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2023-10-16
Quanto inquina il Green Deal
Auto escluse dalla circolazione in aree urbane sempre più vaste che all’improvviso diventano inutilizzabili e quindi da rottamare, batterie di vetture elettriche da smaltire, vecchi infissi e caldaie da rottamare e poi dispositivi elettronici, pannelli solari, pale eoliche. La transizione ecologica sta rivoluzionando le nostre abitudini, accelerando la fine di tanti prodotti sostituiti da altri che hanno una vita sempre più breve. L’altra faccia del Green Deal è l’aumento esponenziale dei rifiuti tossici ad un ritmo accelerato mentre la tecnologia dello smaltimento e del riciclo è ancora poco efficace e costosa.
Si moltiplicano i divieti alle vecchie auto ma nessuno si pone il problema di come sarà rottamato questo immenso parco circolante. Come nessuno si pone ancora con urgenza il tema dello smaltimento delle batterie dei veicoli elettrici, al momento poche decine di migliaia quelle verso la fine della loro vita, ma che presto diventeranno milioni.
Poi ci sono i vecchi elettrodomestici, con una vita sempre più breve, sostituiti da prodotti più ecologici e performanti. Un’indagine di Altroconsumo ha rivelato che quasi il 40% dei «grandi bianchi», ovvero frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, asciugatrici, e congelatori, non arrivano agli impianti di smaltimento autorizzati scomparendo in discariche abusive, in altre abitazioni private, in depositi o nei mercatini dell’usato. Il peso degli elettrodomestici abbandonati arriva a circa 44.000 tonnellate. Su 205 «pezzi», solo 107 (il 61% del totale) sono effettivamente approdati in impianti autorizzati, in grado di garantire cioè un trattamento corretto dal punto di vista ambientale. Gli altri 67 (pari al 39%) sono stati sottratti alla filiera «ufficiale» finendo nei flussi paralleli. Questi apparecchi hanno una vita cortissima, spesso vengono sostituiti dopo pochi anni, a causa di un marketing che propone oggetti più in linea con gli standard ecologici.
Il bonus del 110% ha accelerato i lavori di coibentazione per il risparmio energetico e prodotto una quantità mai vista prima di scarti: infissi inutilizzabili, caldaie, materiali edili sono andati al macero o dirottati verso località dove le misure ecologiche sono meno stringenti.
L’arrivo dei nuovi criteri di certificazione energetica, imporranno lavori di ristrutturazione nella maggior parte del patrimonio immobiliare. Questo significa che improvvisamente si produrranno tonnellate di materiali da smaltire, molti dei quali ad alto impatto ambientale come le plastiche.
Tra gli obiettivi della transizione ecologica c’è anche un capitolo che riguarda il tessile. Entro il 2030, addio fibre sintetiche, quelle finora padrone dell’abbigliamento perché veloci da asciugare e nemiche del ferro da stiro. Ad oggi solo l’1% di tutto il tessile nel mondo viene riciclato. Il resto va a finire nelle discariche, spesso illegali, nei mercati secondari e in regioni povere. La guerra serrata a queste fibre rischia di creare una montagna di rifiuti difficili da gestire. I materiali sintetici, rappresentano oggi il 60% delle fibre tessili immesse nel mercato (il poliestere è la più usata).
Un altro problema della transizione ecologica è lo smaltimento delle vecchie auto endotermiche ma anche, in una prospettiva ravvicinata, delle batterie delle elettriche e delle ibride.
I blocchi della circolazione in vaste aree nelle maggiori città inducono al ricambio veloce delle vetture. Le periferie urbane si stanno trasformando in discariche di carcasse che vengono affidate agli sfasciacarrozze. Spesso questi operano senza alcun rispetto delle normative sull’impatto ambientale. Le cronache riportano casi sempre più frequenti di roghi che esalano fumi tossici mentre i liquami chimici che escono dalle batterie vanno ad inquinare il terreno fino ad arrivare nelle falde acquifere. Altre auto prendono la strada di località dove i vincoli ambientalistici sono laschi o inesistenti e continuano a inquinare. Mentre procede serrata la guerra alle vetture a benzina e diesel, non avanzano con la stessa velocità i siti e la tecnologia di smaltimento.
La produzione di batterie per e-car aumenta del 25% l’anno in media, e tra 10 o 15 anni la quantità di batterie da smaltire e riciclare sarà drammatica. Di qui al 2030 la domanda di motori elettrici aumenterà di oltre dieci volte. Entro il 2030 si stima che saranno almeno 30 milioni le e-car sulle strade dell’Ue. Milioni di batterie dovranno essere smaltite.
Attualmente è più facile riciclare le tradizionali batterie con piombo e acido che non quelle a litio e ioni delle auto elettriche, poiché contengono molti elementi pericolosi e inquinanti, dal cobalto al nickel al manganese. Devono essere smaltite in modo corretto e soprattutto in strutture specializzate: se il processo è a norma non ci sono rischi né per le persone né per l’ambiente ma se gli elementi che ne fanno parte vengono dispersi, possono provocare dei danni, anche ingenti. Gli impianti specializzati nello smaltimento e riciclo delle batterie a litio si trovano solamente in pochi Paesi europei, per lo più in Germania, Francia, Belgio e Spagna. Il processo è ancora economicamente molto dispendioso e sono in corso gli esperimenti per un processo idrometallurgico in grado di recuperare oltre il 90% dei metalli contenuti nella batteria.
Il Consiglio europeo ha approvato in via definitiva a luglio scorso il nuovo regolamento sui motori elettrici. I produttori dovranno occuparsi del recupero entro il 2023 di almeno il 45% degli scarti, del 63% entro il 2027 e del 73% entro il 2030. La nuova normativa prevede pure che «entro il 2027 le batterie portatili incorporate negli apparecchi siano rimovibili e sostituibili dall’utilizzatore finale». Si è anche fissata una percentuale di recupero del litio dagli scarti pari a al 50% entro il 2027 e all’80% nel 2031. Sono percentuali che al momento appaiono difficili da raggiungere.
«All’Italia mancano industrie che riutilizzino i metalli riciclati»
«In un viaggio in Africa mi sono imbattuto in alcuni bambini che smontavano vecchie batterie per ricavare i metalli per le industrie. Tutto avveniva nel totale dispregio delle norme per il lavoro minorile e per la tutela della salute e dell’ambiente. Quei bambini che mettevano le mani in sostanze chimiche molto pericolose, mi fecero riflettere a lungo. Era il 2008 e nonostante in Europa e in Italia già circolassero auto elettriche e ibride, non si parlava ancora dello smaltimento e riciclaggio delle batterie. C’erano alcune multinazionali che si occupavano dell’estrazione e dalla raffinazione dei metalli contenuti nelle celle delle batterie, ma erano realtà isolate. Da quel viaggio in Africa ho cominciato a pensare di avviare un’attività che si occupasse di questi prodotti di scarto. Batterie in generale, da quelle dei veicoli a quelle di apparecchiature elettriche ed elettroniche, di computer, cellulari, dei pannelli fotovoltaici». La storia della Spirit di Angelo Forestan, con sede a Chiampo in provincia di Vicenza, comincia così e va avanti tra mille difficoltà, tra pastoie burocratiche e problematiche di accesso ai finanziamenti, anche di quelli destinati all’economia circolare.
Cosa fa esattamente la Spirit con le batterie?
«La mia azienda nasce nel 1984 per trattare i materiali di scarto dell’industria chimica di un altro settore. Dopo quel viaggio in Africa e dopo aver studiato la legislazione europea ed italiana e quello che offrivano altri Paesi in Europa, ho pensato che era una follia continuare ad esportare ricchezza. Le batterie sono infatti uno scrigno perché contengono metalli che possono essere riutilizzati per costruire altre batterie. Ho impiegato oltre tre anni per avere tutti i permessi e avviare questa attività. La Spirit produce quella che viene definita la black mass, ovvero la polvere anodica e catodica tratta dalle celle delle batterie. Contiene composti del cobalto, nichel, litio, manganese e grafite ma anche i cavi elettrici di rame, il Bms, la plastica o il metallo del pack».
Che fine fa questa polvere tratta dalle batterie?
«Purtroppo prende la via dell’estero. In Italia non ci sono industrie per la raffinazione e il riutilizzo di tali metalli molto ricercati. Spirit è l’unica realtà industriale che recupera e ricicla il contenuto delle batterie e sta studiando come migliorare il processo di raffinazione. Occorrono investimenti importanti».
Non c’è il Pnrr?
«Chi l’ha visto?».
E altri finanziamenti?
«Ci sono i fondi per l’economia circolare ma per partecipare ai bandi occorre affidarsi a uno studio di sviluppo, è oneroso e non garantisce l’esito. Quanto alle banche, chiedono piani di previsione di qui ai prossimi dieci anni. Difficile trovare in Italia imprenditori capaci di scommettere su un settore che ha un ritorno economico non immediato e non privo di rischi visto il ritardo con cui l’Italia, in generale, si muove nel settore dello storage, della mobilità elettrica».
E allora i metalli ricavati dalle batterie vanno all’estero. È così?
«Esattamente. In Belgio, Francia e Germania ci sono multinazionali con miniere in tutto il mondo e che si occupano della raffinazione delle materie prime. Anziché scavare in miniera traggono i materiali da celle di batterie a fine vita. Nella black mass concentrata ci può essere un contenuto di cobalto che può arrivare al 40%. Meglio che estrarlo nelle miniere del Congo. Il governo francese, tedesco ed altri, sono molto attenti all’industria del trattamento di questo tipo di rifiuti perché servono alla produzione di nuove celle. L’Italia ha abbandonato da tempo l’industria elettrochimica, oggetto di una cultura che l’ha demonizzata, perché considerata inquinante a causa di errori di pochissimi. E ora esportiamo ricchezza».
Quante batterie arrivano nella sua impresa?
«Noi lavoriamo oltre 500 tonnellate all’anno di batterie. La gran parte vengono da smartphone, computer, scouter, impianti industriali, impianti fotovoltaici e circa il 10-20% dalle auto. Provengono dai centri Raee e da aziende operanti nel settore».
Chi sono i principali acquirenti dei composti metallici?.
«Riforniamo di black mass aziende situate nel Sud Est asiatico che sono all’avanguardia nella produzione di celle, di batterie e di apparecchiature portatili. L’accelerazione della transizione ecologica dovrebbe indurre ad investire, per non essere dipendenti dall’estero, anche in questo settore».
Allarme sfasciacarrozze: fumi velenosi e falde contaminate
«Lo smaltimento delle batterie delle auto elettriche non sarà certamente un problema, semmai un’opportunità». Andrea Cardinali, direttore generale dell’Unrae, associazione di categoria dell’automotive sostiene che «si sta sollevando un gran polverone sull’impatto ambientale delle vetture elettriche e ci si dimentica dei rischi di uno smaltimento scorretto del vecchio parco circolante endotermico». Le vetture endotermiche in circolazione, spiega, «sono 39 milioni, di cui quasi un quarto ante Euro 4 che prima o poi dovranno essere rottamate».
I divieti di circolazione sempre più estesi imposti da alcuni sindaci, porranno il tema della rottamazione di milioni di veicoli con più di 15 anni sulle spalle. Il direttore dell’Unrae punta il dito su un tema sensibile. «Benché l’Italia sia all’avanguardia nell’economia circolare, in questo settore non è stato pienamente raggiunto l’obiettivo dell’85% di riciclo», afferma, «perché, nonostante l’impegno delle case automobilistiche, esiste un sommerso con sacche di attività poco controllate».
E indica quello che succede alla periferia di Roma, in via Palmiro Togliatti, nota per gli sfasciacarrozze, una sorta di cimitero delle auto. «Per decenni si è parlato di trasferirli fuori dal perimetro urbano, senza mai riuscirci. Alla fine sono state revocate tutte le autorizzazioni nella provincia di Roma. Ma i siti non sono stati sgomberati né tantomeno bonificati, e non sono rari i casi di incendi, riportati dalle cronache, che creano fumi altamente tossici. Per non parlare dei fluidi che fuoriescono dai motori endotermici, penetrano nel terreno e vanno ad inquinare le falde acquifere. È questa la vera emergenza di danno ambientale. Nel frattempo tante vecchie auto, espulse da alcuni centri urbani finiscono nel Mezzogiorno o in altri Paesi che non hanno i vincoli della transizione ecologica. E continuano ad inquinare».
Pale eoliche obsolete dopo appena 15 anni
L’energia eolica è una fonte rinnovabile il cui sfruttamento è in forte crescita. Nel 2021 la capacità eolica globale installata è risultata pari a 837 GW, il 12,4% in più rispetto all’anno precedente. L’Italia è il quinto paese in Europa in termini di capacità eolica installata. Dopo 15-20 anni dalla loro installazione, molti dei parchi eolici sono considerati obsoleti. Secondo le stime dell’Università di Cambridge, entro il 2050 ci saranno circa 43 milioni di tonnellate di infrastrutture da smaltire. Le pale della turbina, a differenza degli altri componenti, sono più difficili da eliminare. Inoltre la parte interrata resta lì dov’è.
Attualmente vengono spedite in altri Paesi, come l’Ucraina, oppure vengono riassemblate in Italia, nel Regno Unito, in Danimarca e in Svezia. Circa il 20% viene riciclato ma sono poche le aziende europee in grado di farlo. Una di esse è una start-up spagnola Reciclalia, che riceve le pale da Francia, Portogallo e Nord Africa. Enel Green Power è parte del progetto DeremCo dell’Ue, che si occuperà di creare una catena di valore per il riutilizzo dei materiali compositi delle pale eoliche. Il piano è iniziato nel dicembre 2022 e avrà una durata di 3 anni, con un budget complessivo di 12 milioni di euro. In Europa la danese Continuum ha annunciato la realizzazione nella Ue di 6 impianti. Dove? Per ora i paesi in lista sono Danimarca, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna e Turchia. Sarà cofinanziato con i fondi del Pnrr, il progetto del Gruppo Greenthesis per il recupero dei vecchi parchi eolici: i materiali dismessi diventeranno scafi di barche o nuove eliche. Il luogo del conferimento, di proprietà Enel, è a Rossano Calabro, nel Cosentino.
Rispetto alla tabella di marcia dell’installazione di nuovi impianti, la tecnologia di smaltimento è in ritardo.
I pannelli fotovoltaici? Impossibile recuperarli
In Italia nel 2022 erano attivi 1.225.000 impianti fotovoltaici, il 21% in più rispetto al 2021. La metà della potenza installata è concentrata nel settore industriale, seguito dal comparto residenziale, terziario e agricoltura. L’accelerazione è dovuta anche al Superbonus, utilizzato nel 66% delle nuove installazioni lo scorso anni. «Considerato che la vita media dell’impianto fotovoltaico è di circa vent’anni, significa che il nostro Paese ha di fronte il tema di un ammodernamento di milioni di impianti» afferma il ricercatore e analista nel settore energetico e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica, Enrico Mariutti.
Il problema è che, per il momento, riciclare i pannelli è antieconomico. Negli Stati Uniti circa il 90% delle strutture solari difettose o a fine vita finisce in discarica, perché questa opzione è più economica del riciclo. Anche nell’Ue il tasso di riciclo è pari a solo il 10%. Eppure contengono materiali preziosi come argento, rame e silicio cristallino, il semiconduttore dominante nella produzione di celle solari per il fotovoltaico, ma anche vetro, alluminio e polimeri derivanti dalle materie plastiche. Però paradossalmente i pannelli, emblema dell’economia green, sembrano progettati per non essere riciclabili. I materiali preziosi sono dislocati in piccole quantità o «incollati» insieme. Se il tutto viene triturato in un impianto di riciclaggio, è difficile o impossibile recuperare i singoli componenti, che peraltro, verrebbero contaminati. È necessario quindi che prima siano individuati e separati, ma per farlo servono procedimenti complessi e attrezzature sofisticate.
Le tecniche di trattamento sono costose, spesso in fase di sperimentazione e non ancora ottimizzate per gestire grandi volumi di rifiuti.
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Dalle vecchie auto alle caldaie ai vestiti a fibre sintetiche, la transizione ecologica accelerata produce un aumento esponenziale di rifiuti tossici. E la tecnologia dello smaltimento non riesce a tenere il passo.Il fondatore di Spirit Angelo Forestan: «Siamo l’unica azienda che recupera le batterie, ma poi dobbiamo vendere all’estero il materiale ottenuto. Servirebbero investimenti, come in Francia e Germania, invece nel Pnrr non c’è niente».Allarme Unrae sugli sfasciacarrozze per l'inquinamento di falde e fumi tossici.Eolico: pale obsolete in soli 15 anni.Pannelli solari: riciclo quasi impossibile.Lo speciale contiene cinque articoli.Auto escluse dalla circolazione in aree urbane sempre più vaste che all’improvviso diventano inutilizzabili e quindi da rottamare, batterie di vetture elettriche da smaltire, vecchi infissi e caldaie da rottamare e poi dispositivi elettronici, pannelli solari, pale eoliche. La transizione ecologica sta rivoluzionando le nostre abitudini, accelerando la fine di tanti prodotti sostituiti da altri che hanno una vita sempre più breve. L’altra faccia del Green Deal è l’aumento esponenziale dei rifiuti tossici ad un ritmo accelerato mentre la tecnologia dello smaltimento e del riciclo è ancora poco efficace e costosa. Si moltiplicano i divieti alle vecchie auto ma nessuno si pone il problema di come sarà rottamato questo immenso parco circolante. Come nessuno si pone ancora con urgenza il tema dello smaltimento delle batterie dei veicoli elettrici, al momento poche decine di migliaia quelle verso la fine della loro vita, ma che presto diventeranno milioni. Poi ci sono i vecchi elettrodomestici, con una vita sempre più breve, sostituiti da prodotti più ecologici e performanti. Un’indagine di Altroconsumo ha rivelato che quasi il 40% dei «grandi bianchi», ovvero frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, asciugatrici, e congelatori, non arrivano agli impianti di smaltimento autorizzati scomparendo in discariche abusive, in altre abitazioni private, in depositi o nei mercatini dell’usato. Il peso degli elettrodomestici abbandonati arriva a circa 44.000 tonnellate. Su 205 «pezzi», solo 107 (il 61% del totale) sono effettivamente approdati in impianti autorizzati, in grado di garantire cioè un trattamento corretto dal punto di vista ambientale. Gli altri 67 (pari al 39%) sono stati sottratti alla filiera «ufficiale» finendo nei flussi paralleli. Questi apparecchi hanno una vita cortissima, spesso vengono sostituiti dopo pochi anni, a causa di un marketing che propone oggetti più in linea con gli standard ecologici. Il bonus del 110% ha accelerato i lavori di coibentazione per il risparmio energetico e prodotto una quantità mai vista prima di scarti: infissi inutilizzabili, caldaie, materiali edili sono andati al macero o dirottati verso località dove le misure ecologiche sono meno stringenti.L’arrivo dei nuovi criteri di certificazione energetica, imporranno lavori di ristrutturazione nella maggior parte del patrimonio immobiliare. Questo significa che improvvisamente si produrranno tonnellate di materiali da smaltire, molti dei quali ad alto impatto ambientale come le plastiche.Tra gli obiettivi della transizione ecologica c’è anche un capitolo che riguarda il tessile. Entro il 2030, addio fibre sintetiche, quelle finora padrone dell’abbigliamento perché veloci da asciugare e nemiche del ferro da stiro. Ad oggi solo l’1% di tutto il tessile nel mondo viene riciclato. Il resto va a finire nelle discariche, spesso illegali, nei mercati secondari e in regioni povere. La guerra serrata a queste fibre rischia di creare una montagna di rifiuti difficili da gestire. I materiali sintetici, rappresentano oggi il 60% delle fibre tessili immesse nel mercato (il poliestere è la più usata). Un altro problema della transizione ecologica è lo smaltimento delle vecchie auto endotermiche ma anche, in una prospettiva ravvicinata, delle batterie delle elettriche e delle ibride.I blocchi della circolazione in vaste aree nelle maggiori città inducono al ricambio veloce delle vetture. Le periferie urbane si stanno trasformando in discariche di carcasse che vengono affidate agli sfasciacarrozze. Spesso questi operano senza alcun rispetto delle normative sull’impatto ambientale. Le cronache riportano casi sempre più frequenti di roghi che esalano fumi tossici mentre i liquami chimici che escono dalle batterie vanno ad inquinare il terreno fino ad arrivare nelle falde acquifere. Altre auto prendono la strada di località dove i vincoli ambientalistici sono laschi o inesistenti e continuano a inquinare. Mentre procede serrata la guerra alle vetture a benzina e diesel, non avanzano con la stessa velocità i siti e la tecnologia di smaltimento. La produzione di batterie per e-car aumenta del 25% l’anno in media, e tra 10 o 15 anni la quantità di batterie da smaltire e riciclare sarà drammatica. Di qui al 2030 la domanda di motori elettrici aumenterà di oltre dieci volte. Entro il 2030 si stima che saranno almeno 30 milioni le e-car sulle strade dell’Ue. Milioni di batterie dovranno essere smaltite.Attualmente è più facile riciclare le tradizionali batterie con piombo e acido che non quelle a litio e ioni delle auto elettriche, poiché contengono molti elementi pericolosi e inquinanti, dal cobalto al nickel al manganese. Devono essere smaltite in modo corretto e soprattutto in strutture specializzate: se il processo è a norma non ci sono rischi né per le persone né per l’ambiente ma se gli elementi che ne fanno parte vengono dispersi, possono provocare dei danni, anche ingenti. Gli impianti specializzati nello smaltimento e riciclo delle batterie a litio si trovano solamente in pochi Paesi europei, per lo più in Germania, Francia, Belgio e Spagna. Il processo è ancora economicamente molto dispendioso e sono in corso gli esperimenti per un processo idrometallurgico in grado di recuperare oltre il 90% dei metalli contenuti nella batteria.Il Consiglio europeo ha approvato in via definitiva a luglio scorso il nuovo regolamento sui motori elettrici. I produttori dovranno occuparsi del recupero entro il 2023 di almeno il 45% degli scarti, del 63% entro il 2027 e del 73% entro il 2030. La nuova normativa prevede pure che «entro il 2027 le batterie portatili incorporate negli apparecchi siano rimovibili e sostituibili dall’utilizzatore finale». Si è anche fissata una percentuale di recupero del litio dagli scarti pari a al 50% entro il 2027 e all’80% nel 2031. Sono percentuali che al momento appaiono difficili da raggiungere.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/green-deal-inquinamento-2665978590.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="allitalia-mancano-industrie-che-riutilizzino-i-metalli-riciclati" data-post-id="2665978590" data-published-at="1697460271" data-use-pagination="False"> «All’Italia mancano industrie che riutilizzino i metalli riciclati» «In un viaggio in Africa mi sono imbattuto in alcuni bambini che smontavano vecchie batterie per ricavare i metalli per le industrie. Tutto avveniva nel totale dispregio delle norme per il lavoro minorile e per la tutela della salute e dell’ambiente. Quei bambini che mettevano le mani in sostanze chimiche molto pericolose, mi fecero riflettere a lungo. Era il 2008 e nonostante in Europa e in Italia già circolassero auto elettriche e ibride, non si parlava ancora dello smaltimento e riciclaggio delle batterie. C’erano alcune multinazionali che si occupavano dell’estrazione e dalla raffinazione dei metalli contenuti nelle celle delle batterie, ma erano realtà isolate. Da quel viaggio in Africa ho cominciato a pensare di avviare un’attività che si occupasse di questi prodotti di scarto. Batterie in generale, da quelle dei veicoli a quelle di apparecchiature elettriche ed elettroniche, di computer, cellulari, dei pannelli fotovoltaici». La storia della Spirit di Angelo Forestan, con sede a Chiampo in provincia di Vicenza, comincia così e va avanti tra mille difficoltà, tra pastoie burocratiche e problematiche di accesso ai finanziamenti, anche di quelli destinati all’economia circolare. Cosa fa esattamente la Spirit con le batterie? «La mia azienda nasce nel 1984 per trattare i materiali di scarto dell’industria chimica di un altro settore. Dopo quel viaggio in Africa e dopo aver studiato la legislazione europea ed italiana e quello che offrivano altri Paesi in Europa, ho pensato che era una follia continuare ad esportare ricchezza. Le batterie sono infatti uno scrigno perché contengono metalli che possono essere riutilizzati per costruire altre batterie. Ho impiegato oltre tre anni per avere tutti i permessi e avviare questa attività. La Spirit produce quella che viene definita la black mass, ovvero la polvere anodica e catodica tratta dalle celle delle batterie. Contiene composti del cobalto, nichel, litio, manganese e grafite ma anche i cavi elettrici di rame, il Bms, la plastica o il metallo del pack». Che fine fa questa polvere tratta dalle batterie? «Purtroppo prende la via dell’estero. In Italia non ci sono industrie per la raffinazione e il riutilizzo di tali metalli molto ricercati. Spirit è l’unica realtà industriale che recupera e ricicla il contenuto delle batterie e sta studiando come migliorare il processo di raffinazione. Occorrono investimenti importanti». Non c’è il Pnrr? «Chi l’ha visto?». E altri finanziamenti? «Ci sono i fondi per l’economia circolare ma per partecipare ai bandi occorre affidarsi a uno studio di sviluppo, è oneroso e non garantisce l’esito. Quanto alle banche, chiedono piani di previsione di qui ai prossimi dieci anni. Difficile trovare in Italia imprenditori capaci di scommettere su un settore che ha un ritorno economico non immediato e non privo di rischi visto il ritardo con cui l’Italia, in generale, si muove nel settore dello storage, della mobilità elettrica». E allora i metalli ricavati dalle batterie vanno all’estero. È così? «Esattamente. In Belgio, Francia e Germania ci sono multinazionali con miniere in tutto il mondo e che si occupano della raffinazione delle materie prime. Anziché scavare in miniera traggono i materiali da celle di batterie a fine vita. Nella black mass concentrata ci può essere un contenuto di cobalto che può arrivare al 40%. Meglio che estrarlo nelle miniere del Congo. Il governo francese, tedesco ed altri, sono molto attenti all’industria del trattamento di questo tipo di rifiuti perché servono alla produzione di nuove celle. L’Italia ha abbandonato da tempo l’industria elettrochimica, oggetto di una cultura che l’ha demonizzata, perché considerata inquinante a causa di errori di pochissimi. E ora esportiamo ricchezza». Quante batterie arrivano nella sua impresa? «Noi lavoriamo oltre 500 tonnellate all’anno di batterie. La gran parte vengono da smartphone, computer, scouter, impianti industriali, impianti fotovoltaici e circa il 10-20% dalle auto. Provengono dai centri Raee e da aziende operanti nel settore». Chi sono i principali acquirenti dei composti metallici?. «Riforniamo di black mass aziende situate nel Sud Est asiatico che sono all’avanguardia nella produzione di celle, di batterie e di apparecchiature portatili. 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Le vetture endotermiche in circolazione, spiega, «sono 39 milioni, di cui quasi un quarto ante Euro 4 che prima o poi dovranno essere rottamate». I divieti di circolazione sempre più estesi imposti da alcuni sindaci, porranno il tema della rottamazione di milioni di veicoli con più di 15 anni sulle spalle. Il direttore dell’Unrae punta il dito su un tema sensibile. «Benché l’Italia sia all’avanguardia nell’economia circolare, in questo settore non è stato pienamente raggiunto l’obiettivo dell’85% di riciclo», afferma, «perché, nonostante l’impegno delle case automobilistiche, esiste un sommerso con sacche di attività poco controllate». E indica quello che succede alla periferia di Roma, in via Palmiro Togliatti, nota per gli sfasciacarrozze, una sorta di cimitero delle auto. «Per decenni si è parlato di trasferirli fuori dal perimetro urbano, senza mai riuscirci. Alla fine sono state revocate tutte le autorizzazioni nella provincia di Roma. Ma i siti non sono stati sgomberati né tantomeno bonificati, e non sono rari i casi di incendi, riportati dalle cronache, che creano fumi altamente tossici. Per non parlare dei fluidi che fuoriescono dai motori endotermici, penetrano nel terreno e vanno ad inquinare le falde acquifere. È questa la vera emergenza di danno ambientale. Nel frattempo tante vecchie auto, espulse da alcuni centri urbani finiscono nel Mezzogiorno o in altri Paesi che non hanno i vincoli della transizione ecologica. E continuano ad inquinare». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/green-deal-inquinamento-2665978590.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="pale-eoliche-obsolete-dopo-appena-15-anni" data-post-id="2665978590" data-published-at="1697460271" data-use-pagination="False"> Pale eoliche obsolete dopo appena 15 anni L’energia eolica è una fonte rinnovabile il cui sfruttamento è in forte crescita. Nel 2021 la capacità eolica globale installata è risultata pari a 837 GW, il 12,4% in più rispetto all’anno precedente. L’Italia è il quinto paese in Europa in termini di capacità eolica installata. Dopo 15-20 anni dalla loro installazione, molti dei parchi eolici sono considerati obsoleti. Secondo le stime dell’Università di Cambridge, entro il 2050 ci saranno circa 43 milioni di tonnellate di infrastrutture da smaltire. Le pale della turbina, a differenza degli altri componenti, sono più difficili da eliminare. Inoltre la parte interrata resta lì dov’è. Attualmente vengono spedite in altri Paesi, come l’Ucraina, oppure vengono riassemblate in Italia, nel Regno Unito, in Danimarca e in Svezia. Circa il 20% viene riciclato ma sono poche le aziende europee in grado di farlo. Una di esse è una start-up spagnola Reciclalia, che riceve le pale da Francia, Portogallo e Nord Africa. Enel Green Power è parte del progetto DeremCo dell’Ue, che si occuperà di creare una catena di valore per il riutilizzo dei materiali compositi delle pale eoliche. Il piano è iniziato nel dicembre 2022 e avrà una durata di 3 anni, con un budget complessivo di 12 milioni di euro. In Europa la danese Continuum ha annunciato la realizzazione nella Ue di 6 impianti. Dove? Per ora i paesi in lista sono Danimarca, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna e Turchia. Sarà cofinanziato con i fondi del Pnrr, il progetto del Gruppo Greenthesis per il recupero dei vecchi parchi eolici: i materiali dismessi diventeranno scafi di barche o nuove eliche. Il luogo del conferimento, di proprietà Enel, è a Rossano Calabro, nel Cosentino. Rispetto alla tabella di marcia dell’installazione di nuovi impianti, la tecnologia di smaltimento è in ritardo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/green-deal-inquinamento-2665978590.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="i-pannelli-fotovoltaici-impossibile-recuperarli" data-post-id="2665978590" data-published-at="1697460271" data-use-pagination="False"> I pannelli fotovoltaici? Impossibile recuperarli In Italia nel 2022 erano attivi 1.225.000 impianti fotovoltaici, il 21% in più rispetto al 2021. La metà della potenza installata è concentrata nel settore industriale, seguito dal comparto residenziale, terziario e agricoltura. L’accelerazione è dovuta anche al Superbonus, utilizzato nel 66% delle nuove installazioni lo scorso anni. «Considerato che la vita media dell’impianto fotovoltaico è di circa vent’anni, significa che il nostro Paese ha di fronte il tema di un ammodernamento di milioni di impianti» afferma il ricercatore e analista nel settore energetico e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica, Enrico Mariutti. Il problema è che, per il momento, riciclare i pannelli è antieconomico. Negli Stati Uniti circa il 90% delle strutture solari difettose o a fine vita finisce in discarica, perché questa opzione è più economica del riciclo. Anche nell’Ue il tasso di riciclo è pari a solo il 10%. Eppure contengono materiali preziosi come argento, rame e silicio cristallino, il semiconduttore dominante nella produzione di celle solari per il fotovoltaico, ma anche vetro, alluminio e polimeri derivanti dalle materie plastiche. Però paradossalmente i pannelli, emblema dell’economia green, sembrano progettati per non essere riciclabili. I materiali preziosi sono dislocati in piccole quantità o «incollati» insieme. Se il tutto viene triturato in un impianto di riciclaggio, è difficile o impossibile recuperare i singoli componenti, che peraltro, verrebbero contaminati. È necessario quindi che prima siano individuati e separati, ma per farlo servono procedimenti complessi e attrezzature sofisticate. Le tecniche di trattamento sono costose, spesso in fase di sperimentazione e non ancora ottimizzate per gestire grandi volumi di rifiuti.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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