2024-03-10
L’immunità della famiglia dell’Avvocato è finita
Gianni Agnelli (Getty Images)
Perfino i pm di Tangentopoli si fermarono in anticamera, rinunciando a varcare la sottile linea rossa che collegava il sistema politico agli Agnelli. La magistratura si accontentò infatti delle parole con cui l’Avvocato circoscrisse la corruzione, che era servita al gruppo Fiat per finanziare illecitamente i partiti, a pochi e isolati episodi.Alla Fenice di Venezia, un anno dopo l’arresto di Mario Chiesa, il presidente del gruppo si limitò a riconoscere che anche all’interno dell’azienda da lui guidata si erano verificati episodi «non corretti», aggiungendo però che il cuore sano, rappresentato dal settore auto, non era stato in alcun modo infettato dal virus delle mazzette. Solo le zone periferiche, che rappresentavano appena il 5% del fatturato globale, disse, si erano piegate alla pressione della politica e avevano pagato. Insomma, la Fiat era vittima di concussione e questo ai pubblici ministeri dei diversi uffici giudiziari coinvolti bastò. Si accontentarono di alcuni pesci piccoli come Enzo Papi, amministratore della Cogefar, e Paolo Mattioli, il capo di Ifil, più altri manager di secondo piano. Ma di arrivare alla famiglia, cioè all’Avvocato, a nessuno di loro passò per la testa. Anzi, in qualche caso, si dimenticarono pure nel cassetto le inchieste, mentre in altri si affrettarono a prosciogliere gli indagati. Risultato, nonostante i conti esteri e le banche del gruppo dislocate alle Bahamas dai cui conti erano partiti miliardi, tutto finì in gloria, senza cioè che si scoprissero gli altarini del più grande gruppo industriale italiano.Proprio per questo, l’inchiesta con cui la Procura di Torino sta indagando per evasione fiscale gli eredi Agnelli, ramo Elkann, è ancora più sorprendente. Mai nella storia della Fiat la magistratura aveva osato tanto. I pm si erano sempre fermati prima, in anticamera appunto, senza cioè mai ordinare perquisizioni in casa, senza mai disporre intercettazioni troppo invasive, rinunciando anche a sentire i collaboratori più stretti. Stavolta no, la Procura non è andata per il sottile, spingendosi fino a frugare nei caveau di famiglia e senza risparmiare segretarie, avvocati, consulenti. E infatti, quello che emerge è un colpo al cuore. Non per noi, che non consideriamo inviolabile nessun santuario, ma per una famiglia che a lungo è stata considerata la più potente d’Italia. Lo so, a Torino dispongono di eserciti di avvocati e di battaglioni di esperti, come si è visto di recente con un ricorso al tribunale del Riesame, che ha annullato parte dei sequestri effettuati. Tuttavia, per la prima volta, il potere degli Agnelli, ramo Elkann, è messo in discussione. L’inchiesta infatti, rischia di far vacillare perfino la poltrona di John, il nipote prediletto dell’Avvocato, che nonostante l’età, è di fatto il capo della dinastia, lo stratega della ritirata d’Italia e della difesa delle retrovie con la stampa di sinistra (leggi Repubblica e La Stampa).La guerra che da 20 anni combatte Margherita Agnelli, unica erede diretta di Gianni Agnelli, contro i tre figli che portano il nome Elkann e in nome degli altri cinque figli che portano il nome de Palhen, è arrivata a un punto di svolta. La figlia dell’Avvocato sostiene che le spetta una parte dell’eredità della madre, perché il patto successorio da lei firmato dopo la morte del padre non ha valore, in quanto le furono nascosti i fondi e le finanziarie detenuti all’estero. Tutto si gioca su un aspetto che sembra secondario, ovvero quanti giorni Marella Caracciolo, la madre, trascorse in Svizzera. Sei mesi e un giorno passati nella vicina confederazione assoggetterebbero il patrimonio alle leggi di Berna, ma nel caso fossero di meno, la residenza effettiva sarebbe l’Italia e dunque la successione dovrebbe assoggettarsi alle leggi italiane, con quel che ne consegue, ovvero una spartizione dell’eredità che tenga conto anche di Margherita Agnelli e dei suoi figli. In pratica, John non solo non potrebbe più disporre del gruppo come cosa sua e dei suoi due fratelli, ma dovrebbe anche fare i conti con il fisco italiano, che non è così tenero come quello elvetico. E, soprattutto, se si superano certe soglie di evasione, bisogna vedersela con il codice penale, che punisce il furbo che non paga le imposte con le manette.Insomma, per la prima volta nella storia secolare della Fiat, la magistratura non si è limitata all’anticamera, ma è scesa anche negli scantinati degli Agnelli e le carte che escono dagli archivi di famiglia sono sorprendenti per almeno due motivi. Il primo è che alzano il velo sulle operazioni messe in campo per attestare che Marella fosse cittadina svizzera nonostante vivesse in Italia. E il secondo è che i documenti erano lì, a portata di mano, senza che nessuno si fosse preso la briga di occultarli. Segno evidente che a Torino si sentivano intoccabili e nessuno pensava seriamente che per un pm fosse immaginabile una perquisizione o un’intercettazione.Al di là di ciò che accadrà nel caso l’inchiesta appurasse la truffa e l’aggiramento delle norme, quello che appare evidente è la fine di un’epoca. L’immunità per meriti industriali non esiste più neppure a Torino.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.