
Nell’attuale aria da «fine del mondo» vengono pubblicati saggi che analizzano i disastrosi effetti di alcune ideologie. Per anni le famiglie hanno «giustificato» i loro problemi con il freudiano complesso di Edipo. Oggi il pericolo è l’intelligenza artificiale.lo chiama «Maestro buono» si irriti e replichi: «Perché mi chiami Maestro buono? Nessuno è buono sulla terra, tranne Dio». Forse è anche per questo che, per ora, non è neppure lui il «Signore di questo mondo». Per fortuna però, o per stanchezza mista a paura, ci si sta accorgendo un po’ dovunque che le diverse «saggezze» in corso, oltre a far perdere tempo rischiano di fare piuttosto male. La crescente diffidenza per le salvezze di pronta beva è dimostrata dal fatto che nell’attuale aria di «fine del mondo» (o per lo meno di crisi mai vista prima delle ideologie materialiste degli ultimi secoli) si stiano sviluppando studi e ricerche sui disastrosi effetti delle ideologie stesse e su come uscirne. Solo nell’ultima settimana, ad esempio, si sono segnalati in Italia, in questo campo, due nuovi saggi di assoluto rilievo: La politica della cura. Prendere a cuore la vita della filosofa Luigina Mortari (Cortina editore), e Nutrire la mente. Tra parole, cibo ed emozioni di Giorgio Calabrese, medico, Salvo Noè, psicologo, e Cinzia Myriam Calabrese, medico (San Paolo editore). È tutta un’altra musica, se si pensa che i campi della psicoterapia e annessi in Occidente sono stati occupati negli ultimi 140 anni dal fantasioso ma sinistro fantasma del freudiano «complesso di Edipo». Invenzione particolarmente attiva nella moltiplicazione dei disturbi affettivi con conseguente crisi delle famiglie nelle società occidentali che (malgrado le numerose e documentate contestazioni) gli hanno dato credito e spazio. Eppure il principale fondatore dell’antropologia culturale Bronislaw Malinowski avvisò subito dopo i primi scritti di Sigmund Freud sull’Edipo: «Non siamo d’accordo con Freud in quanto non possiamo ammettere l’incesto come comportamento innato dell’infanzia. In una civiltà in cui i costumi, la morale e la legge ammettessero l’incesto la famiglia non potrebbe sussistere». E con essa la civiltà umana. L’immaginifico Freud con i suoi ricchi pazienti viennesi sul piano della fama ha però vinto sul pedante Broni Malinovsky e le sue umanissime torme di aborigeni che consideravano il figlio un dono di Dio alla famiglia, nucleo insostituibile della società. Così, anche se tra la gente Edipo rimase sempre un fantasma, al massimo un personaggio teatrale, e anche se il filosofo Gilles Deleuze e lo psicoanalista Felix Guattari lo avevano già sotterrato al capodanno del ’74 con il loro acutissimo Una tomba per Edipo (Bertani editore), le istituzioni culturali, devote a Freud per opportunismi sistemici, continuarono a fingere che fosse ancora in circolazione. Lo stesso è accaduto nella maggior parte delle «scienze umane»; dedicate all’uomo, ma ideologicamente, scientificamente, tecnicamente e a volte anche militarmente occupate dai miti ideologici delle varie fasi della modernità occidentale. L’Edipo è stato il primo, ma il «processo di civilizzazione» di Norbert Elias con i suoi figli già «politicamente corretti» e ora anche «woke» è tuttora più che mai presente e invadente, a ingombrare e intossicare con categorie mentali e anaffettive, ma soprattutto finte, la vita dei comuni umani. Per ora l’ultima comparsa del genere, molto inquietante e costosa, è la supponente Ia, intelligenza artificiale: tossica già dal nome. Ciò che però sta per fortuna accadendo è che studiosi dotati di un bagaglio formativo notevole, prendano posizioni abbastanza contro corrente e soprattutto autentiche rispetto alla cultura dominante, ostinatamente filo Edipo seppur morto. È l’autenticità della filosofa Luigina Mortari, quando scrive nel suo nuovo libro che l’autentica cura «consiste nel dare alla vita una forma che mantenga tutto il legame con la materia senza dimenticare la tensione ad abitare mondi spirituali», e propone un «materialismo spirituale».Anche i medici e psicologi di «Nutrire la mente» fanno un’operazione simile. Un atto politicamente scorrettissimo perché infrange le divisioni ormai sacralizzate tra carne e spirito, corpo e anima, cervello e massa muscolare, esaminandoli finalmente dal punto di vista pratico degli alimenti, delle terapie, delle sostanze; e anche delle autentiche realtà e pratiche psicologiche, assai diverse dalle ideologie. Posso confermare che il primo problema del paziente viene innanzitutto dal trattare male il corpo e l’anima personale per seguire un sacco di pseudo obiettivi fabbricati e ormai distribuiti da macchine, istituzioni, media, mode. Salviamo l’uomo, con il suo corpo e anima, personali. Di miti collettivi ce n’è anche troppi.
Ansa
Restano in cella i fratelli Barghouti. Intanto Hamas continua con le esecuzioni.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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