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2020-02-15
I 5 cacciatori di teste che aiutano il governo a fare le nomine
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Ansa
Chi decide le prossime nomine di Stato? La domanda non è banale. Le società di head hunters sono già state scelte, c'è persino un comitato nomine creato da Cassa depositi e prestiti. Ma sembrano dei semplici ratificatori perché da giorni piovono sul tavolo dei cacciatori di teste come in via Goito nomi e curriculum di possibili candidati. A portarli è la politica. Non a caso la Lega di Matteo Salvini ha presentato un'interrogazione parlamentare a riguardo, chiedendo appunto chi deciderà «i nuovi incarichi» delle controllate del ministero dell'economia, «il cui conferimento» si legge nel testo firmato tra gli altri dai parlamentari Giulio Centemero e Guido Guidesi «si risolve in un atto di alta amministrazione, sono nondimeno caratterizzati dall'esigenza di selezionare soggetti dotati, oltre che dei requisiti di onorabilità previsti dalla normativa, delle più idonee doti manageriali in relazione alla natura fortemente tecnica che caratterizza l'azione e le finalità istituzionali di tali società». Come è noto ci sono in scadenza società come Eni, Leonardo, Enel, Poste Italiane, ma anche Mps, Consip, Fintecna, per non parlare dei consigli di Rfi o Enav.
Chi decide? Di sicuro la politica, con il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri punto di riferimento di tutte le anime del Partito democratico, da Nicola Zingaretti fino a Massimo D'Alema con la su fondazione Italiani Europei, dove sono ricominciati nelle ultime settimane a squillare i telefoni. Ogni ministro ha i suoi uomini sul campo. Per esempio il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini si affida al parlamentare Alberto Losacco, suo fedelissimo. Mentre tra i 5 Stelle l'astro nascente è Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con buone entrate nella Cassa depositi e prestiti di Fabrizio Palermo. A quanto risulta alla Verità, gli head hunters scelti sono Eric Salmon, Korn Ferry, Key2people, Spencer Stuart e Egon Zhender. Luigi Paro di Spencer viene dal settore energia. Mentre in Egon si muove Aurelio Regina, molto vicino all'ex presidente di Alitalia Luca Cordero di Montezemolo, quest'ultimo indagato dalla procura di Civitavecchia nel crack della nostra compagnia di bandiera. Regina è stato consulente di diversi governi di centrodestra e centrosinistra, è considerato affidabile nella scelta dei giusti candidati. Eric Salmon nel 2017 fu determinante nella scelta di Alessandro Profumo in Leonardo, mentre Key2people si occupa soprattutto di middle management.
Per Korn Ferry va seguita invece Maurizia Villa, managing director della società, da poco nominata dal sindaco di Milano Beppe Sala nel board della fondazione per le Olimpiadi di Milano e Cortina 2026. Villa, non va dimenticato, è sposata con l'avvocato Franco Toffoletto, titolare dello studio Toffoletto-De Luca-Tamajo che si occupa di diritto del lavoro. Come detto, oltre alle società cacciatrici di teste, c'è anche il comitato nomine di Cdp, formato dal presidente Giovanni Gorno Tempini, dall'amministratore delegato Palermo e dal direttore generale del Mef Alessandro Rivera. La cassa di sicuro avrà un certo peso sulle prossime nomine, ma soprattutto di salvaguardia, per evitare candidati che potrebbero compromettere i conti delle nostre aziende. Al momento è ancora tutto appeso alla presentazione delle liste per i consigli di amministrazione, che dovrebbero arrivare per la fine di marzo. Le nomine attuali sono il risultato dei vecchi governi di centrosinistra, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Evidente che qualcosa potrebbe cambiare.
Interessante la situazione di Eni, dove Claudio De Scalzi potrebbe essere riconfermato per i buoni risultati e nonostante le inchieste della procura di Milano. Come presidente al posto di Emma Marcegaglia circolano i nomi di Franco Bernabè, ex Telecom e quello di Paolo Colombo, presidente di Saipem, tra i massimi esperti del settore oil&gas. Mentre in Leonardo si parla di un possibile addio del presidente Gianni De Gennaro che potrebbe prendere il posto di Rolando Mosca Moschini, prossimo alla pensione, come consigliere militare del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
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Eric Salmon, Korn Ferry, Key2people, Spencer Stuart e Egon Zhender sono state arruolate dal ministero dell'Economia per assistere l'esecutivo nella scelta dei rinnovi dei vertici delle partecipate. Oltre a loro c'è anche il comitato nomine di Cassa depositi e prestiti. Ma alla fine a decidere sarà sempre la politica. La Lega presenta un'interrogazione parlamentare. Chi decide le prossime nomine di Stato? La domanda non è banale. Le società di head hunters sono già state scelte, c'è persino un comitato nomine creato da Cassa depositi e prestiti. Ma sembrano dei semplici ratificatori perché da giorni piovono sul tavolo dei cacciatori di teste come in via Goito nomi e curriculum di possibili candidati. A portarli è la politica. Non a caso la Lega di Matteo Salvini ha presentato un'interrogazione parlamentare a riguardo, chiedendo appunto chi deciderà «i nuovi incarichi» delle controllate del ministero dell'economia, «il cui conferimento» si legge nel testo firmato tra gli altri dai parlamentari Giulio Centemero e Guido Guidesi «si risolve in un atto di alta amministrazione, sono nondimeno caratterizzati dall'esigenza di selezionare soggetti dotati, oltre che dei requisiti di onorabilità previsti dalla normativa, delle più idonee doti manageriali in relazione alla natura fortemente tecnica che caratterizza l'azione e le finalità istituzionali di tali società». Come è noto ci sono in scadenza società come Eni, Leonardo, Enel, Poste Italiane, ma anche Mps, Consip, Fintecna, per non parlare dei consigli di Rfi o Enav. Chi decide? Di sicuro la politica, con il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri punto di riferimento di tutte le anime del Partito democratico, da Nicola Zingaretti fino a Massimo D'Alema con la su fondazione Italiani Europei, dove sono ricominciati nelle ultime settimane a squillare i telefoni. Ogni ministro ha i suoi uomini sul campo. Per esempio il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini si affida al parlamentare Alberto Losacco, suo fedelissimo. Mentre tra i 5 Stelle l'astro nascente è Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con buone entrate nella Cassa depositi e prestiti di Fabrizio Palermo. A quanto risulta alla Verità, gli head hunters scelti sono Eric Salmon, Korn Ferry, Key2people, Spencer Stuart e Egon Zhender. Luigi Paro di Spencer viene dal settore energia. Mentre in Egon si muove Aurelio Regina, molto vicino all'ex presidente di Alitalia Luca Cordero di Montezemolo, quest'ultimo indagato dalla procura di Civitavecchia nel crack della nostra compagnia di bandiera. Regina è stato consulente di diversi governi di centrodestra e centrosinistra, è considerato affidabile nella scelta dei giusti candidati. Eric Salmon nel 2017 fu determinante nella scelta di Alessandro Profumo in Leonardo, mentre Key2people si occupa soprattutto di middle management. Per Korn Ferry va seguita invece Maurizia Villa, managing director della società, da poco nominata dal sindaco di Milano Beppe Sala nel board della fondazione per le Olimpiadi di Milano e Cortina 2026. Villa, non va dimenticato, è sposata con l'avvocato Franco Toffoletto, titolare dello studio Toffoletto-De Luca-Tamajo che si occupa di diritto del lavoro. Come detto, oltre alle società cacciatrici di teste, c'è anche il comitato nomine di Cdp, formato dal presidente Giovanni Gorno Tempini, dall'amministratore delegato Palermo e dal direttore generale del Mef Alessandro Rivera. La cassa di sicuro avrà un certo peso sulle prossime nomine, ma soprattutto di salvaguardia, per evitare candidati che potrebbero compromettere i conti delle nostre aziende. Al momento è ancora tutto appeso alla presentazione delle liste per i consigli di amministrazione, che dovrebbero arrivare per la fine di marzo. Le nomine attuali sono il risultato dei vecchi governi di centrosinistra, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Evidente che qualcosa potrebbe cambiare. Interessante la situazione di Eni, dove Claudio De Scalzi potrebbe essere riconfermato per i buoni risultati e nonostante le inchieste della procura di Milano. Come presidente al posto di Emma Marcegaglia circolano i nomi di Franco Bernabè, ex Telecom e quello di Paolo Colombo, presidente di Saipem, tra i massimi esperti del settore oil&gas. Mentre in Leonardo si parla di un possibile addio del presidente Gianni De Gennaro che potrebbe prendere il posto di Rolando Mosca Moschini, prossimo alla pensione, come consigliere militare del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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