2021-01-23
I ristoranti sono presidi culturali
Costringendo all’inattività i locali e negando loro i ristori sufficienti, il governo non danneggia solamente il Pil, ma anche un valore sociale e un tratto identitarioQuella dei ristoratori non è una manifestazione politica. Non esibiscono sigle, né bandiere né stendardi. Esibiscono la disperazione economica che li porta, contro voglia, a contravvenire ai Dpcm vari provando e riprovando a tenere aperti i loro esercizi per tre obiettivi fondamentali: riuscire a raggranellare qualche soldo per pagare le spese che comunque vanno avanti, affitti, prima di tutto, avere qualcosa di cui campare sia per loro che per le famiglie di coloro che lavorano nei bar e nei ristoranti, infine provare di tutto per non chiudere perché se chiudono sanno che non potranno riaprire.C’è da considerare il fatto che questi imprenditori-lavoratori sono quelli tra i meno ascoltati. Non va dimenticato che quando quei cervelloni dei ministeri e dell’Inail dovevano scrivere le regole che i ristoratori avrebbero dovuto rispettare (vi ricordate i famosi quattro metri tra un tavolo e l’altro?) ebbene, non pensarono di consultare la più rappresentativa delle loro associazioni, la Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi), una branca della Confcommericio. Questo per dire il livello di attenzione da parte di chi decide nei confronti di questa categoria.Forse non sanno, dalle parti del governo, che in Italia ci sono 336.000 imprese di ristorazione e 148.000 bar, e che nel 2019 avevano un fatturato di 86 miliardi, quasi un diciassettesimo del Pil. I ristori non hanno ristorato un bel nulla. Inutile esibire le cifre perché se quelle cifre vengono divise per il numero dei destinatari ci si accorgerà che si oscilla tra i quattro e i cinquemila euro annuali, cioè nulla.Questo settore rappresenta il primo valore economico della filiera agroalimentare. Questo vuol dire, in parole povere, che se non lavorano loro non lavorano di conseguenza tutti quelli che forniscono loro la materia prima: macellerie, panetterie, imprese vinicole, ortofrutta, tovaglieria, ecc. ecc.Si tratta di imprese che in questi anni, anche grazie al turismo, hanno prodotto benessere e lavoro per molti. Siamo ben oltre il milione di addetti. Si tratta di imprese senza grandi capitali, molte a gestione familiare, una su tre gestite da donne, i cui unici capitali sono i risparmi che hanno accumulato in questi anni. Ebbene, in questo anno, la maggior parte di loro, se non li hanno già esauriti, sono in fase di esaurimento. In più, spesso, l’accesso al famoso bazooka di Conte, quei soldi che avrebbero dovuto prestare le banche con la garanzia dello Stato, non sono arrivati perché, alla fine, le banche li hanno dati andando a spulciare i conti e i pregressi di queste piccole aziende. Ad oggi molti di loro sono letteralmente sul lastrico.E fin qui abbiamo parlato della questione economica e del lavoro. Ma la ristorazione in Italia non ha un valore solo economico, ha anche un valore sociale e culturale. In molte città italiane ci sono ristoranti che hanno una tradizione ultracentenaria e in queste città vi sono ristoranti che offrono specialità di altre regioni. Basti pensare ai ristoranti toscani o sardi presenti in tutte le regioni d’Italia. Gli intellettuali francesi chiamano questa cultura la «cultura materiale». Forse sfugge a chi ci governa che questa cultura materiale va a costituire una parte essenziale della civiltà italiana. Sparendo o indebolendosi parte di queste attività, si indebolisce l’attrattiva culturale italiana che è fatta anche dall’enogastronomia.Ora ci chiediamo: siamo proprio sicuri che la chiusura netta di queste attività sia migliore di un’apertura regimentata e controllata per la quale questi imprenditori si erano già preparati seguendo tutto ciò che gli veniva imposto dai diversi Dpcm?Con i vaccini che non arrivano nella misura che ci aspettavamo e con i ristori che quando arrivano sono altamente insufficienti non è il caso di riconsiderare questa scelta che riguarda la ristorazione italiana?