2022-08-12
Gli Usa: «Di Maio è l’uomo di Pechino in Italia»
Il ministro degli Esteri dà patenti di atlantismo a destra e a manca, ma ancora a fine 2020 un report consegnato al Congresso americano e realizzato con dati dell’intelligence lo bollava come cavallo di Troia cinese. Con buona pace delle sue giravolte.Subito dopo la telenovela di Carlo Calenda, che ha sedotto e abbandonato il Pd di Enrico Letta per poi andar incontro a Matteo Renzi, la novità della campagna elettorale in corso è senza dubbio la metamorfosi di Luigi Di Maio. Da grillino a grillo parlante dell’establishment, da braccio destro di Grillo a devoto di Draghi, da nemico giurato dei dem a loro alleato di ferro, in poche settimane il ministro degli Esteri uscente è stato protagonista d’un cambiamento così radicale da far quasi sospettare che il leader di Impegno civico, in realtà, sia un sosia dell’originale. Chissà.Sta di fatto che, nelle cancellerie internazionali, una simile, abissale trasformazione potrebbe non essere be accettata. Il tema non è marginale dato che negli Usa, faro politico di quell’atlantismo di cui oggi Di Maio si professa fiero osservante, sull’enfant prodige di Pomigliano d’Arco hanno un’idea tutt’altro che confortante e, soprattutto, tutt’altro che occidentale. Alla Farnesina, secondo gli americani, siede infatti un convinto simpatizzante di Xi Jinping. Di più, «l’uomo di Pechino in Italia». Ad affermarlo non è qualche misteriosa velina, bensì un passaggio del report datato dicembre 2020, consegnato al Congresso degli Stati Uniti d’America e realizzato con il contributo dell’intelligence.«Il ministro degli Esteri Luigi di Maio, che ha pianificato l’ingresso dell’Italia nella Via della Seta (definita Bri, Belt and road initiative)», si legge in questo documento, «è chiaramente predisposto a favorire la Cina». Al punto, prosegue il report, da aver messo «particolarmente in luce (arguably highlighted)» gli arrivi di aiuto «dalla Cina, non quelli degli Stati Uniti», accrescendo fortemente la sensazione che «solo la Cina l’abbia effettivamente fatto». Il riferimento è a quanto avvenuto nel corso della prima ondata pandemica. Era la prima metà di marzo del 2020, infatti, quando un Airbus A-350 della China Eastern proveniente da Shanghai con a bordo un carico di aiuti contro il coronavirus era atterrato all’aeroporto di Fiumicino. Un evento che il ministro degli Esteri non aveva mancato di enfatizzare: «Ecco gli aiuti dalla Cina per fronteggiare coronavirus, non siamo soli». «Questo è quello che noi definiamo solidarietà e sono sicuro che ne arriverà altra. Non siamo soli, ci sono persone nel mondo che vogliono aiutare l’Italia», aveva altresì rimarcato Di Maio che già a fine 2019, quando il Covid aveva fatto la sua comparsa, aveva esortato tutti a «uno scatto di solidarietà verso la Cina».Non c’è però solo questo. Come dimenticare, infatti, la visita del garante del M5s, Beppe Grillo, all’ambasciatore di Pechino? A fine novembre del 2019 il faccia a faccia tra i due fu di due ore e mezza: non esattamente una stretta di mano in velocità. In più, va ricordato come due giorni prima quel fatto fosse stato sempre l’ambasciatore cinese a Roma ad esprimere pubblicamente, attraverso l’agenzia Agi, soddisfazione per la presenza di Di Maio alla China International Import Expo, svoltasi Shanghai dal 5 al 10 novembre sempre di quell’anno, alla quale l’Italia aveva partecipato come Paese ospite d’onore ricevendo «grandi attenzioni».Ancora prima, il 18 settembre 2018, l’allora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, nella sua prima visita extra Ue, si era presentato nel Sichuan accompagnato dall’ambasciatore Ettore Sequi, con parole sprizzanti entusiasmo. «La Via della Seta è una grandissima occasione commerciale per le nostre imprese e per tutti noi, in cui ho creduto dal mio primo viaggio in Cina», era stata la sua dichiarazione. Gli 007 Usa non si son dunque inventati nulla. Semplicemente, oltreoceano hanno provato a tirare le somme rispetto a quella che era la linea del M5s e, quindi, pure di Di Maio. Ciò non toglie, a onore del vero, come da allora il Nostro abbia fatto di tutto per smarcarsi da quel passato politico che, pur essendo recente, sembra oggi appartenere alla preistoria. In effetti, dalla rottura con Giuseppe Conte il ministro degli Esteri, realizzando uno spettacolare testacoda geopolitico, ha fatto propria la linea di Washington con una convinzione da far commuovere Joe Biden. Basti pensare a che cosa ha dichiarato meno di sei mesi fa, in collegamento con la trasmissione su La 7 condotta da Giovanni Floris, a proposito del presidente russo, un interlocutore privilegiato di Pechino: «Sono animalista e penso che tra Putin e qualsiasi animale ci sia un abisso, e sicuramente quello atroce è lui». Parole esplosive come granate poco dopo le quali è stato lui stesso, Di Maio, invitato da Corrado Formigli a Piazzapulita, a far un parziale dietrofront: «Toni troppo alti. Un rappresentante delle istituzioni non si dovrebbe mai rivolgere così ad un altro rappresentante delle istituzioni. Non volevo e non voglio rivolgere accuse personali a nessuno».Più recentemente, il titolare della Farnesina si è però pure messo a dare - e soprattutto a togliere - patenti di atlantismo, in primis criticando il suo ex partito, ma non solo, giudicato non abbastanza allineato allo spirito occidentale. La domanda adesso è: saranno bastate uscite come queste a far capire alla Casa Bianca che Di Maio oggi è un altro e quello «chiaramente predisposto a favorire la Cina» non esiste più? Alla fine la questione è tutta qui: che il profondo mutamento sia preso sul serio. Comunque sia, un fatto resta: il ministro degli Esteri, prima di atteggiarsi a paladino atlantista, farebbe bene a guardarsi allo specchio. Sempre ordinato com’è, di certo ne avrà uno.