2022-09-26
Il Pd sotto il 20% apre il processo. «Letta non ne ha azzeccata una»
I dem, che volevano essere la prima forza, finiscono nettamente staccati da Fdi. Il segretario ha toppato praticamente ogni mossa: adesso si pensa già alla prossima guida e a gettare ponti verso i pentastellati.Altro che occhi di tigre: semmai, luci basse e aria da funerale dalle parti del Pd. In attesa dei risultati definitivi, infatti, bastano le prime proiezioni a terrorizzare il Nazareno, con il Pd che rischia di attestarsi ben sotto la soglia psicologica del 22%. Non scordiamoci che, a inizio campagna (anche se nelle ultime settimane Enrico Letta ha cercato di farlo dimenticare), il segretario del Pd aveva scommesso tutto sulla sfida per diventare - almeno - il primo partito, davanti a Fdi. Non solo il risultato non è stato centrato, ma il Pd si attesterebbe su una percentuale assolutamente modesta, nonostante il «booster» rappresentato dall’inserimento nelle liste dem di Articolo Uno (la formazione di Roberto Speranza), del petalo di sinistra dei socialisti, e del gruppo pro Sant’Egidio di Demos. E cinque anni fa Matteo Renzi fu crocifisso per un risultato intorno al 19% (18,7%, per l’esattezza). Secondo le proiezioni di Swg, il Pd sarebbe al 18,7%.La prima a parlare, in un’atmosfera lugubre, è stata Debora Serracchiani, che si è abbastanza pateticamente aggrappata al ruolo del Pd di «seconda forza politica e di prima forza di opposizione» rivendicando una misteriosa «importante responsabilità». Dopo di che, in un crescendo surreale, la Serracchiani è passata a citare i problemi della Lega, come se il Pd potesse scansare i suoi guai occupandosi di quelli di Matteo Salvini. Guardando all’indietro, in ogni caso, è evidente che Letta abbia fallito su tutti i fronti. Ha sbagliato in primo luogo sul terreno delle alleanze. Razionalmente, avrebbe potuto scegliere uno fra questi due schemi: o (se proprio credeva o voleva far credere al «pericolo delle destre») mettere in campo una specie di Cln con dentro tutti, dai grillini fino ai centristi; oppure, scartata questa opzione, avrebbe potuto puntare su un’alleanza di segno più riformista con Matteo Renzi e Carlo Calenda. Nel primo caso, si sarebbe trattato di un caravanserraglio inservibile per governare, ma almeno sarebbe stata una mossa elettoralmente competitiva; nel secondo, avrebbe certamente perso, ma avrebbe scelto un posizionamento post-elettorale e una piattaforma di opposizione più credibili. E invece non ha fatto né la prima né la seconda cosa. Si è ritrovato con una coalizione impresentabile (si pensi alla zavorra anti-occidentale, anti-mercato e anti-sviluppo rappresentata da Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, al 3.6%) e insieme rattrappita sul piano del consenso (si pensi al fallimento spettacolare della lista di Luigi Di Maio, allo 0,7%, e al risultato - superiore alle aspettative ma comunque contenuto - della lista eurolirica di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova, attorno al 3,1%). Dopo di che, Letta ha sbagliato toni e argomenti della campagna. Per un verso, non ha funzionato la demonizzazione e la «fascistizzazione» di Giorgia Meloni: anzi, la leader di Fdi ne ha tratto perfino giovamento, mentre il Pd non ne ha ricavato alcun dividendo politico. Per altro verso, schiacciarsi su tematiche assistenzialiste (reddito di cittadinanza, salario minimo, ecc) ha portato acqua al mulino del Movimento 5 Stelle. E qui sta l’altro caso da manuale di autolesionismo: il Pd non si è alleato con i grillini, e in compenso ha optato per la piattaforma a loro più congeniale. Morale: nella prima parte della campagna, ha convinto diversi elettori che l’opzione più credibile «di sinistra» fosse quella grillina; e nella seconda, quando i sondaggi mostravano l’ascesa pentastellata al Sud, gli ha regalato perfino l’argomento del voto utile, nel senso che in diversi collegi della Puglia, della Campania e della Sicilia a molti elettori dem è parso opportuno scommettere sulla maggiore competitività dei candidati grillini. Morale: un’autentica Caporetto, a meno di colpi di scena notturni. Adesso, paiono scontate due cose. Da un lato, una stagione congressuale rispetto alla quale paiono già lanciati il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e il sindaco di Bari Antonio Decaro. Quanto a Letta, sarà probabilmente sacrificato e massacrato: e ora la nemesi sarà inesorabile, anche considerando le epurazioni volute da Letta al momento della compilazione delle liste. È presumibile che adesso tutte le «vittime» - vere o presunte - cercheranno vendetta. Dall’altro lato, pare ovvio che il Pd ricercherà una qualche forma di intesa con i grillini, peraltro da posizione di debolezza. Giuseppe Conte, infierendo, aveva già detto negli ultimi dieci giorni di campagna che la cosa sarebbe stata impossibile «con questa segreteria dem»: in altri termini, suggerendo l’immediata sostituzione di Letta. Ma un po’ tutti gli alti papaveri del Pd, da almeno un paio di settimane, avevano già costruito ponti verso i grillini: dal governatore pugliese Michele Emiliano (che era stato il più esplicito perfino in termini elettorali), ad Andrea Orlando, passando per Elly Schlein. Saranno loro a dare le carte, e a procurare a Letta un biglietto aereo per Parigi. Di sola andata.