2022-09-27
È caduto il bluff dell’Agenda Draghi: gli elettori mollano chi l’ha fatta propria
Pd, Terzo polo e Lega, vittima dell’insoddisfazione del Nord Est, pagano per l’ammucchiata. La rottura invece salva Giuseppe Conte.Chissà se si rischia l’incriminazione per lesa maestà ad affermare che il vero sconfitto di queste elezioni è Mario Draghi. Ha eroso il consenso di chi lo ha sostenuto. Giusto i 5 stelle si sono sfilati in tempo e chi oggi rivendica che il campo largo vagheggiato da Enrico Letta avrebbe vinto spaccia fake news. I due programmi di Pd e Giuseppe Conte erano alternativi e proprio la fuga dal draghismo verso il populismo delle origini ha rivitalizzato i grillini. Per contro la Lega ha pagato un tributo altissimo. Il Nord Est produttivo le ha voltato le spalle: troppe incertezze sul quadro economico, troppo timidi i sostegni.Che il presidente del Consiglio sia stato bocciato dall’elettorato italiano, anche o soprattutto da quelli che non hanno votato, sta nei numeri certificati dallo scrutinio. L’astensione ormai patologica dimostra che le manovre di Palazzo, quelle che hanno consentito al Pd di governare per dieci anni senza consenso e hanno prodotto i governi tecnici, hanno distrutto il credo democratico del Paese. L’ex presidente della Bce non è uno che passa per caso come per mesi e mesi si è cercato di far credere. Porta, e ormai da moltissimi anni, la responsabilità della politica economica e anche in capo a lui sta il degrado dei fondamentali del nostro Paese. Forse gli italiani lo sanno e glielo hanno rimproverato alla prima occasione utile. Mai Mario Draghi si era sottoposto - sia pure indirettamente com’è avvenuto stavolta - al giudizio di chi paga le tasse. È stato direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001, governatore della Banca d’Italia dal 2006 al 2011, capo dell’Eurotower dal 2011 al 2019. Si dovrà pur verificare prima o poi se le privatizzazioni da lui inaugurate e gestite siano state davvero un bene; se partite come il Monte dei Paschi non gli possano essere rimproverate; si dovrà considerare se il «whatever it takes» non ci presenti oggi il conto sotto forma di inflazione. Probabilmente sono dubbi che si sono appalesati nel voto ampiamente condizionato dalla crisi incombente. Per settimane siamo stati bombardati dal putinismo, dal fascismo, dal Pnrr e dalle istanze Lgbt: chi ha votato si è preoccupato del pane e della bolletta e si spiega con la paura della fame il consenso ritrovato (sia pure a metà) da Giuseppe Conte. Chi si è intestato l’agenda Draghi ha fatto vendemmia assai scarsa. Il Pd ha ribadito il suo totale appiattimento su Draghi e sull’Europa e ha sbattuto contro un muro d’indifferenza se non addirittura di ostilità. Carlo Calenda lo ha riproposto per un bis a Palazzo Chigi e non ha sfondato. L’armata brancaleone Emma Bonino-Benedetto Della Vedova si è intestata il simbolo di +Europa e neppure entra in Parlamento. I due alfieri del draghismo più genuflesso, Carlo Calenda ed Emma Bonino, nel loro collegio uninominale romano sono stati asfaltati dal candidato di centrodestra.La parziale resurrezione di Forza Italia - se tale può dirsi il risultato di un partito che passa dal 14,1 del 2018 all’8,3% di oggi - è merito di quell’ highlander chiamato Silvio Berlusconi. La riprova che stare con Draghi porta malissimo la danno le due opposte traiettorie di Lega e 5 stelle. La Lega paga un tributo di sangue doloroso alla sua partecipazione al governo. Nel 2018 aveva il 17,37%, stavolta arriva a malapena all’8,8%. C’è un flusso del 40% dei suoi voti riversati a Giorgia Meloni. In Veneto, il regno di Luca Zaia, la Meloni doppia i voti leghisti. In Lombardia culla prima di Forza Italia e poi della Lega, soprattutto di quella «governista», Fratelli d’Italia è il primo partito. Probabilmente Giancarlo Giorgetti, che finirà alla presidenza della Camera non toccando palla nel nuovo governo, il più draghiano dei leghisti, avrà di che meditare su questo risultato. Il Nord produttivo ha detto nell’urna no alla politica economica di Draghi. La tanto evocata Lega dei «governatori» Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana non ha tirato affatto: lo scontento degli elettori leghisti per la partecipazione al governo Draghi ha superato e di gran lunga l’apprezzamento per l’azione amministrativa esercitata da costoro sui territori. È perciò molto probabile che la base dura e pura del Carroccio - i flussi dicono che la Lega tiene il 70% dei suoi elettori tradizionali - confermi Matteo Salvini in staffetta con Lorenzo Fontana, l’attuale vicesegretario, e chieda conto della partecipazione al governo con alcuni ministri diventati invisi alle categorie. Basterà citare il molto tardivo endorsement a favore dei balneari da parte del titolare del Turismo. Per contro Giuseppe Conte, appena consumato lo scisma di Luigi Di Maio, avendo le mani libere ha potuto ripigliare l’anima populista pentastellata e trasformarsi nella Lega del Sud con la promessa del sussidio. Rendendo impossibile e rifiutando qualsiasi intesa con il Pd peraltro reo della vicenda Di Maio che racconta quanto il Palazzo, di cui Mario Draghi è la massima espressione, sia lontanissimo dal Paese reale. Si pensava di frantumare i 5 stelle dopo il gran rifiuto al campo largo proposto da un ondivago Enrico Letta immaginando che le folle avrebbero osannato Luigi Di Maio. Gli era accaduto, ma al San Paolo quando vendeva le gazzose. Né hanno pesato le gravissime affermazioni di Ursula von der Leyen a vantaggio di Draghi - meriterebbero ben diversa censura del silenzio assordante di Sergio Mattarella - che dimostrano il distacco degli italiani verso questa Europa. Anche questo è sul conto di Mario Draghi. Che non ha pagato di persona, ma ha lascia attorno a sé le macerie di chi lo ha sostenuto.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)