2021-07-28
I giudici sono arrivati alla loro guerra civile
La rivolta dei colleghi accorsi in difesa del pm del caso Eni segna uno spartiacque della storia italiana. Chi lavora per istruire processi seri non ne può più di chi, da Mani pulite, li usa per carriera e potere. Venerdì al Csm la prima vera resa dei conti.Più che una raccolta di firme è una rivolta, che ormai dilaga e sta coinvolgendo l'intero distretto giudiziario di Milano, ma che, probabilmente, è destinata a contagiare con effetti dirompenti sugli equilibri della magistratura, il mondo delle toghe nel suo complesso, Csm compreso. Partita su iniziativa di alcuni pubblici ministeri del capoluogo lombardo, tra i quali il procuratore aggiunto Alberto Nobili, la lettera di sostegno a Paolo Storari ha subito travalicato l'ambito della Procura, per estendersi all'ufficio dei gip, ma più in generale ai magistrati di tutto il Tribunale milanese e perfino di quelli vicini. Sì, un'onda incredibile sta abbattendosi sul «Sistema», come lo ha definito qualche tempo fa Luca Palamara, uno che i magistrati li conosce da vicino, essendo stato per anni presidente dell'Anm e di Unicost, la corrente moderata delle toghe.Secondo un giudice in servizio a Milano, si tratta dell'epilogo di un'epoca, la fine di una stagione iniziata con Mani pulite di Antonio Di Pietro e compagni e che ora rischia di culminare con gli affari sporchi di Piero Amara e sodali. Ma andiamo con ordine, per ricostruire che cosa è successo e che cosa potrebbe accadere. Tutto comincia con il processo Eni, quello sulle presunte tangenti in Nigeria. Un procedimento andato avanti per anni e costato milioni alle casse dello Stato. Le accuse mosse da Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro ruotavano intorno alle testimonianze di due «pentiti» del gruppo petrolifero, ossia Vincenzo Armanna e l'avvocato Pietro Amara. Il primo raccontò ai pm di aver visto valigie di denaro prendere il volo su un aereo che una semplice verifica tecnica avrebbe dimostrato di non poter decollare. Il secondo, mentre organizzava depistaggi per fuorviare le indagini, svelò l'esistenza di una fantomatica loggia segreta denominata Ungheria: un bocconcino avvelenato per tener buoni i magistrati. Tutti e due vennero creduti, nonostante le evidenze inducessero a ritenere che entrambi avessero più a cuore i loro affari che la giustizia. Paolo Storari, il pm cui Amara confidò l'esistenza dell'associazione segreta, dopo aver verificato il racconto, avrebbe voluto indagare e arrestare l'ex legale dell'Eni ma fu fermato. Troppo importante la deposizione del presunto pentito per infangarla con l'accusa di calunnia. Così le parole di Armanna e Amara, il gatto e la volpe che con il cane a sei zampe hanno accumulato milioni che tengono ben nascosti all'estero, sono state prese come oro colato, fino al punto da trasmetterle alla Procura di Brescia affinché indagasse sul presidente del collegio che avrebbe dovuto giudicare il caso Eni. Storari, che i colleghi descrivono come un pm scrupoloso, non si arrende e per non piegarsi al silenzio consegna una copia della testimonianza di Amara a Piercamillo Davigo, capo di una corrente della magistratura ma a quel tempo anche esponente del Csm. Forse Storari commette un reato e probabilmente lo commette anche Davigo, che riceve il verbale e lo fa circolare arrivando a parlarne perfino con il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il magistrato cui compete l'avvio dell'azione disciplinare. Il quale però non promuove un provvedimento a carico di Storari, Davigo o altri, ma si limita a telefonare al capo della Procura di Milano. Così, dopo mesi di inattività, la deposizione di Amara rispunta dal cassetto in cui era stata dimenticata e come d'incanto qualcuno si ricorda che non si può far finta di niente solo perché c'è il processo Eni. Se Amara dice il vero, sulla loggia segreta bisogna indagare, ma se dice il falso va indagato lui, per calunnia. Così dice la legge. Così bisogna fare in base al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Ma a Milano se ne ricordano con ritardo. Poi viene la disfatta del processo Eni, con l'assoluzione di tutti gli imputati, una sentenza che spazza via anni d'indagine e motivazioni che censurano duramente le tesi della Procura. Soprattutto, si scopre che i pm non hanno consegnato al Tribunale e alla difesa tutte le prove: tra queste un video in cui Armanna dice di voler sputtanare i vertici dell'Eni e la notizia di un tentativo di subornazione di un testimone, con l'offerta da parte del presunto pentito di 50.000 euro per sostenere un'accusa falsa. La Procura di Brescia chiede di acquisire i documenti, quella di Milano li nega opponendo motivi procedurali. Insomma, il bubbone Eni è scoppiato e con esso anche quello della giustizia, con le sue lotte intestine, con le indulgenze verso alcuni e le intransigenze verso altri. L'equidistanza e l'indipendenza della magistratura si dimostrano per quel che sono: un paravento che nasconde altro. Il pg della Cassazione, colui che si sarebbe fatto sponsorizzare da Palamara e che riceve le confidenze di Davigo, si ricorda che esiste l'azione disciplinare e così chiede il trasferimento d'ufficio per Storari, con l'accusa di aver messo in grave imbarazzo il distretto giudiziario. A lui vuole inibire in futuro di fare il pm. Dal distretto giudiziario però gli rispondono centinaia di firme che solidarizzano con Storari: 60 pm su 64 a Milano, tre quarti dei giudici delle indagini preliminari e dei giudici ordinari, senza contare i presidenti di sezione della Corte d'appello. In pratica una valanga. E qui si capisce una cosa, ossia che i vertici del Sistema vorrebbero levarsi di torno Storari per chiudere il caso, ma la maggioranza dei magistrati, composta da persone che lavorano e non partecipano alla guerra tra bande della magistratura, non ci sta. No, per quanto Storari abbia sbagliato, a gran parte delle toghe non sta bene che lui paghi per tutti e che diventi il capro espiatorio di un sistema marcio. Il suo caso, il caso del pm che violò il segreto istruttorio per non violare la norma sull'obbligatorietà dell'azione penale, si discuterà venerdì davanti alla sezione disciplinare del Csm. Lì capiremo chi ha vinto e chi ha perso. Se la giustizia o il «Sistema». P.S.: Arrivati a questo punto, forse ha ragione il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale: la funzione disciplinare dei magistrati deve essere tolta dalle mani del Csm, cioè agli stessi magistrati, e rimessa ad un organismo terzo. Eviteremmo le lotte intestine, ma anche le troppe indulgenze.
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