2020-09-06
Carlo De Benedetti non è come il vino:
invecchia malissimo
Carlo De Benedetti (Ansa)
Il finanziere ha litigato con i suoi amici e odiato visceralmente i suoi nemici. Le offese a Berlusconi malato lo dimostrano. invecchiare non piace a nessuno, perché con l'età si moltiplicano gli acciacchi e si dimezzano le energie. Tuttavia c'è qualche cosa di peggio e consiste nell'invecchiare male. È il caso che riguarda l'Ingegnere, al secolo Carlo De Benedetti, uno che per oltre mezzo secolo ha solcato i mari della finanza e, giunto alla soglia degli 86 anni, annega nel rancore. Ce l'ha con tutti. Con i figli che giudica incapaci, con gli ex collaboratori che ritiene ingrati, con gli avversari che liquida con cattiveria anche quando il tempo trascorso suggerirebbe un addio alle armi. Ai primi ha riservato parole di disprezzo, in quanto si sono permessi di vendere ciò che lui aveva lasciato in eredità, ossia Repubblica, il brigantino con cui per anni ha intessuto proficui rapporti con la politica. Con i secondi ha fatto anche peggio: a Eugenio Scalfari, che pure fu all'origine del suo successo, per lo meno di quello editoriale e politico, ha praticamente dato del rimbambito, perché si è permesso di avere un'opinione diversa dalla sua. Quanto agli avversari, neppure davanti a Silvio Berlusconi ricoverato in ospedale per polmonite interstiziale è riuscito a trattenere l'arroganza di una vita e alla fine, come saluto bene augurante, gli ha rovesciato addosso una scarica d'insulti. Da dove gli venga il veleno che ha in corpo non è dato sapere. Forse dalla consapevolezza di essere al capolinea e anche di non contare più nulla. O forse dal fatto che, arrivato al giro di boa degli 85 anni, si rende conto dei fallimenti accumulati, come imprenditore e come uomo. La sua è stata una vita condotta sempre sul filo del rasoio, con una spregiudicatezza che gli fece guadagnare la fama di raider, ossia di predone. I raider sono corsari pronti a qualsiasi affare, che dall'arrembaggio, cioè dalle scalate ostili, traggono i propri guadagni. E di operazioni non molto benevole la carriera di De Benedetti è costellata. Partito con una piccola azienda metalmeccanica, la Gilardini, nel giro di pochi anni diede l'assalto al cielo. Prima divenendo presidente dell'Unione industriali di Torino e poi del Piemonte. Dicono che a Torino non si muova foglia che Agnelli non voglia. Non so se la massima sia ancora attuale, ma di certo lo era negli anni Settanta e dunque l'ascesa nell'Olimpo confindustriale della regione in cui il nostro è cresciuto, ebbe come logica conseguenza l'ingresso nella Fiat, di cui divenne amministratore delegato. Durò cento giorni prima che l'Avvocato lo mettesse alla porta con un bel gruzzolo. Si racconta che, approfittando della fiducia della famiglia, avesse provato a soffiargli la proprietà del gruppo. Sta di fatto che i soldi con cui fu liquidato gli servirono per comprarsi la Olivetti, orfana di Adriano. Era un'azienda all'avanguardia, che per prima aveva costruito un personal computer, e aveva bisogno solo di un capitano che la sapesse condurre in un settore, quello dell'informatica, in piena espansione. Ma De Benedetti, che non è mai stato un industriale ma solo un finanziere, quella nave la timonò contro gli scogli. Perse occasioni formidabili, come quella di finanziare Steve Jobs, che conobbe quando era agli inizi, ma siccome lavorava in un box rifiutò di diventarne socio, perché che un genio fosse chiuso in un garage non gli pareva possibile. Così alla fine degli anni Novanta fu costretto a passare la mano, non prima però di aver speculato al ribasso sui titoli dell'azienda, conoscendo in anticipo i cattivi risultati, un giochetto che gli costò un patteggiamento per insider trading. A dire il vero, l'acquisto delle azioni di Olivetti, prima che si sapesse delle perdite di bilancio, non fu il solo guaio giudiziario di colui che oggi si erge a giudice dei comportamenti altrui, dando dell'imbroglione a chi giace in un letto d'ospedale. All'inizio degli anni Ottanta, conferendo le azioni di un'azienda decotta, entrò nell'azionariato del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, divenendone vicepresidente. Il sodalizio durò appena due mesi, giusto il tempo di litigare con un banchiere su cui già gravavano molte ombre, e incassare una plusvalenza di 40 miliardi. Ma quando la banca, che era già vicina al fallimento, finì in bancarotta, la liquidazione gli valse un'accusa di concorso in bancarotta fraudolenta e in primo grado fu condannato a 8 anni e 6 mesi di reclusione, pena che non scontò, perché arrivata dopo 16 anni in Cassazione, i giudici ritennero che la sentenza fosse sbagliata: il reato da contestare era un altro. Si chiuse così, per una questione procedurale, con una prescrizione e un bottino di 40 miliardi. Più tardi la magistratura sarebbe tornata a bussare alla sua porta, per le forniture alle Poste. Olivetti era riuscita a vendere all'azienda di Stato una montagna di telescriventi, macchine che di lì a poco sarebbero state da buttare, sorpassate dalla tecnologia. Per i pm, l'acquisto venne agevolato dal pagamento di tangenti e per questo De Benedetti finì agli arresti. Ci rimase poco, giusto il tempo di assaggiare il rigore della legge, ma passati alcuni giorni fu scarcerato e anche qui ad attenderlo dietro l'angolo c'era una prescrizione. L'ultima vicenda giudiziaria che lo sfiorò, ma senza farlo iscrivere nel registro degli indagati, risale a qualche anno fa, quando Matteo Renzi gli rivelò in anticipo che il governo avrebbe varato per decreto la riforma delle banche popolari. Uscito da lì, Cdb chiamò il suo broker, il quale investì in azioni degli istituti di credito, facendogli guadagnare in pochi giorni 600.000 euro. Quando la storia finì sui giornali, e in un fascicolo della Procura per insider trading, lui la liquidò con sufficienza: 600.000 euro per il suo portafogli erano da considerarsi noccioline. E poi perché stupirsi se uno abituato a speculare in Borsa riceve notizie riservate dal premier? Per lui le porte della politica sono sempre state aperte. Dopo aver commesso l'errore di iscriversi alla loggia Cavour del Grande Oriente d'Italia, De Benedetti capì che se voleva fare fortuna non doveva farsi amici i grembiulini neri ma quelli rossi, e così ha speso tutta la vita oltre che a far affari a ingraziarsi la sinistra, che poi si tratta dello stesso lavoro. Quando Romano Prodi era all'Iri, tentò il colpo grosso di farsi vendere per pochi soldi la Sme, ossia il settore agroalimentare di Stato. Lo fermò Bettino Craxi (che da lì in poi detestò), con una cordata capeggiata da Silvio Berlusconi (che da lì in poi odiò). Ma non fu il solo affare che il Cavaliere gli soffiò: l'altro fu la Mondadori, che l'Ingegnere credeva di essersi pappato e invece all'ultimo gli andò di traverso. Per questo, e per il precedente della Sme, gli dichiarò una guerra senza quartiere, trascinandolo in tribunale e usando il suo braccio armato, cioè Repubblica, lo strumento comprato a suon di miliardi da Scalfari e Carlo Caracciolo e usato come grimaldello con la politica, condizionandola e blandendola. La sua aspirazione era di dettare la linea ai governi, ma la storia è andata diversamente. Nonostante nel 1994, prima che Berlusconi si insediasse, gli sia stata regalata una concessione telefonica, del suo impero non è rimasto niente o quasi. Uscito leccandosi le ferite dalla scalata a Sgb (la holdings belga dov'era andato a fischiare la fine della ricreazione ma finì suonato e non durante la ricreazione), liquidata Olivetti, venduta Omnitel, passata a Nestlé la Buitoni, ceduta Repubblica e spazzata via con una montagna di debiti Sorgenia, a De Benedetti è rimasto solo il rancore. Celebre è lo scontro con Marco Tronchetti Provera, a cui rimproverò la gestione di Telecom. L'amministratore della Pirelli replicò facendo l'elenco dei fallimenti dell'altro e l'Ingegnere lo trascinò in tribunale per diffamazione. Finì con una sentenza che diede ragione a Tronchetti. Da allora, il suo curriculum è quello messo nero su bianco da un giudice. Altro da aggiungere non c'è se non che, oltre a invecchiare male, a volte si invecchia con arroganza e per quanto uno fondi un giornale che per rinverdire i fasti della propria storia si chiama Domani, per De Benedetti conterà sempre ciò che ha fatto ieri.
L'esercito polacco ispeziona il sito dopo che un drone russo ha danneggiato il tetto di un edificio residenziale a Wyryki, nella Polonia orientale (Ansa)
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast dell'11 settembre con Flaminia Camilletti
Il caffè di ricerca e qualità è diventato di gran moda. E talvolta suscita fanatismi in cui il comune mortale si imbatte suo malgrado. Ascoltare per credere.