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2022-08-08
Giovani, altro che patrimoniale ecco quello che serve
iStock
Il marchettificio della politica si scatena in periodo elettorale e dà il meglio di sé soprattutto sulle politiche giovanili. È sulle nuove generazioni che la fantasia si scatena, con soluzioni tanto generose quanto inefficaci. I partiti sono convinti che per accaparrarsi il consenso, ai giovani va data la «paghetta» secondo il copione già collaudato del voto di scambio. Ecco quindi promettere soldi senza criterio e senza controlli. E siccome bisogna acchiappare i neo diciottenni, cosa c’è di meglio di un lauto regalo di compleanno? Il Pd si sente particolarmente munifico e ha promesso ben 10.000 euro a chi diventa maggiorenne. Bisogna avere qualifiche particolari? Essersi distinti in qualche campo? O avere in tasca un progetto degno di attenzione? Tranquilli, niente di tutto questo. Il segretario Enrico Letta ha intenzione di elargire il premio per il solo fatto che si entra nella maggiore età. E la meritocrazia? Un’altra volta. Il lavoro come fatica, sudore, impegno è scomparso dall’orizzonte di quello che era il partito dei lavoratori, diventato partito degli assistiti.
Operazioni come questa costano. I diciottenni nel 2023 saranno 554.022. Premiarli tutti vorrebbe dire un esborso di circa 5,5 miliardi. Se dovessero entrare in gioco le dichiarazione Isee, beneficiando solo i figli dei ceti bassi e medi, la cifra per finanziare la dote si dimezzerebbe. Dove trovare i soldi? Semplice, con una patrimoniale, aumentando la tassa sulle successioni dal 4 al 20% per la parte eccedente i 5 milioni di euro ereditati. La giustificazione è sempre quella di una sorta di equità fiscale per cui, secondo il Pd, chi ha tanto deve sentirsi in colpa ed è giusto che dia qualcosa a chi ha poco. Un volta passato questo concetto, sarà facile poi estendere l’imposta anche a eredità meno importanti. E Letta dimentica che chi possiede tali patrimoni ha comunque già pagato, nel corso della vita, fior di tasse. Nulla ha detto il segretario Pd se ci saranno vincoli e soprattutto se scatteranno controlli. Con 10.000 euro in tasca, più che il corso di formazione, i ragazzi nella migliore delle ipotesi si compreranno telefonini, videogame, scooter.
Il reddito di cittadinanza, che tante truffe ha generato, continua a essere un pilastro del programma elettorale del M5s per i giovani e il Pd non intende mettere in discussione questo strumento: si limita a dire che andrebbe riformato. Anche il bonus cultura da 500 euro ai diciottenni senza vincoli di Isee, varato dal governo Renzi e giunto alla sesta edizione, destinato a libri, biglietti per concerti, mostre, fiere, musei, spettacoli teatrali, cinema, concerti, ha visto proliferare le frodi. Gli aiutini non finiscono qui. Nel progetto «Vincono le idee» il partito di Letta propone un bonus di 2.000 euro da utilizzare per abbattere le spese di locazione per studenti e lavoratori under 35. Dove si trovino le risorse è un mistero.
Le politiche per il lavoro giovanile hanno un’impronta assistenziale anche nel programma di Italia Viva. Il partitino guidato da Matteo Renzi chiede di spostare la tassazione sulla previdenza integrativa dal momento del versamento a quello della maturazione della pensione. Ma quanti giovani con lavori precari, discontinui e sottopagati possono permettersi il secondo pilastro previdenziale? Siamo al punto di partenza: vanno prima create le condizioni affinché da una parte si creino nuovi posti, e dall’altra ci sia una formazione adeguata alle richieste del mercato. Ma di questo si tace. In sostituzione del reddito di cittadinanza, Italia viva punta sull’«imposta negativa», cioè un’integrazione dei salari al di sotto della soglia minima.
L’alleanza guidata da Carlo Calenda, Azione e +Europa, propone di non tassare i giovani fino a 25 anni e di abbattere del 50% il carico fiscale per la fascia tra i 26 e i 30 anni. Tutte queste misure verrebbero finanziate con il recupero della lotta all’evasione fiscale, l’eterno serbatoio a cui attingere, nelle promesse più che nella realtà, quando si tratta di indicare una copertura a provvedimenti di spesa e non si sa dove andare a parare. L’ultimo arrivato tra i politici che promettono mari e monti ai giovani è Silvio Berlusconi, che vorrebbe accorciare di un anno sia la scuola dell’obbligo sia l’università, eliminando la riforma del «3+2», per arrivare prima sul mercato del lavoro. Ma «nonno Silvio», come lui si autodefinisce negli spot elettorali rivolti ai giovani, è sicuro che si arriva meglio al lavoro accorciando i tempi della formazione?
«Non sarei diventato imprenditore se avessi atteso denaro dallo Stato»

Domenico Balsano
«Con 10.000 euro in tasca l’adolescente fa un paio di vacanze a Ibiza e si sballa la sera. L’Italia è diventata il Paese dell’assistenzialismo che ingrassa alcuni, illude tanti e serve a dimostrare politicamente di voler fare qualcosa per i giovani». Domenico Balsano, detto Mimmo, ha messo su dal nulla un’azienda, la Pasta di Stigliano, fiore all’occhiello della Basilicata, regione difficile per chi vuole diventare imprenditore, ed eccellenza internazionale nel settore della pasta artigianale di qualità. A Stigliano (Matera) la tradizione della pasta risale al 1800 ma si hanno notizie dei primi mulini già in epoca romana.
Siete pastai in famiglia?
«No, facevo l’elettricista. Lavoravo a un impianto per un frantoio e il proprietario mi suggerì di aprire un pastificio. Ne parlai con mia moglie che da tempo voleva aprire un’attività. All’inizio è stato difficile, ho messo soldi miei oltre a finanziamenti pubblici ottenuti con grande fatica. Ora prepariamo oltre 200 chili di pasta l’ora ed esportiamo in Europa, Stati Uniti, Canada, Messico, e siamo in trattative con la Cina».
Quali interventi aiuterebbero i giovani sul mercato del lavoro?
«Parlo per esperienza: le mancette non servono a nulla, nemmeno a conquistare il favore politico. Chi riceve qualcosa senza sforzo è comunque scontento e avrebbe voluto di più. Se quei soldi fossero dati alle imprese per fare tirocini a chi vuole avviare un’attività, sarebbero spesi meglio. I giovani che vogliono fare impresa hanno bisogno di tutor che li affianchino, non i navigator del reddito di cittadinanza. Non basta avere un’idea, bisogna sapersi confrontare con il mercato e conoscere la burocrazia. Ecco l’altro tema sul quale la politica dovrebbe impegnarsi».
La burocrazia che ostacola l’avvio delle imprese?
«Faccio un esempio: se devo montare un impianto fotovoltaico ma attendo da un anno le autorizzazioni, nel frattempo spendo 3.000 euro in più di bollette. Ma un imprenditore deve vedersela anche con i vincoli Ue, come le disposizioni sull’etichettatura a norma e le misure sanitarie. Non si può improvvisare. Più che soldi a pioggia, servirebbero figure manageriali che accompagnano chi vuole avviare un’iniziativa in proprio. Un giovane poi deve vedersela con le logiche della politica».
Quali logiche, quelle clientelari?
«Con un ex presidente della Regione avevo il progetto di creare una cooperativa con ragazzi per produrre, con grano lucano, i panini da fornire a ospedali e scuole. Il progetto è morto con le elezioni regionali, è cambiata l’amministrazione e non se ne fa nulla: eppure avrebbe dato lavoro a una ventina di ragazzi. Altro tema critico per chi vuole fare impresa è il credito».
Non ci sono fondi agevolati?
«Per avere un finanziamento pubblico occorre dimostrare di avere il 50% della liquidità sul conto. Le banche chiedono talmente tante garanzie che risulta quasi impossibile avere un prestito anche se un giovane ha un’idea di business che può funzionare. Gli stage organizzati dalla Regione sono spesso un flop: mandano in azienda giovani con poca voglia di imparare e l’imprenditore li deve tenere anche sei mesi a fare nulla e non può mandarli via per dedicarsi a chi invece si impegna».
«Meglio dare quei soldi alle aziende»

«La dote ai diciottenni è uno spreco di tempo e di denaro. Avrebbe più senso dare quei fondi alle imprese che vogliono formare un giovane che risparmierebbero sul costo del dipendente». Salvatore Cobuzio, 44 anni, le difficoltà di fare impresa da zero le conosce bene. Nel 2014 ha avviato dal nulla, con la moglie Simona e altre tre donne, Martha’s cottage, il più grande e-commerce in Europa dedicato al matrimonio e alle feste di ricorrenze con più di 20.000 prodotti: bomboniere, confetti, adesivi, cuscini portafedi, idee per l’addio al celibato e molto altro. Oltre 200.000 sposi hanno utilizzato questo servizio.
Come le è venuta l’idea?
«Tutto ha origine con il mio matrimonio. Mia moglie e io ci siamo resi conto che non esisteva un unico negozio o sito dove trovare tutto ciò di cui avevamo bisogno».
Avete usufruito di aiuti pubblici per avviare l’attività?
«Staremmo ancora ad aspettare i soldi... Ci siamo licenziati e abbiamo investito circa 50.000 euro a testa di nostri risparmi. Abbiamo lasciato Roma per Siracusa, mia città d’origine, per un richiamo delle radici e perché i costi di gestione sono inferiori. Imprenditori digitali ci hanno aiutato. Non credo nell’utilità di fondi pubblici a pioggia dati ai giovanissimi, sono solo mancette elettorali senza utilità. Idem per il reddito di cittadinanza. Meglio dare quei soldi alle imprese che formano i giovani. Perché i politici non lo fanno? Il dipendente avrebbe uno stipendio più che dignitoso e le aziende risparmierebbero in tasse».
I fondi però aiutano.
«Ma vanno dati in modo sensato. Ci deve essere l’impegno di chi riceve i soldi, altrimenti è solo uno spreco. Un aiuto può essere fornito quando c’è un progetto interessante e i finanziamenti delle banche sono insufficienti. Allora lo Stato può intervenire con una integrazione a fondo perduto. Occorre poi snellire la burocrazia, il vero ostacolo per un giovane imprenditore. Piuttosto diamo 50.000 euro a chi presenta un progetto da 100.000 per dimezzare il rischio che comunque si assume colui che vuole fare l’imprenditore».
Ne ha esperienza?
«Eccome. All’inizio dell’attività, ho partecipato a diversi bandi chiedendo un finanziamento. La risposta mi è arrivata dopo un anno ma nel frattempo il progetto si era evoluto. Molte persone partecipano ai bandi e poi costruiscono i progetti, io per fortuna ho fatto sempre il contrario».
Non si può contare sui bandi pubblici per i finanziamenti?
«Le procedure sono troppo lente. Io ho vinto diversi bandi per investimenti già effettuati e per la maggior parte di essi sono passati anni, per altri sono ancora in attesa. Lo Stato intervenga creando strutture efficienti in grado di gestire questi bandi ed erogare i soldi in tre mesi».
Imprevisti come il Covid?
«Dallo Stato abbiamo ricevuto spiccioli durante il lockdown: a stento ho pagato due mesi di affitto. Non potendo licenziare, con i dipendenti in cassa integrazione, abbiamo continuato a pagare le tasse sugli stipendi. Lo Stato doveva fermare la tassazione perché le aziende in crisi non avevano i soldi per pagare quei contributi. Siamo stati al limite del fallimento e ci siamo indebitati per non chiudere. È stata dura. I risparmi se ne sono andati in tasse invece che in investimenti per la crescita. Fare impresa è davvero difficile oggi, altro che dote».
Istruzione professionale grande esclusa
«Meglio potenziare l’accesso all’istruzione e al credito dei meno abbienti che sono le due principali barriere alle pari opportunità per l’accesso al mercato del lavoro». L’economista Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata di Roma, è cauto sulla dote del Pd ai giovani. «Non sarebbe sufficiente a “regalare” un lavoro ai giovani, serve piuttosto a dare risorse aggiuntive che si spera siano usate per investire nel futuro, ma non è detto. Per questo sarebbe più utile finalizzare l’erogazione solo a investimento formativo. Per facilitare la ricerca di lavoro è essenziale potenziare la formazione scolastica, anche quella professionale che da noi è carente. Importante è la riforma degli Istituti tecnici superiori varata dall’ultimo governo. Fondamentale è anche intervenire sul mismatch, la paradossale contemporanea presenza di giovani che non lavorano né studiano e di posti di lavoro vacanti. Bisogna creare percorsi di qualificazione e riqualificazione che accelerino il più possibile la transizione verso nuove occupazioni e nuove competenze».
Sull’aumento dell’imposta sulle successioni, Becchetti è cauto: «Non è giusto colpire le eredità sotto di una certa soglia, ma i patrimoni più elevati forse sì. Stiamo parlando di qualcosa che colpirebbe meno dell’1% della nostra popolazione. Altra questione è se i grandi patrimoni sono correttamente identificabili o no». La dote «potrebbe aiutare, dopo la maggiore età, il percorso formativo per accedere a lavori migliori. Nei Paesi anglosassoni c’è il sistema degli student loans che facilita accesso al credito degli studenti per finanziare gli studi, ma li indebita pesantemente per il futuro». E il reddito di cittadinanza? «Una misura importante di protezione contro la povertà che va riformata. Più severità nei controlli contro i furbetti e misure contro il nero come i piani di utilità collettiva che impegnano i percettori del reddito in lavori socialmente utili e più misure che disincentivino rifiutare offerte di lavoro. Ricordiamo che una parte importante dei percettori del reddito non sono occupabili».
Per Becchetti è «fondamentale investire sull’orientamento sin dal periodo scolastico. Quando vado a parlare nelle scuole chiedo sempre ai giovani se hanno desideri: se non li hanno, devono preoccuparsi. Il compito della scuola dovrebbe anche quello di far emergere un pallino, una passione che poi alimenterà desideri e sforzi per salire la scala delle competenze».
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Con i cittadini di domani i partiti non vanno oltre l’assistenzialismo: le mance di Enrico Letta, il Reddito del M5s, la pensione integrativa di Matteo Renzi, la riduzione degli anni di studio lanciata da Silvio Berlusconi. A lavoro e formazione chi pensa?L’industriale della pasta Domenico Balsano: «Le paghette non servono nemmeno a conquistare voti».Il big del commercio elettronico Salvatore Cobuzio: «Senza controlli i fondi pubblici sono uno spreco. Occorre aiutare le realtà produttive migliori a investire sulle nuove generazioni».L’economista Leonardo Becchetti: assurdo che ci siano tanti posti vacanti e altrettanti ventenni senza occupazione né titolo di studio adatto alle competenze più richieste dal mercato.Lo speciale contiene quattro articoli.Il marchettificio della politica si scatena in periodo elettorale e dà il meglio di sé soprattutto sulle politiche giovanili. È sulle nuove generazioni che la fantasia si scatena, con soluzioni tanto generose quanto inefficaci. I partiti sono convinti che per accaparrarsi il consenso, ai giovani va data la «paghetta» secondo il copione già collaudato del voto di scambio. Ecco quindi promettere soldi senza criterio e senza controlli. E siccome bisogna acchiappare i neo diciottenni, cosa c’è di meglio di un lauto regalo di compleanno? Il Pd si sente particolarmente munifico e ha promesso ben 10.000 euro a chi diventa maggiorenne. Bisogna avere qualifiche particolari? Essersi distinti in qualche campo? O avere in tasca un progetto degno di attenzione? Tranquilli, niente di tutto questo. Il segretario Enrico Letta ha intenzione di elargire il premio per il solo fatto che si entra nella maggiore età. E la meritocrazia? Un’altra volta. Il lavoro come fatica, sudore, impegno è scomparso dall’orizzonte di quello che era il partito dei lavoratori, diventato partito degli assistiti.Operazioni come questa costano. I diciottenni nel 2023 saranno 554.022. Premiarli tutti vorrebbe dire un esborso di circa 5,5 miliardi. Se dovessero entrare in gioco le dichiarazione Isee, beneficiando solo i figli dei ceti bassi e medi, la cifra per finanziare la dote si dimezzerebbe. Dove trovare i soldi? Semplice, con una patrimoniale, aumentando la tassa sulle successioni dal 4 al 20% per la parte eccedente i 5 milioni di euro ereditati. La giustificazione è sempre quella di una sorta di equità fiscale per cui, secondo il Pd, chi ha tanto deve sentirsi in colpa ed è giusto che dia qualcosa a chi ha poco. Un volta passato questo concetto, sarà facile poi estendere l’imposta anche a eredità meno importanti. E Letta dimentica che chi possiede tali patrimoni ha comunque già pagato, nel corso della vita, fior di tasse. Nulla ha detto il segretario Pd se ci saranno vincoli e soprattutto se scatteranno controlli. Con 10.000 euro in tasca, più che il corso di formazione, i ragazzi nella migliore delle ipotesi si compreranno telefonini, videogame, scooter. Il reddito di cittadinanza, che tante truffe ha generato, continua a essere un pilastro del programma elettorale del M5s per i giovani e il Pd non intende mettere in discussione questo strumento: si limita a dire che andrebbe riformato. Anche il bonus cultura da 500 euro ai diciottenni senza vincoli di Isee, varato dal governo Renzi e giunto alla sesta edizione, destinato a libri, biglietti per concerti, mostre, fiere, musei, spettacoli teatrali, cinema, concerti, ha visto proliferare le frodi. Gli aiutini non finiscono qui. Nel progetto «Vincono le idee» il partito di Letta propone un bonus di 2.000 euro da utilizzare per abbattere le spese di locazione per studenti e lavoratori under 35. Dove si trovino le risorse è un mistero. Le politiche per il lavoro giovanile hanno un’impronta assistenziale anche nel programma di Italia Viva. Il partitino guidato da Matteo Renzi chiede di spostare la tassazione sulla previdenza integrativa dal momento del versamento a quello della maturazione della pensione. Ma quanti giovani con lavori precari, discontinui e sottopagati possono permettersi il secondo pilastro previdenziale? Siamo al punto di partenza: vanno prima create le condizioni affinché da una parte si creino nuovi posti, e dall’altra ci sia una formazione adeguata alle richieste del mercato. Ma di questo si tace. In sostituzione del reddito di cittadinanza, Italia viva punta sull’«imposta negativa», cioè un’integrazione dei salari al di sotto della soglia minima.L’alleanza guidata da Carlo Calenda, Azione e +Europa, propone di non tassare i giovani fino a 25 anni e di abbattere del 50% il carico fiscale per la fascia tra i 26 e i 30 anni. Tutte queste misure verrebbero finanziate con il recupero della lotta all’evasione fiscale, l’eterno serbatoio a cui attingere, nelle promesse più che nella realtà, quando si tratta di indicare una copertura a provvedimenti di spesa e non si sa dove andare a parare. L’ultimo arrivato tra i politici che promettono mari e monti ai giovani è Silvio Berlusconi, che vorrebbe accorciare di un anno sia la scuola dell’obbligo sia l’università, eliminando la riforma del «3+2», per arrivare prima sul mercato del lavoro. 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Domenico Balsano, detto Mimmo, ha messo su dal nulla un’azienda, la Pasta di Stigliano, fiore all’occhiello della Basilicata, regione difficile per chi vuole diventare imprenditore, ed eccellenza internazionale nel settore della pasta artigianale di qualità. A Stigliano (Matera) la tradizione della pasta risale al 1800 ma si hanno notizie dei primi mulini già in epoca romana. Siete pastai in famiglia? «No, facevo l’elettricista. Lavoravo a un impianto per un frantoio e il proprietario mi suggerì di aprire un pastificio. Ne parlai con mia moglie che da tempo voleva aprire un’attività. All’inizio è stato difficile, ho messo soldi miei oltre a finanziamenti pubblici ottenuti con grande fatica. Ora prepariamo oltre 200 chili di pasta l’ora ed esportiamo in Europa, Stati Uniti, Canada, Messico, e siamo in trattative con la Cina». Quali interventi aiuterebbero i giovani sul mercato del lavoro? «Parlo per esperienza: le mancette non servono a nulla, nemmeno a conquistare il favore politico. Chi riceve qualcosa senza sforzo è comunque scontento e avrebbe voluto di più. Se quei soldi fossero dati alle imprese per fare tirocini a chi vuole avviare un’attività, sarebbero spesi meglio. I giovani che vogliono fare impresa hanno bisogno di tutor che li affianchino, non i navigator del reddito di cittadinanza. Non basta avere un’idea, bisogna sapersi confrontare con il mercato e conoscere la burocrazia. Ecco l’altro tema sul quale la politica dovrebbe impegnarsi». La burocrazia che ostacola l’avvio delle imprese? «Faccio un esempio: se devo montare un impianto fotovoltaico ma attendo da un anno le autorizzazioni, nel frattempo spendo 3.000 euro in più di bollette. Ma un imprenditore deve vedersela anche con i vincoli Ue, come le disposizioni sull’etichettatura a norma e le misure sanitarie. Non si può improvvisare. Più che soldi a pioggia, servirebbero figure manageriali che accompagnano chi vuole avviare un’iniziativa in proprio. Un giovane poi deve vedersela con le logiche della politica». Quali logiche, quelle clientelari? «Con un ex presidente della Regione avevo il progetto di creare una cooperativa con ragazzi per produrre, con grano lucano, i panini da fornire a ospedali e scuole. Il progetto è morto con le elezioni regionali, è cambiata l’amministrazione e non se ne fa nulla: eppure avrebbe dato lavoro a una ventina di ragazzi. Altro tema critico per chi vuole fare impresa è il credito». Non ci sono fondi agevolati? «Per avere un finanziamento pubblico occorre dimostrare di avere il 50% della liquidità sul conto. Le banche chiedono talmente tante garanzie che risulta quasi impossibile avere un prestito anche se un giovane ha un’idea di business che può funzionare. Gli stage organizzati dalla Regione sono spesso un flop: mandano in azienda giovani con poca voglia di imparare e l’imprenditore li deve tenere anche sei mesi a fare nulla e non può mandarli via per dedicarsi a chi invece si impegna». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/giovani-patrimoniale-quello-che-serve-2657827362.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="meglio-dare-quei-soldi-alle-aziende" data-post-id="2657827362" data-published-at="1659971665" data-use-pagination="False"> «Meglio dare quei soldi alle aziende» «La dote ai diciottenni è uno spreco di tempo e di denaro. Avrebbe più senso dare quei fondi alle imprese che vogliono formare un giovane che risparmierebbero sul costo del dipendente». Salvatore Cobuzio, 44 anni, le difficoltà di fare impresa da zero le conosce bene. Nel 2014 ha avviato dal nulla, con la moglie Simona e altre tre donne, Martha’s cottage, il più grande e-commerce in Europa dedicato al matrimonio e alle feste di ricorrenze con più di 20.000 prodotti: bomboniere, confetti, adesivi, cuscini portafedi, idee per l’addio al celibato e molto altro. Oltre 200.000 sposi hanno utilizzato questo servizio. Come le è venuta l’idea? «Tutto ha origine con il mio matrimonio. Mia moglie e io ci siamo resi conto che non esisteva un unico negozio o sito dove trovare tutto ciò di cui avevamo bisogno». Avete usufruito di aiuti pubblici per avviare l’attività? «Staremmo ancora ad aspettare i soldi... Ci siamo licenziati e abbiamo investito circa 50.000 euro a testa di nostri risparmi. Abbiamo lasciato Roma per Siracusa, mia città d’origine, per un richiamo delle radici e perché i costi di gestione sono inferiori. Imprenditori digitali ci hanno aiutato. Non credo nell’utilità di fondi pubblici a pioggia dati ai giovanissimi, sono solo mancette elettorali senza utilità. Idem per il reddito di cittadinanza. Meglio dare quei soldi alle imprese che formano i giovani. Perché i politici non lo fanno? Il dipendente avrebbe uno stipendio più che dignitoso e le aziende risparmierebbero in tasse». I fondi però aiutano. «Ma vanno dati in modo sensato. Ci deve essere l’impegno di chi riceve i soldi, altrimenti è solo uno spreco. Un aiuto può essere fornito quando c’è un progetto interessante e i finanziamenti delle banche sono insufficienti. Allora lo Stato può intervenire con una integrazione a fondo perduto. Occorre poi snellire la burocrazia, il vero ostacolo per un giovane imprenditore. Piuttosto diamo 50.000 euro a chi presenta un progetto da 100.000 per dimezzare il rischio che comunque si assume colui che vuole fare l’imprenditore». Ne ha esperienza? «Eccome. All’inizio dell’attività, ho partecipato a diversi bandi chiedendo un finanziamento. La risposta mi è arrivata dopo un anno ma nel frattempo il progetto si era evoluto. Molte persone partecipano ai bandi e poi costruiscono i progetti, io per fortuna ho fatto sempre il contrario». Non si può contare sui bandi pubblici per i finanziamenti? «Le procedure sono troppo lente. Io ho vinto diversi bandi per investimenti già effettuati e per la maggior parte di essi sono passati anni, per altri sono ancora in attesa. Lo Stato intervenga creando strutture efficienti in grado di gestire questi bandi ed erogare i soldi in tre mesi». Imprevisti come il Covid? «Dallo Stato abbiamo ricevuto spiccioli durante il lockdown: a stento ho pagato due mesi di affitto. Non potendo licenziare, con i dipendenti in cassa integrazione, abbiamo continuato a pagare le tasse sugli stipendi. Lo Stato doveva fermare la tassazione perché le aziende in crisi non avevano i soldi per pagare quei contributi. Siamo stati al limite del fallimento e ci siamo indebitati per non chiudere. È stata dura. I risparmi se ne sono andati in tasse invece che in investimenti per la crescita. Fare impresa è davvero difficile oggi, altro che dote». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/giovani-patrimoniale-quello-che-serve-2657827362.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="istruzione-professionale-grande-esclusa" data-post-id="2657827362" data-published-at="1659971665" data-use-pagination="False"> Istruzione professionale grande esclusa «Meglio potenziare l’accesso all’istruzione e al credito dei meno abbienti che sono le due principali barriere alle pari opportunità per l’accesso al mercato del lavoro». L’economista Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata di Roma, è cauto sulla dote del Pd ai giovani. «Non sarebbe sufficiente a “regalare” un lavoro ai giovani, serve piuttosto a dare risorse aggiuntive che si spera siano usate per investire nel futuro, ma non è detto. Per questo sarebbe più utile finalizzare l’erogazione solo a investimento formativo. Per facilitare la ricerca di lavoro è essenziale potenziare la formazione scolastica, anche quella professionale che da noi è carente. Importante è la riforma degli Istituti tecnici superiori varata dall’ultimo governo. Fondamentale è anche intervenire sul mismatch, la paradossale contemporanea presenza di giovani che non lavorano né studiano e di posti di lavoro vacanti. Bisogna creare percorsi di qualificazione e riqualificazione che accelerino il più possibile la transizione verso nuove occupazioni e nuove competenze». Sull’aumento dell’imposta sulle successioni, Becchetti è cauto: «Non è giusto colpire le eredità sotto di una certa soglia, ma i patrimoni più elevati forse sì. Stiamo parlando di qualcosa che colpirebbe meno dell’1% della nostra popolazione. Altra questione è se i grandi patrimoni sono correttamente identificabili o no». La dote «potrebbe aiutare, dopo la maggiore età, il percorso formativo per accedere a lavori migliori. Nei Paesi anglosassoni c’è il sistema degli student loans che facilita accesso al credito degli studenti per finanziare gli studi, ma li indebita pesantemente per il futuro». E il reddito di cittadinanza? «Una misura importante di protezione contro la povertà che va riformata. Più severità nei controlli contro i furbetti e misure contro il nero come i piani di utilità collettiva che impegnano i percettori del reddito in lavori socialmente utili e più misure che disincentivino rifiutare offerte di lavoro. Ricordiamo che una parte importante dei percettori del reddito non sono occupabili». Per Becchetti è «fondamentale investire sull’orientamento sin dal periodo scolastico. Quando vado a parlare nelle scuole chiedo sempre ai giovani se hanno desideri: se non li hanno, devono preoccuparsi. Il compito della scuola dovrebbe anche quello di far emergere un pallino, una passione che poi alimenterà desideri e sforzi per salire la scala delle competenze».
Volodymyr Zelensky e Giorgia Meloni (Ansa)
Il tour europeo di Volodymyr Zelensky è passato anche dall’Italia. Ieri, il presidente ucraino era infatti a Roma, dove, nel pomeriggio, è stato ricevuto per un’ora e mezza a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni.
«Nel corso dell’incontro, i due leader hanno analizzato lo stato di avanzamento del processo negoziale e condiviso i prossimi passi da compiere per il raggiungimento di una pace giusta e duratura per l’Ucraina», recita una nota di Palazzo Chigi. «I due leader hanno inoltre ricordato l’importanza dell’unità di vedute tra partner europei e americani e del contributo europeo a soluzioni che avranno ripercussioni sulla sicurezza del continente», prosegue il comunicato, secondo cui i due leader hanno anche discusso delle garanzie di sicurezza per Kiev. «Ho incontrato la presidente del Consiglio dei ministri italiana Giorgia Meloni a Roma. Abbiamo avuto un ottimo colloquio, molto approfondito su tutti gli aspetti della situazione diplomatica. Apprezziamo il fatto che l’Italia sia attiva nella ricerca di idee efficaci e nella definizione di misure per avvicinare la pace», ha dichiarato il presidente ucraino al termine del bilaterale. «Ho informato il presidente del lavoro del nostro team negoziale e del coordinamento diplomatico», ha proseguito Zelensky, per poi aggiungere: «Contiamo molto sul sostegno italiano anche in futuro: è importante per l’Ucraina. Vorrei ringraziare in modo particolare per il pacchetto di sostegno energetico e le attrezzature necessarie».
Sempre ieri, in mattinata, il presidente ucraino è stato ricevuto a Castel Gandolfo da Leone XIV, in quello che è stato il secondo incontro tra i due. «Durante il cordiale colloquio, il quale ha avuto al centro la guerra in Ucraina, il Santo Padre ha ribadito la necessità di continuare il dialogo e rinnovato il pressante auspicio che le iniziative diplomatiche in corso possano portare ad una pace giusta e duratura», recita una nota della Santa Sede. «Inoltre, non è mancato il riferimento alla questione dei prigionieri di guerra e alla necessità di assicurare il ritorno dei bambini ucraini alle loro famiglie», si legge ancora. «L’Ucraina apprezza profondamente tutto il sostegno di Sua Santità Leone XIV e della Santa Sede», ha affermato, dal canto suo, Zelensky. «Durante l’udienza di oggi con Sua Santità, l’ho ringraziato per le sue costanti preghiere a favore dell’Ucraina e del popolo ucraino, nonché per i suoi appelli a favore di una pace giusta. Ho informato il papa degli sforzi diplomatici con gli Stati Uniti per raggiungere la pace. Abbiamo discusso di ulteriori azioni e della mediazione del Vaticano volta a restituire i nostri figli rapiti dalla Russia», ha aggiunto. «Ho invitato il papa a visitare l’Ucraina. Questo sarebbe un forte segnale di sostegno al nostro popolo», ha concluso il presidente ucraino.
Ricordiamo che, lunedì, Zelensky aveva incontrato a Londra Keir Starmer, Emmanuel Macron e Friedrich Merz. Sempre lunedì, il presidente ucraino si era inoltre visto a Bruxelles con il segretario generale della Nato, Mark Rutte, in un meeting a cui avevano partecipato anche il capo della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa.
Il tour europeo del presidente ucraino è avvenuto in un momento particolarmente delicato per lui. Innanzitutto, il diretto interessato è indebolito dallo scandalo che ha recentemente investito Andrii Yermak: proprio ieri, secondo il Kyiv Independent, Zelensky avrebbe individuato la rosa di nomi da cui sceglierà il suo successore come capo dell’Ufficio presidenziale di Kiev (dal direttore dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, al ministro della Difesa, Denys Shmyhal). La caduta di Yermak ha fiaccato il potere negoziale del leader ucraino, mentre da Washington continuano ad arrivare pressioni affinché si tengano presto delle elezioni presidenziali in Ucraina. «Sono sempre pronto alle elezioni», ha detto ieri Zelensky, rispondendo indirettamente a Donald Trump che, parlando con Politico, era tornato a chiedere una nuova consultazione elettorale.
E qui arriviamo al secondo nodo. I rapporti tra Zelensky e la Casa Bianca sono tornati a farsi tesi. Nei giorni scorsi, il presidente americano si è infatti detto «deluso» dall’omologo ucraino. «Devo dire che sono un po’ deluso dal fatto che il presidente Zelensky non abbia ancora letto la proposta di pace, era solo poche ore fa», aveva detto Trump. A questo si aggiunga che, sempre negli ultimi giorni, l’inquilino della Casa Bianca ha criticato notevolmente l’Europa. «L’Europa non sta facendo un buon lavoro sotto molti aspetti», ha per esempio affermato nella sua recente intervista a Politico. Se da una parte cerca la sponda europea come copertura politica davanti alle tensioni tra Kiev e Washington, Zelensky non può però al contempo ignorare le fibrillazioni che si registrano tra gli Stati Uniti e il Vecchio Continente. È quindi probabilmente anche in questo senso che va letta la visita romana del presidente ucraino. In altre parole, non si può escludere che Zelensky punti a far leva sui solidi rapporti che intercorrono tra Trump e la Meloni per cercare di riportare (almeno in parte) il sereno nelle sue relazioni con la Casa Bianca. In tal senso, non va trascurato l’impegno profuso dall’inquilina di Palazzo Chigi volto a preservare la stabilità dei legami transatlantici: un impegno che la Meloni ha sempre portato avanti in netto contrasto con la linea di Macron.
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Giancarlo Giorgetti e Christine Lagarde (Ansa)
La Banca centrale europea riconosce «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del Trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi, ma restano i dubbi sulla finalità della norma». Secondo indiscrezioni, Giorgetti intenderebbe segnalare al presidente dell’istituto centrale europeo, Christine Lagarde, che l’emendamento non è volto a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori dal bilancio di Bankitalia escludendo una massa che aggirerebbe il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il senatore della Lega, Claudio Borghi, uno dei relatori della manovra, intanto incalza: «Vediamo chi si stufa prima. Basterebbe domandarsi a che titolo la Bce si mette a sindacare su cose che non sono conferite alla Banca centrale». Poi ribadisce che «non esiste la possibilità e nessuno ha mai detto che vuole utilizzare le riserve auree, anzi io avrei comprato altro oro».
Questo intoppo rischia di complicare l’iter della manovra, proprio mentre i lavori in Senato si apprestano a entrare nel vivo, con il pacchetto di emendamenti del governo atteso per domani. «Saranno pochissimi, verranno prediletti quelli parlamentari», ha spiegato il senatore di Fdi, Guido Liris, uno dei relatori della legge di bilancio, e ha previsto che la votazione in commissione Bilancio del Senato potrebbe essere fissata per il prossimo fine settimana con l’auspicio di far approvare il testo in Aula da martedì 16 dicembre.
La formulazione definitiva delle modifiche è strettamente legata all’esito del lavoro sulle coperture. Il primo dossier sul tavolo del Mef è quello delle banche e assicurazioni: va messo nero su bianco l’accordo raggiunto nei giorni scorsi per un contributo di 600 milioni in due anni, che dovrebbe tradursi in un’ulteriore riduzione della deducibilità delle perdite pregresse. A impattare sulle assicurazioni c’è anche l’incremento - previsto da un emendamento di Fdi - dell’aliquota sulla polizza Rc auto per infortunio del conducente. Altre risorse sono attese dall’aumento graduale della Tobin tax, dalla tassa sui pacchi e dalla rivalutazione dei terreni. Ancora incerto il destino della tassazione agevolata dell’oro da investimento. Sono attese correzioni alla misura sulla cedolare secca per gli affitti brevi a uso turistico. C’è un accordo ampio sul ritorno all’aliquota del 21% per il primo immobile locato e la riduzione da 5 a 3 del numero di immobili da cui scatta l’attività di impresa che prevede un diverso trattamento fiscale.
Si lavora anche sulla norma sui dividendi (la stretta verrebbe limitata alle partecipazioni sotto il 5%), sull’esclusione delle holding industriali dall’aumento dell’Irap, sullo stop al divieto di portare in compensazione i crediti e sull’allargamento dell’esenzione Isee sulla prima casa.
Si stanno valutando le detrazioni per i libri e la stabilizzazione triennale dell’iperammortamento. «Sulle banche mi pare si sia arrivati a un accordo. L’orientamento è quello di arrivare finalmente a un punto di incontro. Il governo decide ovviamente, ma stavolta c’è anche il consenso delle banche», ha affermato il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani.
In arrivo la conferma delle risorse aggiuntive per le forze dell’ordine stanziate negli anni scorsi. È quanto emerso nel corso dell’incontro tra il governo e le organizzazioni sindacali delle forze armate e del comparto sicurezza e soccorso pubblico. È stato ribadito anche che «nuovi spazi potranno liberarsi se si chiuderà positivamente la procedura europea sugli squilibri di bilancio».
Inoltre, per quanto riguarda il rinnovo dei contratti per il triennio 2025-2027, il governo ha ribadito l’impegno a una convocazione immediata dei sindacati. Durante l’incontro sono stati affrontati i temi della valorizzazione delle carriere, dell’età pensionabile e delle misure di previdenza dedicata, dei tempi di liquidazione del trattamento di fine servizio, del turn over e degli interventi volti a rafforzare ulteriormente la tutela e la sicurezza del personale.
Per fare il punto sui tempi e sull’iter della manovra, non è escluso un nuovo giro di riunioni con il governo. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo, ha ribadito che «le risorse sono quelle che abbiamo stanziato, la manovra deve chiudersi a 18,7 miliardi».
Continua a far discutere il raddoppio del tetto al contante, attualmente a 5.000 euro, con l’introduzione di una imposta di bollo di 500 euro ogni pagamento cash per importi tra 5.001 e 10.000 euro.
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Xi Jinping ed Emmanuel Macron (Ansa)
Il rinvio della discussione si è reso necessario per l’ostilità di un gruppo di Paesi. Nove Stati membri (Svezia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Irlanda, Malta, Portogallo e Slovacchia, capitanati dalla Repubblica Ceca) si sono, infatti, opposti alla deliberazione, esortando Bruxelles a procedere con la «massima cautela possibile», avvertendo che norme fuori misura rischierebbero di «soffocare l’innovazione» e di «violare accordi commerciali». Un documento ceco condiviso dai nove ministri dell’Industria ha avvertito che una tale politica dovrebbe essere considerata solo «l’ultima risorsa». Il costo di questa politica per le aziende Ue è stato stimato, nel non paper, in oltre 10 miliardi di euro all’anno a causa dell’obbligo di acquistare componenti europei più costosi. La norma non considererebbe «fatto in Europa» un prodotto solo assemblato nella regione ed è questo il problema soprattutto per Slovacchia e Cechia (ma sospettiamo anche per l’Ungheria). Da notare che il tentativo di frenare e indebolire la proposta non è venuto solo da alcuni Stati, ma anche dall’interno della Commissione, dove le direzioni generali Commercio ed Economia hanno espresso timori per l’impatto di queste misure sulla competitività e sull’utilizzo di fondi pubblici per acquisti interni.
La Germania, fino a poco tempo fa contrarissima all’iniziativa, nelle ultime settimane è apparsa più morbida, tanto che non figura tra i Paesi scettici. Ma una regia di Berlino, in casi come questo, è praticamente una certezza. Non sempre la Germania ha necessità di comparire esplicitamente. Il blocco temporaneo al «Made in Europe» è un vero e proprio sgambetto ai danni della Francia, che cerca di proteggere la propria manifattura dall’assalto delle merci cinesi. Proprio qui si innesta l’enorme spaccatura tra Francia e Germania, un contrasto stridente che nessuna conferenza stampa con i sorrisi tirati può dissimulare. Lo stallo unionale è frutto del divario tra la retorica allarmata della Francia e il contorto approccio della Germania alla questione cinese.
Il presidente francese Emmanuel Macron, appena sbarcato dall’aereo dopo tre giorni di visita a Xi Jinping in Cina, ha usato toni estremamente preoccupati per descrivere il ruolo marginale dell’Europa nel panorama globale, dove è «intrappolata tra Stati Uniti e Cina». Egli ha definito lo stato attuale come «lo scenario peggiore», in cui l’Europa è diventata il «mercato dell’aggiustamento» per la produzione cinese, in buona parte deviata dai dazi americani. Considerazione ovvia e assai tardiva. Dall’entourage di Xi Jinping, però, è filtrata una certa sorpresa dato che, durante i tre giorni di visita, i toni di Macron erano stati tutt’altro che bellicosi. Tornato all’Eliseo, Macron ha avvertito Pechino che, se non interverrà per correggere lo squilibrio commerciale giudicato «insostenibile», l’Ue potrebbe adottare «misure forti», inclusa l’imposizione di dazi. Per Parigi, la protezione dell’industria è una «questione di vita o di morte per l’industria europea».
Dall’altra parte, però, la Germania dà prova di profonde ambiguità. Nonostante si stia confrontando con una drammatica crisi industriale (con 23.900 fallimenti aziendali, il picco degli ultimi undici anni, e la perdita acquisita quest’anno di oltre 165.000 posti di lavoro nel solo settore manifatturiero), Berlino continua a privilegiare i rapporti bilaterali con Pechino. Mentre l’Unione è bloccata, il ministro degli Esteri, Johann Wadephul, e quello alle Finanze, Lars Klingbeil, si recano in Cina a poche settimane l’uno dall’altro per chiedere condizioni di favore, in particolare per le terre rare, essenziali per l’industria.
Probabilmente a Pechino non credono ai loro occhi, con questo via vai di ministri e presidenti europei che arrivano a chiedere questo e quello. Ma l’orientamento dei tedeschi è mantenere ed espandere le relazioni commerciali con la Cina, il loro «partner commerciale più importante», come ha detto Wadepuhl. Questa condotta confligge con gli obiettivi di riduzione del rischio di cui si parlava fino a qualche tempo fa a Bruxelles e di cui, come è facile notare, non si parla praticamente più. L’impegno, ora, è tutto rivolto a mostrare indignazione per la nuova strategia di Donald Trump verso l’Europa, a quanto sembra.
Certamente la spinta tedesca contrasta con le idee della Francia sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’enorme surplus cinese, che nei primi undici mesi dell’anno ha superato i mille miliardi di dollari. Il ripiegamento delle merci cinesi dagli Stati Uniti verso l’Europa era un effetto atteso, dopo l’aumento dei dazi americani verso Pechino. In otto mesi, l’Unione non ha fatto nulla per proteggersi e ora Parigi grida «Al fuoco!», mentre Berlino, ispiratrice dell’immobilismo di Commissione e Consiglio, punta ancora a ritagliare per sé uno status privilegiato.
Di fronte all’aggressiva politica commerciale cinese, l’Unione europea si ritrova in pezzi, congelata da Berlino che, intanto, fa affari e cerca accordi con Pechino.
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