2020-10-07
Duplice figuraccia a Montecitorio. E il decreto slitta di una settimana
Per due volte la maggioranza fa mancare il numero legale, alla faccia della «parlamentarizzazione». Il flop tradisce dissapori interni sulla nuova stretta. La norma sui Dpi finisce nella proroga dello stato d'emergenza.Doppia figuraccia a Montecitorio per i giallorossi. Dopo aver messo in campo la fanfara in occasione della mitica «parlamentarizzazione» dei Dpcm, per due volte ieri la maggioranza non è stata in grado di assicurare il numero legale, cioè il numero minimo di deputati presenti necessario per la validità di qualsiasi votazione. Una prima volta si sono ritrovati sotto di 15 unità, una seconda volta di 8, nonostante un'affannosa caccia a ministri e sottosegretari per arrivare al traguardo. Così, al momento della votazione delle risoluzioni, quando si è constatato il patatrac, si è registrato un qualche ovvio festeggiamento da parte dei deputati di destra, curiosamente rimproverati dal vicepresidente di turno, il renziano Ettore Rosato («Non c'è mai da festeggiare quando manca il numero legale»). Peccato che anche una matricola parlamentare dovesse sapere che il primo compito di una maggioranza è quello di assicurare una presenza decente dei suoi uomini. E, per tutta la giornata, è stato abbastanza surreale il tentativo, da sinistra, di gettare la colpa sulle opposizioni, le quali - invece - hanno dato un segno di vitalità. Non essendo state mai consultate sul contenuto del Dpcm, sarebbe stato curioso e paradossale che fossero proprio Lega, Fdi e Fi a togliere le castagne dal fuoco ai giallorossi. Vale peraltro la pena di fare un passo indietro. Se la maggioranza avesse avuto un desiderio genuino di coinvolgere le opposizioni, avrebbe dovuto usare lo strumento del decreto legge: una norma di rango primario, con controfirma del capo dello Stato, e soprattutto con obbligo di conversione parlamentare in legge, e quindi con reale possibilità emendativa in Parlamento. E invece, per l'ennesima volta, il governo ha fatto ricorso allo strumento del Dpcm, cioè a un mero atto amministrativo (senza firma del Quirinale e senza conversione parlamentare). Bontà loro, nella tarda primavera e poi in estate, i giallorossi avevano concesso almeno una tenue «parlamentarizzazione» di questo strumento, nella forma di una illustrazione preventiva alle Camere accompagnata dal voto di risoluzioni. Le quali, come si sa, valgono pochino. Il guaio è che, dopo aver allestito tutta questa scenografia, tanti deputati giallorossi non si sono proprio presentati. Dopo il disastro, il primo ad alzarsi in Aula ad accampare scuse, per il Pd, è stato Emanuele Fiano, evocando come giustificazione le quarantene di molti deputati (ad esempio di quelli appartenenti alle commissioni recentemente sconvocate a causa della positività di alcuni membri). Ma nemmeno Fiano, vecchio lupo di Transatlantico, credeva forse a ciò che diceva: è evidente che dietro una vicenda così imbarazzante c'è di più. Tanto per fare un esempio, come mai a illustrare il Dpcm (cioè un atto riferibile alla presidenza del Consiglio) non c'era il premier Giuseppe Conte ma il ministro Roberto Speranza? Fino all'altro giorno, le veline governative ufficiose avevano provato ad accreditare una lettura furbescamente distensiva: Conte non sarebbe andato in Aula per non politicizzare la questione e per lasciare il microfono al più dialogante titolare della Salute. La sensazione è che invece il premier avesse da giorni fiutato i rischi, e che per questo abbia deciso di tenersi alla larga, lasciando Speranza alle prese con il trappolone d'Aula. Anche costui, a onor del vero, non è proprio una vittima innocente, nelle ricostruzioni che (a microfoni spenti e dietro il paravento dell'anonimato) fanno alla Verità alcune fonti di maggioranza: il ministro si è allargato - questa l'accusa -, ha voluto questa forzatura che si sarebbe potuta evitare, sta cercando da settimane il centro della scena. Il che, nel litigiosissimo zoo della sinistra italiana, porta da sempre a reazioni velenose degli altri membri del branco. Sta di fatto che, incassata la figura barbina, per la maggioranza è stato inevitabile far slittare tutto. Forse, addirittura di una settimana. L'esecutivo, insomma, rinvierebbe la questione delle nuove eventuali chiusure, mentre oggi licenzierebbe il rinnovo dello stato d'emergenza con annesso il provvedimento sulle mascherine all'aperto. Una sorta di «Dpcm ponte» (figura giuridica del tutto inedita). In più, voci insistenti ieri riferivano di un possibile vertice serale a tre tra l'avvocato, Luigi Di Maio e Matteo Renzi: terzetto inconsueto, a testimonianza di una situazione delicata e fragile. Il primo si rende conto che non potrà a lungo rimanere immune da incidenti parlamentari; il secondo è ritenuto ancora l'uomo in grado di gestire il maggior numero di peones grillini; mentre il terzo, messo alle corde dai risultati elettorali, cerca l'occasione di far pesare le sue truppe, inseguendo contropartite su più tavoli. Resta la sensazione che gli azionisti della maggioranza lavorino per correggere la rotta intrapresa da Speranza.La giornata di ieri lascia comunque due ulteriori elementi. Da un lato, il fatto che l'opposizione abbia le sue carte da giocare pure a Montecitorio e a Palazzo Madama. Dall'altro, il fatto che la maggioranza si sia eccessivamente rilassata dopo il 3-3 delle regionali e il turno di ballottaggio, sottovalutando un'antica regola italiana: i governi litigiosi e fragili possono sempre incontrare una buccia di banana sul loro cammino parlamentare.
Charlie Kirk (Getty Images)