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2023-05-01
E il nostro lavoro chi lo difende?
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Nella Festa del 1° Maggio solitamente si accendono i riflettori sul lavoro dipendente. Le altre formule di impiego si lasciano ai margini, forse perché percepite come bacino di consensi del centrodestra e forse perché ha ancora radici nel sindacato confederale la convinzione che le piccole imprese, gli artigiani, i commercianti, gli autonomi, i professionisti, siano comunque categorie che sanno come mantenersi al riparo dalla crisi, che abbiano gli anticorpi degli alti redditi per reagire ai periodi più difficili. O forse perché è facile l’equazione, partita Iva uguale evasore.
Per tutte queste ragioni la retorica della Festa del Lavoro invece di abbracciare tutte le categorie, soprattutto delle nuove professioni legate alle moderne tecnologie, sbocco principale dei giovani, invece di essere una Giornata di tutti, ripropone il consueto dualismo tra lavoro dipendente e autonomo. Un dualismo che sconfina nella contrapposizione. Come pure viene riproposta la vecchia immagine dell’azienda che vive nel conflitto tra imprenditore e dipendente laddove, soprattutto nelle piccole imprese, il rapporto è di collaborazione, talvolta di cogestione perché è questo che viene richiesto dalle sfide di una concorrenza sempre più aggressiva. Nel nostro Paese ci sono oltre 8 milioni di partite Iva, 4,8 milioni di lavoro autonomo e libero professionale. Lo scorso anno ne sono state aperte 500.000, secondo l’Osservatorio del ministero dell’Economia. In testa alla classifica quelle professionali con il 19%, seguite da commercio e edilizia, rispettivamente con il 18,3% e l’11%. Rispetto al 2021 c’è stato un calo nell’agricoltura (-31%), nel commercio (-26,6%) e nei servizi d’informazione (-8,5%), mentre si è avuto un aumento nell’istruzione (+24,2%), trasporti (+11,8%) e attività artistiche e sportive (+11,7%).
È un settore molto dinamico ma che ha sofferto notevolmente durante la pandemia e ora continua a pagare il prezzo dei rincari energetici e dell’inflazione. Nel 2020 secondo l’Ufficio Studi di Confcommercio, hanno chiuso circa 300.000 imprese del commercio non alimentare e dei servizi, di cui circa 240.000 esclusivamente a causa della pandemia, a cui si devono aggiungere anche 200.000 attività professionali sparite dal mercato.
Le aziende sopravvissute alle restrizioni del Covid, ora hanno a che fare con i rincari energetici. Il Rapporto annuale della Confartigianato indica che nel 2022, le piccole e medie imprese hanno pagato 24 miliardi di euro in più rispetto al 2021, a causa del caro bollette. E come ha spiegato Confcommercio, alla prima metà del 2023, almeno 120.000 piccole aziende del terziario sono a rischio, con la perdita di oltre 370.000 posti di lavoro.
Le partite Iva nel 2021, in base ai dati di Unimpresa, hanno aumentato il fatturato di 29,3 miliardi (+20,4%) rispetto all’anno precedente, pari a un giro d’affari di oltre 170 miliardi.
Secondo il rapporto dell’Ocse l’incidenza degli autonomi sul totale dei lavoratori, è pari al 21,8% contro una media europea del 14,5%. In Germania sono l’8,8% e in Francia il 12,6%.
Un altro settore che vive problematiche importanti e che non sarà rappresentato nella giornata di oggi, è l’agricoltura. Nel 2022 le imprese hanno avuto un saldo negativo di -3.363 realtà, schiacciate dal mix dei rincari energetici e del cambiamento climatico. È un comparto centrale nell’economia del Paese. Una impresa su dieci, il 12%, è attiva in agricoltura, che offre opportunità di lavoro a 2 milioni di addetti tra autonomi e dipendenti. Un terzo delle aziende agricole, a causa della siccità, pari al 34%, è costretta a lavorare in una condizione di reddito negativo e il 13% è prossima alla chiusura.
«Dovrebbe essere una Festa dell’inclusione, capace di rappresentare tutto il mondo del lavoro, senza divisioni tra imprenditori e dipendenti. Ragionare con steccati ideologici, parlare di conflittualità tra i due soggetti del lavoro, è un modo vecchio e superato di guardare al mercato. Nelle piccole imprese, che sono la maggioranza dell’economia italiana, si agisce come una squadra. I dipendenti non sono numeri ma asset strategici. Se l’industria italiana ha superato il periodo della pandemia è grazie alla collaborazione tra imprenditori e lavoratori» commenta il presidente di Confapi, Cristian Camisa.
È questo il nuovo modo di festeggiare, nessuno escluso, il 1° Maggio. La Verità ha dato voce a questo mondo, parte importante del Pil del Paese.
Commercianti: «Non ci siamo ancora del tutto ripresi dalla pandemia»
«Alla base dei discorsi della festa del 1° Maggio, noto una visione vecchia, sorpassata, di concepire il lavoro. C’è chi ancora vuole coltivare divisioni ideologiche che nella realtà non ci sono più. Imprenditori e dipendenti lavorano a stretto contatto ed è assurdo vedere contrapposizioni lì dove non ci sono». La vicepresidente di Confcommercio Imprese, Donatella Prampolini, nonché imprenditrice della distribuzione organizzata, mette il dito nella piaga. Il modo di concepire la Festa del Lavoro si basa su una visione superata del mercato dell’impiego. Anche la divisione dal punto di vista economico, fa notare Prampolini, non c’è più. «La pandemia, l’inflazione, l’erosione del reddito a causa dei rincari energetici, hanno accorciato le distanze tra chi fa impresa e chi vi lavora come dipendente. Ecco perché il 1° Maggio dovrebbe sottolineare le vicinanze non le distanze, non dovrebbe essere solo la bandiera dei lavoratori dipendenti ma abbracciare tutto il mondo del lavoro. Imprenditori e lavoratori sono uniti dalle stesse sfide». Pertanto non ha senso la consueta retorica di questa Festa che tende a «mantenere barriere ideologiche che potevano valere fino a 40 anni ma ormai sono fuori dalla realtà. Le sfide sono le stesse di tutti, di lavoratori autonomi, di partite Iva e di dipendenti».
La manager e imprenditrice fa notare che si stanno diffondendo anche forme contrattuali con caratteristiche ibride, cioè autonomi che hanno le tutele del lavoro dipendente. «Il tema del lavoro è molto complesso e variegato. Tutti lavorano dentro un mercato che evolve in modo veloce. In questo contesto gli steccati sono anacronistici». Anche quando si affronta il tema della sicurezza, commenta Prampolini, «si guarda solo al lavoratore dipendente ma chi fa impresa non è esente dagli stessi rischi». Il 1° Maggio dovrebbe essere l’occasione per gettare le basi di «nuove relazioni sindacali su come le rappresentanze datoriali e dei lavoratori, possono mettere in campo le esperienze senza steccati ideologici ma per costruire un sistema vantaggioso per entrambi. D’altronde ci si confronta con una situazione che dopo la pandemia è profondamente mutata. C’è una mobilità mai vista prima, aziende che faticano a trovare addetti e lavoratori che lasciano il posto consolidato per cambiare e migrare verso settori diversi. Le prossime rilevazioni sul mercato del lavoro registreranno di sicuro l’aumento delle dimissioni volontarie. Nel commercio è un fenomeno molto evidente».
Un altro tema, legato al turn over accelerato, è quello della formazione. Prampolini critica la funzione svolta dai centri per l’impiego. L’incrocio tra domanda e offerta non sta funzionando. Servirebbero degli Stati Generali del lavoro che affrontino questo tema per dare poi le indicazioni al governo. La digitalizzazione delle mansioni ha mutato le caratteristiche degli impieghi e anche il rapporto tra datore di lavoro e dipendente. Dovrebbero essere questi i temi al centro del 1° Maggio».
Artigiani: «Senza ferie né malattie. Va ridata dignità alle occupazioni manuali»
«In linea generale il mondo sindacale ritiene che gli autonomi siano dei lavoratori di serie B. Insomma, non avrebbero la stessa dignità dei dipendenti. Sinceramente non abbiamo ancora capito il perché. A differenza dei salariati, ricordo che le partite Iva non dispongono di alcun ammortizzatore sociale, non hanno alcuna copertura in caso di malattia, non dispongono di ferie, permessi, tredicesima, Tfr, Cig e Naspi. Sono la componente più precaria del mercato del lavoro e oggi più di un tempo faticano a farsi pagare. Il lavoro magari c’è, ma il committente ha allungato in misura preoccupante i tempi di pagamento». Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi Cgia, che rappresenta le imprese artigiani, sostiene che servirebbe un 1° Maggio più inclusivo, che rappresenti tutte le realtà. E gli artigiani sono coloro che negli ultimi anni hanno sofferto di più.
I dati lo stanno a indicare. «Negli ultimi 10 anni il numero dei titolari, dei soci e dei collaboratori artigiani iscritti all’Inps è crollato di quasi 300.000 unità. È un’emorragia continua che sta colpendo, in particolar modo, l’artigianato tradizionale, quello che con la sua presenza, storia e cultura ha contrassegnato, sino a qualche decennio fa, tantissime vie delle nostre città e dei paesi di provincia. Basta osservare attentamente anche i luoghi che frequentiamo quotidianamente per accorgerci che sono sempre più numerose le serrande abbassate definitivamente. Con meno botteghe e negozi di prossimità la qualità della vita di quei luoghi peggiora drammaticamente». Cosa fare per invertire questa tendenza? Zabeo indica i temi che dovrebbero essere focalizzati in questa giornata. «Oltre ad abbassare le tasse, garantire il sostegno delle banche e alleggerire il peso della burocrazia, bisogna ridare dignità al lavoro manuale. Negli ultimi 40 anni, purtroppo abbiamo assistito a una sua svalutazione che ha allontanato intere generazioni dal settore dell’artigianato. Sempre meno giovani entrano nel mercato del lavoro e nell’artigianato il ricambio generazionale è diventato un grosso problema».
Per un giovane diventare artigiano può trasformarsi in una sfida con molti ostacoli. Zabeo mette al primo posto «la difficoltà a sostenere i costi fissi che negli ultimi anni sono cresciuti spaventosamente. Affitto, utenze, forniture, tasse locali/nazionali hanno assunto dimensioni tali che spesso scoraggiano chiunque voglia aprire un’attività. Se all’inizio le spese sono certe ed importanti, i ricavi, invece, sono pochi e insufficienti a compensare le uscite. Uno scenario che dissuade molti giovani a fare il grande passo». Poi sottolinea la «concorrenza sleale dell’economia sommersa. È il mondo dei lavoratori “invisibili”, che, non essendo sottoposti ai contributi previdenziali, a quelli assicurativi e a quelli fiscali, consentono alle imprese dove prestano servizio, o a loro stessi, se operano sul mercato come abusivi, di avere un costo del lavoro molto inferiore e, conseguentemente, di praticare un prezzo finale del prodotto/servizio molto contenuto».
Partite Iva: «Troppi devono chiudere per la concorrenza cinese»
«Il protagonista della giornata del lavoro è sempre il lavoro dipendente ma ci si dimentica della grande realtà delle partite Iva, delle piccole imprese, delle aziende familiari che mai come adesso, fanno fatica ad andare avanti». Tommaso Cerciello, presidente nazionale di Confpmiitalia, associazione delle pmi che riunisce oltre 300.000 partite Iva e 105 associazioni di categoria. Sottolinea la condizione dei giovani precari e dei 50enni che licenziati, sono costretti ad aprire una partita Iva, non riuscendo a reinserirsi nel mondo del lavoro. «Costoro dovrebbero avere un posto nei discorsi dei leader sindacali che invece sono ancora ancorati alla figura del dipendente, o della pubblica amministrazione o della fabbrica. Ma l’Italia è fatta di molto altro».
Secondo Cerciello, il lavoro autonomo dovrebbe diventare protagonista del 1° Maggio. «È una figura che spesso è associata all’evasione e all’immagine di imprenditori benestanti. Ma ci si dimentica delle piccole e piccolissime imprese, con una composizione familiare. Per queste realtà non esistono tutele, non c’è alcuna copertura per i periodi di malattia, non c’è il congedo per maternità, non possono usufruire della legge che garantisce l’assistenza ad anziani e portatori di handicap». E ricorda il boom delle chiusure durante la pandemia. «Le grandi imprese possono delocalizzare all’estero, portare pezzi di produzione oltre confine, ma i piccoli restano nel nostro Paese a combattere ogni giorno contro il caro bollette, il crollo degli ordini. I centri storici delle città si stanno desertificando, tante piccole botteghe artigiane chiudono, sostituite da negozi di paccottiglia cinese, di souvenir ad uso turistico».
La partita Iva è diventata l’unica soluzione per i giovani che non riescono a trovare lavoro e per i 50enni licenziati. Ma gran parte di costoro, «non hanno la formazione per intraprendere una nuova attività». Cerciello punta il dito contro il reddito di cittadinanza. «Ha abituato tanti giovani e meno giovani al sussidio come pura assistenza. E quel periodo non è stato utilizzato nemmeno per la formazione. Così ora abbiamo tanti disoccupati, ex percettori del reddito di cittadinanza che non hanno le qualifiche per trovare un impiego. Non era mai successo di vedere cartelli fuori dai ristoranti per la ricerca di personale. Mancano cuochi, camerieri, addetti per gli alberghi, per l’accoglienza nelle strutture turistiche. Tante imprese sono costrette ad assumere personale straniero. Di tutto questo bisognerebbe parlare alla Festa del Lavoro».
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Come ogni anno, durante la festa di oggi nessuno si ricorderà di loro. Eppure gli autonomi hanno pagato le conseguenze più gravi del Covid e della guerra.Lo speciale comprende quattro articoli.Nella Festa del 1° Maggio solitamente si accendono i riflettori sul lavoro dipendente. Le altre formule di impiego si lasciano ai margini, forse perché percepite come bacino di consensi del centrodestra e forse perché ha ancora radici nel sindacato confederale la convinzione che le piccole imprese, gli artigiani, i commercianti, gli autonomi, i professionisti, siano comunque categorie che sanno come mantenersi al riparo dalla crisi, che abbiano gli anticorpi degli alti redditi per reagire ai periodi più difficili. O forse perché è facile l’equazione, partita Iva uguale evasore. Per tutte queste ragioni la retorica della Festa del Lavoro invece di abbracciare tutte le categorie, soprattutto delle nuove professioni legate alle moderne tecnologie, sbocco principale dei giovani, invece di essere una Giornata di tutti, ripropone il consueto dualismo tra lavoro dipendente e autonomo. Un dualismo che sconfina nella contrapposizione. Come pure viene riproposta la vecchia immagine dell’azienda che vive nel conflitto tra imprenditore e dipendente laddove, soprattutto nelle piccole imprese, il rapporto è di collaborazione, talvolta di cogestione perché è questo che viene richiesto dalle sfide di una concorrenza sempre più aggressiva. Nel nostro Paese ci sono oltre 8 milioni di partite Iva, 4,8 milioni di lavoro autonomo e libero professionale. Lo scorso anno ne sono state aperte 500.000, secondo l’Osservatorio del ministero dell’Economia. In testa alla classifica quelle professionali con il 19%, seguite da commercio e edilizia, rispettivamente con il 18,3% e l’11%. Rispetto al 2021 c’è stato un calo nell’agricoltura (-31%), nel commercio (-26,6%) e nei servizi d’informazione (-8,5%), mentre si è avuto un aumento nell’istruzione (+24,2%), trasporti (+11,8%) e attività artistiche e sportive (+11,7%). È un settore molto dinamico ma che ha sofferto notevolmente durante la pandemia e ora continua a pagare il prezzo dei rincari energetici e dell’inflazione. Nel 2020 secondo l’Ufficio Studi di Confcommercio, hanno chiuso circa 300.000 imprese del commercio non alimentare e dei servizi, di cui circa 240.000 esclusivamente a causa della pandemia, a cui si devono aggiungere anche 200.000 attività professionali sparite dal mercato.Le aziende sopravvissute alle restrizioni del Covid, ora hanno a che fare con i rincari energetici. Il Rapporto annuale della Confartigianato indica che nel 2022, le piccole e medie imprese hanno pagato 24 miliardi di euro in più rispetto al 2021, a causa del caro bollette. E come ha spiegato Confcommercio, alla prima metà del 2023, almeno 120.000 piccole aziende del terziario sono a rischio, con la perdita di oltre 370.000 posti di lavoro.Le partite Iva nel 2021, in base ai dati di Unimpresa, hanno aumentato il fatturato di 29,3 miliardi (+20,4%) rispetto all’anno precedente, pari a un giro d’affari di oltre 170 miliardi.Secondo il rapporto dell’Ocse l’incidenza degli autonomi sul totale dei lavoratori, è pari al 21,8% contro una media europea del 14,5%. In Germania sono l’8,8% e in Francia il 12,6%. Un altro settore che vive problematiche importanti e che non sarà rappresentato nella giornata di oggi, è l’agricoltura. Nel 2022 le imprese hanno avuto un saldo negativo di -3.363 realtà, schiacciate dal mix dei rincari energetici e del cambiamento climatico. È un comparto centrale nell’economia del Paese. Una impresa su dieci, il 12%, è attiva in agricoltura, che offre opportunità di lavoro a 2 milioni di addetti tra autonomi e dipendenti. Un terzo delle aziende agricole, a causa della siccità, pari al 34%, è costretta a lavorare in una condizione di reddito negativo e il 13% è prossima alla chiusura. «Dovrebbe essere una Festa dell’inclusione, capace di rappresentare tutto il mondo del lavoro, senza divisioni tra imprenditori e dipendenti. Ragionare con steccati ideologici, parlare di conflittualità tra i due soggetti del lavoro, è un modo vecchio e superato di guardare al mercato. Nelle piccole imprese, che sono la maggioranza dell’economia italiana, si agisce come una squadra. I dipendenti non sono numeri ma asset strategici. Se l’industria italiana ha superato il periodo della pandemia è grazie alla collaborazione tra imprenditori e lavoratori» commenta il presidente di Confapi, Cristian Camisa. È questo il nuovo modo di festeggiare, nessuno escluso, il 1° Maggio. 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Il modo di concepire la Festa del Lavoro si basa su una visione superata del mercato dell’impiego. Anche la divisione dal punto di vista economico, fa notare Prampolini, non c’è più. «La pandemia, l’inflazione, l’erosione del reddito a causa dei rincari energetici, hanno accorciato le distanze tra chi fa impresa e chi vi lavora come dipendente. Ecco perché il 1° Maggio dovrebbe sottolineare le vicinanze non le distanze, non dovrebbe essere solo la bandiera dei lavoratori dipendenti ma abbracciare tutto il mondo del lavoro. Imprenditori e lavoratori sono uniti dalle stesse sfide». Pertanto non ha senso la consueta retorica di questa Festa che tende a «mantenere barriere ideologiche che potevano valere fino a 40 anni ma ormai sono fuori dalla realtà. Le sfide sono le stesse di tutti, di lavoratori autonomi, di partite Iva e di dipendenti». La manager e imprenditrice fa notare che si stanno diffondendo anche forme contrattuali con caratteristiche ibride, cioè autonomi che hanno le tutele del lavoro dipendente. «Il tema del lavoro è molto complesso e variegato. Tutti lavorano dentro un mercato che evolve in modo veloce. In questo contesto gli steccati sono anacronistici». Anche quando si affronta il tema della sicurezza, commenta Prampolini, «si guarda solo al lavoratore dipendente ma chi fa impresa non è esente dagli stessi rischi». Il 1° Maggio dovrebbe essere l’occasione per gettare le basi di «nuove relazioni sindacali su come le rappresentanze datoriali e dei lavoratori, possono mettere in campo le esperienze senza steccati ideologici ma per costruire un sistema vantaggioso per entrambi. D’altronde ci si confronta con una situazione che dopo la pandemia è profondamente mutata. C’è una mobilità mai vista prima, aziende che faticano a trovare addetti e lavoratori che lasciano il posto consolidato per cambiare e migrare verso settori diversi. Le prossime rilevazioni sul mercato del lavoro registreranno di sicuro l’aumento delle dimissioni volontarie. Nel commercio è un fenomeno molto evidente». Un altro tema, legato al turn over accelerato, è quello della formazione. Prampolini critica la funzione svolta dai centri per l’impiego. L’incrocio tra domanda e offerta non sta funzionando. Servirebbero degli Stati Generali del lavoro che affrontino questo tema per dare poi le indicazioni al governo. La digitalizzazione delle mansioni ha mutato le caratteristiche degli impieghi e anche il rapporto tra datore di lavoro e dipendente. 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Sono la componente più precaria del mercato del lavoro e oggi più di un tempo faticano a farsi pagare. Il lavoro magari c’è, ma il committente ha allungato in misura preoccupante i tempi di pagamento». Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi Cgia, che rappresenta le imprese artigiani, sostiene che servirebbe un 1° Maggio più inclusivo, che rappresenti tutte le realtà. E gli artigiani sono coloro che negli ultimi anni hanno sofferto di più. I dati lo stanno a indicare. «Negli ultimi 10 anni il numero dei titolari, dei soci e dei collaboratori artigiani iscritti all’Inps è crollato di quasi 300.000 unità. È un’emorragia continua che sta colpendo, in particolar modo, l’artigianato tradizionale, quello che con la sua presenza, storia e cultura ha contrassegnato, sino a qualche decennio fa, tantissime vie delle nostre città e dei paesi di provincia. Basta osservare attentamente anche i luoghi che frequentiamo quotidianamente per accorgerci che sono sempre più numerose le serrande abbassate definitivamente. Con meno botteghe e negozi di prossimità la qualità della vita di quei luoghi peggiora drammaticamente». Cosa fare per invertire questa tendenza? Zabeo indica i temi che dovrebbero essere focalizzati in questa giornata. «Oltre ad abbassare le tasse, garantire il sostegno delle banche e alleggerire il peso della burocrazia, bisogna ridare dignità al lavoro manuale. Negli ultimi 40 anni, purtroppo abbiamo assistito a una sua svalutazione che ha allontanato intere generazioni dal settore dell’artigianato. Sempre meno giovani entrano nel mercato del lavoro e nell’artigianato il ricambio generazionale è diventato un grosso problema». Per un giovane diventare artigiano può trasformarsi in una sfida con molti ostacoli. Zabeo mette al primo posto «la difficoltà a sostenere i costi fissi che negli ultimi anni sono cresciuti spaventosamente. Affitto, utenze, forniture, tasse locali/nazionali hanno assunto dimensioni tali che spesso scoraggiano chiunque voglia aprire un’attività. Se all’inizio le spese sono certe ed importanti, i ricavi, invece, sono pochi e insufficienti a compensare le uscite. Uno scenario che dissuade molti giovani a fare il grande passo». Poi sottolinea la «concorrenza sleale dell’economia sommersa. È il mondo dei lavoratori “invisibili”, che, non essendo sottoposti ai contributi previdenziali, a quelli assicurativi e a quelli fiscali, consentono alle imprese dove prestano servizio, o a loro stessi, se operano sul mercato come abusivi, di avere un costo del lavoro molto inferiore e, conseguentemente, di praticare un prezzo finale del prodotto/servizio molto contenuto». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/e-il-nostro-lavoro-chi-lo-difende-2659932501.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="partite-iva-troppi-devono-chiudere-per-la-concorrenza-cinese" data-post-id="2659932501" data-published-at="1682883650" data-use-pagination="False"> Partite Iva: «Troppi devono chiudere per la concorrenza cinese» «Il protagonista della giornata del lavoro è sempre il lavoro dipendente ma ci si dimentica della grande realtà delle partite Iva, delle piccole imprese, delle aziende familiari che mai come adesso, fanno fatica ad andare avanti». Tommaso Cerciello, presidente nazionale di Confpmiitalia, associazione delle pmi che riunisce oltre 300.000 partite Iva e 105 associazioni di categoria. Sottolinea la condizione dei giovani precari e dei 50enni che licenziati, sono costretti ad aprire una partita Iva, non riuscendo a reinserirsi nel mondo del lavoro. «Costoro dovrebbero avere un posto nei discorsi dei leader sindacali che invece sono ancora ancorati alla figura del dipendente, o della pubblica amministrazione o della fabbrica. Ma l’Italia è fatta di molto altro». Secondo Cerciello, il lavoro autonomo dovrebbe diventare protagonista del 1° Maggio. «È una figura che spesso è associata all’evasione e all’immagine di imprenditori benestanti. Ma ci si dimentica delle piccole e piccolissime imprese, con una composizione familiare. Per queste realtà non esistono tutele, non c’è alcuna copertura per i periodi di malattia, non c’è il congedo per maternità, non possono usufruire della legge che garantisce l’assistenza ad anziani e portatori di handicap». E ricorda il boom delle chiusure durante la pandemia. «Le grandi imprese possono delocalizzare all’estero, portare pezzi di produzione oltre confine, ma i piccoli restano nel nostro Paese a combattere ogni giorno contro il caro bollette, il crollo degli ordini. I centri storici delle città si stanno desertificando, tante piccole botteghe artigiane chiudono, sostituite da negozi di paccottiglia cinese, di souvenir ad uso turistico». La partita Iva è diventata l’unica soluzione per i giovani che non riescono a trovare lavoro e per i 50enni licenziati. Ma gran parte di costoro, «non hanno la formazione per intraprendere una nuova attività». Cerciello punta il dito contro il reddito di cittadinanza. «Ha abituato tanti giovani e meno giovani al sussidio come pura assistenza. E quel periodo non è stato utilizzato nemmeno per la formazione. Così ora abbiamo tanti disoccupati, ex percettori del reddito di cittadinanza che non hanno le qualifiche per trovare un impiego. Non era mai successo di vedere cartelli fuori dai ristoranti per la ricerca di personale. Mancano cuochi, camerieri, addetti per gli alberghi, per l’accoglienza nelle strutture turistiche. Tante imprese sono costrette ad assumere personale straniero. Di tutto questo bisognerebbe parlare alla Festa del Lavoro».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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