2021-06-12
Draghi al G7 anti Cina. Grillo va dai cinesi
Mario Draghi e Boris Johnson (Alastair Grant - Pool/Getty Images)
Mentre il premier vede Boris Johnson e gestisce la grana turca, il fondatore M5s incontra l'ambasciatore di Pechino a Roma. Invitato anche Giuseppe Conte, ma il blitz salta all'ultimo: sarebbe stato micidiale per Luigi Di Maio e per il governo. Se non fosse inquietante, ci sarebbe da sorridere. Ieri, nello stesso giorno in cui si apriva nel Regno Unito il G7 probabilmente più anticinese che si sia mai tenuto, il leader de facto del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, è andato in visita dall'ambasciatore cinese in Italia, Li Junhua. Addirittura, avrebbe dovuto accompagnarlo lo stesso Giuseppe Conte, il quale tuttavia ha alla fine rinunciato per «concomitanti impegni» e ha bollato le polemiche come «del tutto pretestuose». Nonostante si sia parlato di un incontro di routine, la tempistica non può non lasciare perplessi. Stiamo infatti parlando dei leader di uno schieramento che sostiene l'attuale governo italiano: uno schieramento che, tra l'altro, esprime, con Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri. È quindi chiaro che questa visita cinese abbia un evidente obiettivo: mettere i bastoni tra le ruote a Mario Draghi. Non è del resto un mistero che il premier abbia sconfessato la linea tendenzialmente filocinese dell'esecutivo giallorosso, per avviare un netto allineamento a Washington. Ed è in questo quadro che l'inquilino di Palazzo Chigi sta operando al G7, soprattutto in vista dell'incontro bilaterale che avrà oggi con il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Da quando è entrato in carica, Draghi ha infatti lanciato numerosi segnali amichevoli nei confronti della Casa Bianca, raffreddando decisamente le relazioni del nostro Paese con la Cina. Suo obiettivo, da questo punto di vista, è quello di accreditarsi come principale e più affidabile interlocutore europeo di Biden, approfittando sia del tramonto politico (e delle sbandate filocinesi) di Angela Merkel sia delle manie di grandeur nutrite da Emmanuel Macron: un Macron di cui gli americani non apprezzano lo scetticismo nei confronti della Nato. È quindi chiaro che i settori filocinesi del panorama politico italiano non vedano troppo di buon occhio l'atlantismo di Draghi. Ed ecco che l'improvvida visita grillina all'ambasciata cinese punta esattamente a mettere in imbarazzo il premier alla vigilia del suo incontro con Biden. Tra l'altro, proprio Grillo non è nuovo a questo genere di visite: ne effettuò una già nel novembre del 2019, stranamente appena pochi mesi dopo la nascita del governo giallorosso. Poche settimane dopo quell'incontro, ma ben prima che scoppiasse ufficialmente il dramma Covid, Grillo cominciò peraltro a girare in mascherina, circostanza che suscitò curiosità sul momento e qualche sospetto nei mesi successivi. E dire che, dopo la politica estera raffazzonata e fallimentare di quell'esecutivo, qualche risultato Draghi sembra lo stia finalmente conseguendo a livello internazionale. La sua linea atlantista sta infatti ponendo le basi per un ritorno dell'Italia in Libia da protagonista. Sotto questo aspetto, appare significativo l'incontro, avvenuto proprio ieri in Sicilia, tra il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e i suoi omologhi di Regno Unito e Turchia, Ben Wallace e Hulusi Akar. Un vertice significativo, soprattutto alla luce del fatto che, il giorno prima, si fosse tenuto un (cordialissimo) meeting tra Biden e Boris Johnson: un meeting in cui i due avevano rilanciato la «relazione speciale» tra Washington e Londra attraverso la firma di una nuova Carta atlantica. Non è quindi affatto escludibile che, magari su input della Casa Bianca, Downing Street stia cercando di sostenere Roma nella sua politica mediterranea, anche aiutandola a ricucire con Ankara dopo le turbolenze degli scorsi mesi. Non sarà forse un caso che di Libia ieri abbiano parlato non solo i tre ministri in Sicilia, ma anche Draghi e Johnson nel corso di un incontro bilaterale. D'altronde, che il G7 in corso non stia evidenziando una linea troppo filocinese è abbastanza chiaro. Ieri, i leader europei hanno definito Pechino un «rivale sistemico», mentre l'impegno sanitario promosso da Biden e Johnson (che doneranno rispettivamente 500 milioni e 100 milioni di dosi di siero all'iniziativa Covax) è finalizzato ad arginare la diplomazia vaccinale cinese, particolarmente attiva - da mesi - in aree come Africa e Medio Oriente. In tal senso, un altro tema di questo G7 sarà quello della richiesta di una nuova indagine sulle origini del Covid-19. Non a caso, in una telefonata avvenuta ieri con il segretario di Stato americano Tony Blinken, il direttore dell'Ufficio della commissione centrale degli Affari esteri cinese, Yang Jiechi, ha definito «assurda» l'ipotesi secondo cui il virus sarebbe uscito da un laboratorio, criticando inoltre lo «pseudo multilateralismo sostenuto da piccoli circoli e dalla politica di gruppo». È quindi in questo contesto internazionale che Grillo si è recato all'ambasciata cinese: la stessa ambasciata che ha criticato aspramente una recente risoluzione della Camera, in cui si condannava la politica repressiva di Pechino nello Xinjiang (quella repressione che proprio Grillo ha messo in dubbio rilanciando un controverso report sul suo blog pochi giorni or sono). La maggioranza di governo intanto è in fibrillazione: posizioni critiche verso la visita pentastellata sono, per esempio, state espresse dal deputato leghista Paolo Formentini e dal senatore di Iv Davide Faraone. Non è in tal senso escludibile che Conte si sia sfilato all'ultimo proprio per le polemiche che, nel pomeriggio, erano scaturite dalla notizia della sua partecipazione a quell'incontro. Il problema d'altronde non è solo la tenuta interna dell'esecutivo. Ma anche l'immagine che si dà all'estero dell'Italia. Soprattutto in un momento delicato come quello che stiamo attraversando. Senza contare l'opacità che si registra in tali legami con Pechino: di questa simpatia, nutrita da Conte e Grillo per la Cina, non è infatti ancora oggi ben chiaro il motivo.