. Infine, anche il piccolo emirato del Barhein ha rilevato il 20% della seconda squadra parigina, il Paris Fc che milita in Ligue 2, la serie B francese.
«Gli investimenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni» spiega Ruvinetti «non riguardano solo la passione per il calcio. Sono segnali di apertura al mondo occidentale. È sempre la strategia di fare geopolitica con il denaro. In questo modo possono entrare in paesi con cui non hanno grande confidenza, ma il grande consenso intorno al mondo sportivo permette loro di ottenere visibilità e consenso». Tra le monarchie del golfo, come noto, non esiste ormai solo una competizione calcistica. Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, stanno gareggiando da tempo al rinnovo delle loro rispettive economie, incentrate in particolare sul petrolio. Hanno sviluppato progetti di diversificazione economica, incentrati sulla tecnologia del futuro, prevedendo per il 2030 persino nuove città dove tutto sarà automatizzato, in modo da diventare nuovi hub di attrazione economica per l'occidente. «Le monarchie lavorano sul piano internazionale in modo differente. Basta seguire cosa accaduto in Libia, dove Qatar e Emirati Arabi sono su fronti opposti. Se i primi supportano i Fratelli Musulmani, i secondi invece sono contro, come anche l'Arabia Saudita». Allo stesso tempo le monarchie cercano amici in Europa. Hanno bisogno di instaurare un dialogo costruttivo. «Sono paesi piccoli, non hanno grandi eserciti, quindi la geopolitica si fa con il denaro». Il calcio è uno dei mercati più interessanti, ma anche non particolarmente redditizi. «In Libia il Qatar ha avuto sempre posizioni distanti dalla Francia. Eppure investendo nel Paris St Germain ha la possibilità di aprire un canale di comunicazione. Lo stesso si può vedere con gli Emirati o con l'Arabia Saudita, impegnati in Inghilterra, nazione da tempo vicina proprio ai Fratelli Musulmani». Le relazioni commerciali tra Francia e Qatar non sono mai andate così bene. The Peninsula, quotidiano in lingua inglese dell'emirato, ha spiegato nel dettaglio gli ultimi investimenti del Paese del Golfo in quello europeo. Si parla di oltre 20 miliardi di dollari (circa 17,21 miliardi di euro) investiti negli ultimi anni sul territorio francese. Inoltre, sono 120 le aziende transalpine che hanno cominciato a operare sul territorio qatariota. Le relazioni bilaterali, sottolinea il quotidiano, coprono una vasta gamma di settori, dalla sicurezza allo sport, il cui esempio principale è rappresentato dal Paris Saint-Germain. Tali investimenti, inoltre, sono realizzati sia a livello pubblico che privato, attraverso le entità affiliate alla Qatar Investment Authority, tra cui la Qatar Sports Investment proprietaria del Psg, e attraverso investimenti privati. Non è un caso che proprio ieri, Doha abbia preso parte alla riunione preparatoria per discutere la bozza di dichiarazione finale della Conferenza di Parigi sulla Libia, prevista per il 12 novembre.
Il Direttore del dipartimento degli Affari Arabi presso il Ministero degli Affari Esteri, l'Ambasciatore HE Nayef bin Abdullah Al Emadi ha rappresentato lo Stato del Qatar all'incontro che si è tenuto ieri durante una conferenza stampa. A fine ottobre lo sceicco Hamad bin Khalifa bin Ahmed Al Thani, presidente della Qatar Football Association (QFA), ha ricevuto nel suo ufficio lo sceicco Ahmed Al Eissi, presidente della Yemen Football Association (YFA). Lo Yemen fa parte del Gruppo A di qualificazioni alla coppa del mondo con Qatar, Siria e Sri Lanka. Le qualificazioni si svolgeranno a Doha dal 25 al 31 ottobre. I due hanno parlato dei modi per rafforzare la cooperazione congiunta per rafforzare i legami tra le due federazioni e contribuire al loro sviluppo. E intanto in queste settimane i tifosi del Newcastle, festeggiano l'arrivo del Fondo per gli investimenti pubblici (PIF) di Riyad che ha acquisito una quota di controllo dell'80% della squadra in un'operazione dal valore di 300 milioni di sterline (circa 353 milioni di euro). I sauditi, come noto, sono invece rivali del Qatar nello Yemen. Dallo sport alla guerra, insomma, il passo è breve.
La mappa geopolitica dei club europei con proprietà arabe
Negli ultimi 10 anni il trend di club europei che vengono acquistati da fondi o proprietà provenienti dai paesi del Golfo è in netto aumento. Basti pensare che sulla mappa attuale del calcio europeo si contano ben 11 squadre che hanno come soci di maggioranza investitori arabi.
Su questa mappa, oltre ai più conosciuti Paris Saint-Germain e Manchester City, in mano rispettivamente all'emiro del Qatar Tamim bin Ḥamad Al Thani e allo sceicco degli Emirati Arabi Uniti Mansour bin Zayd Al Nahyan, troviamo anche l'Arabia Saudita con il principe ereditario Moḥammad bin Salman che ha appena rilevato le quote del Newcastle per non rimanere indietro rispetto ai vicini di casa. Per Paesi dove l'economia è principalmente incentrata sull'esportazione di petrolio, la parola d'ordine è diversificare il più possibile le fonti di guadagno con investimenti di questo tipo in vista di un futuro, non si sa ancora quanto lontano, in cui il mondo occidentale sta cercando soluzioni di energia alternative. Ed è così che anche il piccolo Bahrein prova a dire la sua. Manama, oltre a possedere già le quote del Wigan, club inglese che milita in Football League One, la terza divisione del campionato d'Oltremanica, ha anche recentemente rilevato il 20% della seconda squadra parigina, il Paris Fc, che gioca in Ligue 2, la serie B francese.
Il Qatar, oltre al colosso del Psg, gestisce altre due squadre, una in Belgio e una in Spagna. Si tratta dell'Eupen, club della Pro League, la massima divisione del campionato belga di calcio, la cui proprietà è stata rilevata nel 2012 dall'Aspire Zone Foundation, una fondazione controllata direttamente dal governo del Qatar, e il Cultural y Deportiva Leonesa, squadra della città di Leon con a capo Tariq A. Al Naama, che gioca oggi in Primera División RFEF, la terza serie del calcio spagnolo.
Gli Emirati Arabi Uniti, invece, hanno investito in Inghilterra, Spagna, Belgio e Francia. Qui il grosso investimento riguarda appunto il Manchester City, passato nel settembre del 2008 allo sceicco Mansour bin Zayd Al Nahyan, proprietario dell'Abu Dhabi United Group, con l'obiettivo di promuovere la compagnia aerea Etihad Airways. Ma non solo. Nell'agosto del 2017, la holding messa su dallo stesso Mansur, la City Football Group, nel frattempo proprietaria anche del New York City Fc nella Mls americana, del Melbourne City Fc in Australia, del Montevideo City in Uruguay e dei Yokohama Marinos in Giappone, ha messo le mani sul Girona, società catalana che milita nella Segunda División del campionato spagnolo. Stesso discorso riguarda il Troyes, club francese da questa stagione in Ligue 1, e il Lommel, squadra della seconda serie del campionato belga, passati nel corso del 2020 al City Football Group.
A comandare questa mappa europea, però, è proprio l'Arabia Saudita, con il fondo Pif che oltre ad aver acquisito il Newcastle in Premier League, può contare sullo Sheffield United in Championship, la seconda divisione inglese, sull'Almeria in Spagna, lo Chateauroux in Francia e il Beerschot in Belgio. Il fondo Pif, però, pare non abbia intenzione di fermarsi al calcio. Il fondo di bin Salman è pronto infatti a fare il suo ingresso anche nel golf, visto che Greg Norman, membro della World Folf Hall of Fame, è stato appena nominato amministratore delegato della Liv Golf Investments, società supportata appunto dal Public fund investmet.
Daniele Ruvinetti, analista geopolitico e Senior Advisor della Fondazione Med Or, spiega: «Gli investimenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni sono segnali di apertura al mondo occidentale. Il grande consenso intorno al mondo sportivo permette loro di ottenere visibilità e consenso».Non solo Manchester City, Paris Saint-Germain e Newcastle: in Europa 11 club sono di proprietà dei paesi del Golfo. A comandare la mappa è proprio l'Arabia Saudita con cinque squadre. E il fondo Pif è pronto a sbarcare anche nel golf.Lo speciale contiene due articoli.«Nei paesi del Golfo c'è una grande passione per il calcio. Vanno pazzi per quello europeo. Molti bar e ristoranti trasmettono le partite. Non hanno gli spazi né le temperature elevate permettono di avere campionati competitivi, quindi investono all'estero, in Europa, anche per un discorso di tipo geopolitico. Il calcio sta diventando uno strumento di geopolitica». Daniele Ruvinetti, analista geopolitico e Senior Advisor della Fondazione Med Or, spiega alla Verità l'attivismo degli ultimi 10 anni di paesi come Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Barhein nel mondo del pallone. Abu Dhabi è stata tra i primi a investire nel Manchester City. Poi si è subito accodata Doha, con gli investimenti milionari nel Paris Saint-Germain. Da poco è entrata in scena Ryad, che con Moḥammad bin Salman ha deciso di rilevare la squadra inglese del Newcastle. Infine, anche il piccolo emirato del Barhein ha rilevato il 20% della seconda squadra parigina, il Paris Fc che milita in Ligue 2, la serie B francese.«Gli investimenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni» spiega Ruvinetti «non riguardano solo la passione per il calcio. Sono segnali di apertura al mondo occidentale. È sempre la strategia di fare geopolitica con il denaro. In questo modo possono entrare in paesi con cui non hanno grande confidenza, ma il grande consenso intorno al mondo sportivo permette loro di ottenere visibilità e consenso». Tra le monarchie del golfo, come noto, non esiste ormai solo una competizione calcistica. Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, stanno gareggiando da tempo al rinnovo delle loro rispettive economie, incentrate in particolare sul petrolio. Hanno sviluppato progetti di diversificazione economica, incentrati sulla tecnologia del futuro, prevedendo per il 2030 persino nuove città dove tutto sarà automatizzato, in modo da diventare nuovi hub di attrazione economica per l'occidente. «Le monarchie lavorano sul piano internazionale in modo differente. Basta seguire cosa accaduto in Libia, dove Qatar e Emirati Arabi sono su fronti opposti. Se i primi supportano i Fratelli Musulmani, i secondi invece sono contro, come anche l'Arabia Saudita». Allo stesso tempo le monarchie cercano amici in Europa. Hanno bisogno di instaurare un dialogo costruttivo. «Sono paesi piccoli, non hanno grandi eserciti, quindi la geopolitica si fa con il denaro». Il calcio è uno dei mercati più interessanti, ma anche non particolarmente redditizi. «In Libia il Qatar ha avuto sempre posizioni distanti dalla Francia. Eppure investendo nel Paris St Germain ha la possibilità di aprire un canale di comunicazione. Lo stesso si può vedere con gli Emirati o con l'Arabia Saudita, impegnati in Inghilterra, nazione da tempo vicina proprio ai Fratelli Musulmani». Le relazioni commerciali tra Francia e Qatar non sono mai andate così bene. The Peninsula, quotidiano in lingua inglese dell'emirato, ha spiegato nel dettaglio gli ultimi investimenti del Paese del Golfo in quello europeo. Si parla di oltre 20 miliardi di dollari (circa 17,21 miliardi di euro) investiti negli ultimi anni sul territorio francese. Inoltre, sono 120 le aziende transalpine che hanno cominciato a operare sul territorio qatariota. Le relazioni bilaterali, sottolinea il quotidiano, coprono una vasta gamma di settori, dalla sicurezza allo sport, il cui esempio principale è rappresentato dal Paris Saint-Germain. Tali investimenti, inoltre, sono realizzati sia a livello pubblico che privato, attraverso le entità affiliate alla Qatar Investment Authority, tra cui la Qatar Sports Investment proprietaria del Psg, e attraverso investimenti privati. Non è un caso che proprio ieri, Doha abbia preso parte alla riunione preparatoria per discutere la bozza di dichiarazione finale della Conferenza di Parigi sulla Libia, prevista per il 12 novembre.Il Direttore del dipartimento degli Affari Arabi presso il Ministero degli Affari Esteri, l'Ambasciatore HE Nayef bin Abdullah Al Emadi ha rappresentato lo Stato del Qatar all'incontro che si è tenuto ieri durante una conferenza stampa. A fine ottobre lo sceicco Hamad bin Khalifa bin Ahmed Al Thani, presidente della Qatar Football Association (QFA), ha ricevuto nel suo ufficio lo sceicco Ahmed Al Eissi, presidente della Yemen Football Association (YFA). Lo Yemen fa parte del Gruppo A di qualificazioni alla coppa del mondo con Qatar, Siria e Sri Lanka. Le qualificazioni si svolgeranno a Doha dal 25 al 31 ottobre. I due hanno parlato dei modi per rafforzare la cooperazione congiunta per rafforzare i legami tra le due federazioni e contribuire al loro sviluppo. E intanto in queste settimane i tifosi del Newcastle, festeggiano l'arrivo del Fondo per gli investimenti pubblici (PIF) di Riyad che ha acquisito una quota di controllo dell'80% della squadra in un'operazione dal valore di 300 milioni di sterline (circa 353 milioni di euro). I sauditi, come noto, sono invece rivali del Qatar nello Yemen. Dallo sport alla guerra, insomma, il passo è breve. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-calcio-sta-diventando-uno-strumento-di-geopolitica-2655485458.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-mappa-geopolitica-dei-club-europei-con-proprieta-arabe" data-post-id="2655485458" data-published-at="1635959707" data-use-pagination="False"> La mappa geopolitica dei club europei con proprietà arabe Negli ultimi 10 anni il trend di club europei che vengono acquistati da fondi o proprietà provenienti dai paesi del Golfo è in netto aumento. Basti pensare che sulla mappa attuale del calcio europeo si contano ben 11 squadre che hanno come soci di maggioranza investitori arabi.Su questa mappa, oltre ai più conosciuti Paris Saint-Germain e Manchester City, in mano rispettivamente all'emiro del Qatar Tamim bin Ḥamad Al Thani e allo sceicco degli Emirati Arabi Uniti Mansour bin Zayd Al Nahyan, troviamo anche l'Arabia Saudita con il principe ereditario Moḥammad bin Salman che ha appena rilevato le quote del Newcastle per non rimanere indietro rispetto ai vicini di casa. Per Paesi dove l'economia è principalmente incentrata sull'esportazione di petrolio, la parola d'ordine è diversificare il più possibile le fonti di guadagno con investimenti di questo tipo in vista di un futuro, non si sa ancora quanto lontano, in cui il mondo occidentale sta cercando soluzioni di energia alternative. Ed è così che anche il piccolo Bahrein prova a dire la sua. Manama, oltre a possedere già le quote del Wigan, club inglese che milita in Football League One, la terza divisione del campionato d'Oltremanica, ha anche recentemente rilevato il 20% della seconda squadra parigina, il Paris Fc, che gioca in Ligue 2, la serie B francese.Il Qatar, oltre al colosso del Psg, gestisce altre due squadre, una in Belgio e una in Spagna. Si tratta dell'Eupen, club della Pro League, la massima divisione del campionato belga di calcio, la cui proprietà è stata rilevata nel 2012 dall'Aspire Zone Foundation, una fondazione controllata direttamente dal governo del Qatar, e il Cultural y Deportiva Leonesa, squadra della città di Leon con a capo Tariq A. Al Naama, che gioca oggi in Primera División RFEF, la terza serie del calcio spagnolo.Gli Emirati Arabi Uniti, invece, hanno investito in Inghilterra, Spagna, Belgio e Francia. Qui il grosso investimento riguarda appunto il Manchester City, passato nel settembre del 2008 allo sceicco Mansour bin Zayd Al Nahyan, proprietario dell'Abu Dhabi United Group, con l'obiettivo di promuovere la compagnia aerea Etihad Airways. Ma non solo. Nell'agosto del 2017, la holding messa su dallo stesso Mansur, la City Football Group, nel frattempo proprietaria anche del New York City Fc nella Mls americana, del Melbourne City Fc in Australia, del Montevideo City in Uruguay e dei Yokohama Marinos in Giappone, ha messo le mani sul Girona, società catalana che milita nella Segunda División del campionato spagnolo. Stesso discorso riguarda il Troyes, club francese da questa stagione in Ligue 1, e il Lommel, squadra della seconda serie del campionato belga, passati nel corso del 2020 al City Football Group.A comandare questa mappa europea, però, è proprio l'Arabia Saudita, con il fondo Pif che oltre ad aver acquisito il Newcastle in Premier League, può contare sullo Sheffield United in Championship, la seconda divisione inglese, sull'Almeria in Spagna, lo Chateauroux in Francia e il Beerschot in Belgio. Il fondo Pif, però, pare non abbia intenzione di fermarsi al calcio. Il fondo di bin Salman è pronto infatti a fare il suo ingresso anche nel golf, visto che Greg Norman, membro della World Folf Hall of Fame, è stato appena nominato amministratore delegato della Liv Golf Investments, società supportata appunto dal Public fund investmet.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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