2019-05-28
E nel M5s è partito l’assalto alla leadership
Luigi Di Maio è teso: «Imparata lezione, ma nessuno vuole le mie dimissioni». Poi riunione fiume con i fedelissimi e l'uomo di Davide Casaleggio. La risposta all'assalto leghista è il salario minimo. Alessandro Di Battista ricompare per dare voce al malcontento: «Il problema ora è come agire».Le piroette improvvise a sinistra non avevano speranza di funzionare, gli attacchi a Matteo Salvini neppure, ma chi in questo ultimo mese ha provato ad avvertire Luigi Di Maio che stava portando il Movimento a sbattere contro un muro ha avuto a che fare, a sua volta, con un muro di gomma. Risultato, in meno di un anno di governo gialloblù, il Carroccio ha raddoppiato i voti e M5s li ha praticamente dimezzati. Ma la notizia di ieri, in casa grillina, è che non è successo nulla. «Nessuno ha chiesto le mie dimissioni», dice il vicepremier con il suo famoso sorrisetto. Ci si vede mercoledì, quando si riunirà l'assemblea dei deputati grillini be dall'alto calerà il nuovo Verbo: «Lasciamo che sia Salvini a fare la prima mossa». Il tutto, almeno nella testa di Di Maio e dei suoi fedelissimi, senza che si sia fatta strada la percezione di che cosa li aspetta veramente con l'Uomo Ruspa al comando: posta continuamente alzata e «prendere o lasciare», altrimenti si va al voto anticipato e la piattaforma Rousseau diventerà molto cara da sostenere, per i deputati rimasti. La war room a 5 stelle si riunisce al Mise da metà pomeriggio fino a sera. Intorno a un tavolo si siedono il commercialista milanese Stefano Buffagni, improvvisamente non più sicurissimo di smazzare le nomine di Eni, Enel e Leonardo la prossima primavera, e la senatrice romana Paola Taverna. Poi arrivano anche il vice capo segretaria di Di Maio, e socio di Rousseau, Massimo Bugani, e il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Provano a stilare l'agenda immediata, ma è dura. La prima decisione presa è accelerare sulla riorganizzazione del Movimento, «più partito e meno alga» come dice un fedelissimo di Di Maio, richiamando la nota assenza di radici della vegetazione marina. Ma lo dicono da mesi. La seconda è stanare la Lega sulla Flat tax: «Che la facciano… se hanno le coperture, se Giovanni Tria e Sergio Mattarella gliela passano, oltre che Bruxelles, gli battiamo anche le mani». Del resto anche con la stampa, poco dopo pranzo, Di Maio ha dato l'impressione di volersi dedicare al recupero del proprio elettorato perso per strada (il 40% del popolo del 4 marzo si è astenuto, stima la Swg) e, quanto alla dialettica con l'ingombrante socio di governo, di giocare di rimessa. Al Mise si appalesano con intenti più bellicosi anche il senatore Gianluigi Paragone e Alessandro Di Battista. Quest'ultimo è chiaro: « Non abbiamo convinto le persone ad andare al voto e su questo la colpa è esclusivamente nostra. Non dobbiamo prendercela con i cittadini, il problema non è chi ma cosa si deve fare e come». In serata Di Maio incassa l'appoggio «totale» del sindaco di Torino Chiara Appendino.L'agenda del Carroccio è già chiara da un minuto dopo la vittoria delle europee: Torino-Lione a tamburo battente, diminuzione delle tasse, via libera alle Autonomie chieste dalle regioni del Nord e ridefinizione dei parametri Ue che alla fine non piacciono molto neppure ai 5 stelle. Di Maio provoca l'alleato, quando dice: «Abbassiamo subito le tasse». Di buon mattino si è sentito con il premier Giuseppe Conte, lui sì abbastanza preoccupato dei nuovi rapporti di forza, e gli ha chiesto di convocare subito un tavolo per il salario minimo, proposto anche dal Pd, e per la flat tax che «prima la facciamo meglio è». E la Tav, sulla quale M5s ha preso una discreta batosta in Piemonte? Di Maio se la cava così: «È un dossier nelle mani di Conte», salvo aggiungere che «è nel contratto di governo». Aggiunta velenosa, perché nel contratto c'è, ma in modo ambiguo e con possibilità di revisione. Sul decreto Autonomie, invece, M5s già apre e spiega che si tratta solo di scriverlo «bene». Ma al momento il probelma è l'assenza di strategia. Troppo forte la botta, in un movimento che pensava almeno di prendere il 22-23% e si è ritrovato al 17%, stessa percentuale della Lega un anno fa. Di Maio ha ammesso che «per noi le elezioni sono andate male, abbiamo preso una lezione da chi non ci ha votato» e fa i complimenti «a tutti i partiti che hanno registrato un incremento dei voti», «a cominciare da Lega e Pd». Sportivo come di rado accade in Italia, noto Paese di vincitori sempre e comunque, il leader 5 stelle in realtà ha affrontato le telecamere perché doveva dare un messaggio chiaro: resto, non mi dimetto. Gli fanno notare che Beppe Grillo ha cinguettato un canto sordo: «Ora Radio Maria e Canti gregoriani». Ma lui in ginocchio sui ceci non ci si vuol mettere e spiega con puntiglio: «Il governo va avanti, ha la nostra fiducia. Ho sentito Grillo e Casaleggio. Nessuno ha chiesto le mie dimissioni, si vince e si perde insieme». Vero, «ma qualcuno ha fatto più errori degli altri», chiosano nel Movimento.Già, tra i 5 stelle nessuno ha voglia di far cadere il governo e di andare al voto, se non altro perché con il divieto del doppio mandato molti andrebbero a casa per sempre. «Salvini ci prenderà come ostaggi», dicono a mezza bocca alcuni senatori grillini. E la disamina degli errori è riassunta da un esponente del Movimento vicino a Roberto Fico e Di Battista: «La piroetta a sinistra ha portato voti al Pd e gli attacchi a Salvini hanno portato voti a Salvini, a Di Maio glielo avevamo anche detto». Nel mirino delle critiche interne c'è anche Augusto Rubei, lo spin doctor della svolta a sinistra. E c'è un sospetto atroce: «Con i nostri prelievi obbligatori per finanziare Rousseau, ci siamo imprigionati da soli».