Deportati, bonus e abusi: così affonda la Buona Scuola

Docenti che si accapigliano per un incarico, presidi che elargiscono assunzioni e (con i soldi nostri) premi in denaro, professori di ruolo che finiscono a fare i tappabuchi. E un algoritmo segreto che costringe a emigrare flotte di neoassunti. È partito così l'anno scolastico 2016-17, quello che doveva «segnare la svolta» e che invece vedrà, di nuovo, salire in cattedra almeno 20mila supplenti e gli studenti ancora stipati in edifici vecchi e ad altissimo rischio sismico. Non è il risultato di una bozza venuta male, è proprio La Buona Scuola, la riforma di Renzi applicata per filo e per segno. E già oggetto di migliaia di ricorsi.

Il principio è semplice: nessuno deve sentirsi garantito. Anzianità di servizio e continuità didattica sono finite nel rottamatoio, insieme ad una buona quota di regole che ordinavano le carriere del corpo docente. L'unico punto fermo è l'autonomia scolastica, un passepartout in mano ai dirigenti che, adesso, sulle sorti degli insegnanti fanno il bello e il cattivo tempo. Con La Buona Scuola i presidi decidono chi verrà assunto, hanno il diritto di cambiare idea alla fine del primo anno e il potere di interrompere il rapporto dopo tre. E, ancora, sono loro ad assegnare il bonus, un premio produzione come si fa nelle aziende che funzionano. Solo che qui, il denaro non viene dal portafogli dell'imprenditore e i parametri del successo non li fissa il mercato. Posto che il problema fossero, davvero, i docenti, l'idea di partenza era «innestare la meritocrazia nel sistema-scuola». Destrutturando anni di burocrazie garantiste. Adesso il metro del merito lo hanno in mano i dirigenti, in una struttura che, però, resta pubblica. Tipico ambiente, insomma, in cui il clientelismo italico può proliferare.

Il metodo a chiamata

In pratica funziona così: tutti gli insegnanti in attesa di primo incarico o di trasferimento (, esclusi quelli già di ruolo all'entrata in vigore della legge) vengono assegnati ad un Ambito Territoriale. Un recinto per anime in attesa, all'interno del quale non esistono più anzianità, punteggio o esperienza: la chiamata è personale e arriva direttamente dal dirigente scolastico, che assegna l'incarico a chi preferisce, «attraverso colloqui conoscitivi», come dice la legge. Così come viene assegnato, dopo un anno «di prova», l'incarico può essere revocato e dopo tre scade e deve essere rinnovato. Altrimenti si torna daccapo, aspettando di essere ripescati. E chi non viene scelto? A questi la Regione assegna un posto d'ufficio tra quelli rimasti liberi, che di solito non brillano per appetibilità. E non importa se per vent'anni sei stato di ruolo nel liceo più rinomato della città: se entri nel girone e non trovi un preside a cui andare a genio rimani lì, in attesa, come l'ultimo dei pivelli alla prima esperienza.

Di ruolo ma supplenti

Mettiamo il caso di un professore di lunga carriera, magari, proprio per questo, poco accomodante, finito, per sorte, nel calderone. Se non trova collocazione a chiamata diretta può essere assegnato ad una scuola qualsiasi e finire, magari, nell'organico di potenziamento, cioè in quella quota di professori che non hanno cattedra né alunni, ma servono sostenere progetti didattici diversi. Una parte del loro monte ore viene messo a disposizione per coprire le assenze improvvise e, dunque, può succedere che docenti di ruolo si ritrovino all'improvviso a fare i tappabuchi per le assenze dei colleghi, magari, a loro volta, precari.

Il bonus

E in una scuola così meritocratica, poteva mancare il riconoscimento in denaro? Con La Buona Scuola di Renzi, chi si distingue viene premiato con un extra sullo stipendio. A stabilire l'ammontare del bonus (che mediamente resta entro i 1.500 euro annui, ma che in realtà non ha limiti di elargizione) sono, ancora una volta, i dirigenti, secondo parametri che ogni scuola decide per sé, su indicazione di una commissione interna di cui fanno parte anche studenti e genitori. Se la scuola fosse privata, niente da dire: insegnanti migliori, più iscritti, entrate in crescita ed eccovi il premio. Ma qui i soldi (il plafond è di circa 200 milioni di euro) ce li mettono i contribuenti e nelle casse degli istituti ci finiscono non per meriti, ma in misura proporzionale al numero di allievi.

Abilitati ma bocciati

Nell'aprile 2016 il Ministero della Pubblica istruzione ha dato il via ad un concorso per il passaggio a ruolo dei precari già in servizio da anni. Sono 168mila i docenti che hanno partecipato e la conclusione delle prove, nonostante l'anno scolastico sia già cominciato, è ancora lontana. In più è successo un fatto inatteso: solo agli scritti, più della metà dei partecipanti è stato bocciato. Con un paradosso: i docenti decimati, oltre ad insegnare da tempo, erano già stati formati, selezionati e abilitati dallo stesso Ministero, che ora li giudica inadeguati. E per giunta pagando, all'incirca 3.000 euro per frequentare i tirocini formativi obbligatori per sperare nel posto fisso. Ora, visti i ritardi, gli stessi insegnanti (formati, abilitati e poi bocciati) sono già tornati in cattedra con l'inizio della scuola, come supplenti, per coprire i 23mila posti ancora vacanti.

Commissioni senza titoli

Ma chi sono questi rigidissimi esaminatori che, senza remore, hanno bocciato più della metà dei candidati? Tutti luminari della didattica? Non proprio o, comunque, non sempre. Inizialmente il ministero aveva stabilito che i commissari d'esame dovessero avere all'attivo almeno cinque anni di insegnamento di ruolo. Nello stesso tempo, però aveva pure deciso che gli esaminatori sarebbero stati pagati 0,50 centesimi a candidato. Una miseria che a lavori già cominciati ha fatto scappare centinaia di commissari. Il ministro Giannini ha promesso di alzare le retribuzioni e ordinato il reperimento di nuovi commissari, a prescindere dai requisiti. Dall'altra parte della cattedra, dunque, sono finiti neoassunti, precari e anche docenti appena bocciati alla prova scritta, quando non insegnanti interessati alle stesse cattedre per cui sono chiamati ad esaminare i colleghi. E, ovviamente, è stato il caos. Clamoroso, tra gli altri, il caso della Calabria, con zero ammessi agli orali per Filosofia e Scienze Umane e solo il 5% di promossi alle prove per l'insegnamento della Storia.

Abuso di precariato

È vero: tra i (pochi) meriti della riforma c'è quello di voler stabilizzare, al più presto, i docenti precari. La frenesia stabilizzatrice arriva, però, dopo anni in cui lo Stato italiano ha violato le norme europee sul lavoro che vietano la reiterazione dei contratti a termine oltre i 36 mesi. Il gioco è andato avanti anche spese dei cittadini (che hanno pagato la disoccupazione di migliaia di docenti per tre mesi ogni anno) fino a quando, nel febbraio 2014, su ricorso presentato dal sindacato Anief, è arrivata la sentenza della Corte Europea che ha condannato l'Italia per «abuso di precariato», con il rischio di una onerosa sanzione se non avesse provveduto quanto prima a rimediare. Detto fatto: nel 2015 un'infornata di docenti, assunti dalle graduatorie preesistenti, ha stabilizzato 120mila precari e, adesso, il concorso dovrebbe fare altrettanto. La questione però non si è chiusa: anche la Corte Costituzionale ha condannato la condotta dello Stato italiano e gli insegnanti che hanno subito ora cominciano a fare causa chiedendo pure il risarcimento danni.

Il caos trasferimenti

Da una città a un'altra, in ventiquattro ore, con mariti, mogli e figli a carico e, magari con un collega più giovane che ti soffia il posto vicino a casa. Per tutta l'estate le storie umane dei docenti trasferiti hanno tenuto banco e hanno fatto discutere. Da chi giura che per un posto di lavoro oggi andrebbe in capo al mondo, a chi ricorda che lo stipendio d'entrata di un docente supera di poco i 1200 euro al mese. In ogni caso gli scontenti sono tantissimi. La riforma avrebbe voluto gestire due flussi opposti e non ci è riuscita: da un lato la massa di supplenti che dal sud si era trasferita al nord negli anni scorsi e che, ora avendone la possibilità, ha chiesto di tornare a casa, dall'altro le migliaia di neoassunti (ma precari di vecchia data) che si aspettavano una destinazione compatibile con la vita privata. Per gestire la questione il Miur ha scelto di utilizzare un algoritmo misterioso, il cui funzionamento (non è uno scherzo) ancora oggi è tenuto segreto. A nulla fino ad ora sono valsi i tentativi dei sindacati, tra cui in particolare la Gilda, di conoscere, con un accesso agli atti, secondo quali criteri l'algoritmo sia stato impostato e quale sia l'azienda che ne ha curato il funzionamento.

Migliaia di ricorsi

Quello che è certo è che «con questa legge si sta ingrassando la categoria dei legali, sono loro gli unici a guadagnarci davvero» sostiene Fabrizio Reberschegg, della direzione nazionale del sindacato Gilda. Assegnazioni, trasferimenti, bocciature e mancate assunzioni: per l'anno scolastico 2016/17 le cause intentate da docenti contro il Miur potrebbero essere migliaia. «E a pagare sono sempre i contribuenti», sottolinea Reberschegg, «che con le loro tasse coprono anche le spese per l'avvocatura dello Stato che deve difendere i meccanismi di una riforma messa giù troppo in fretta».

E i presidi che fanno?

Presi di mira dai sindacati per le competenze che la riforma ha loro assegnato e in forte carenza di organico, nonostante siano tra i principali sostenitori della Buona Scuola, nemmeno i presidi se la passano così bene. In Italia su 8mila istituti ben 1500 sono, di fatto, senza guida e molti dirigenti ne devono reggere più di uno contemporaneamente. Come capita, per esempio, ad un preside della provincia di Asti che «quest'anno, si dovrà occupare contemporaneamente di 18 istituti» e che «nonostante questo non ha diritto a vedersi pagata la benzina», spiega Mario Rusconi dell'Associazione nazionale presidi. O come succede ad Amatrice e ad Accumoli dove gli istituti non rientrano nei parametri numerici dell'autonomia scolastica e le scuole appena crollate sono gestite da un dirigente di Rieti.

L'antisismica che non c'è

A proposito di Amatrice, le scuole italiane, lo sanno pure i sassi, sono a rischio terremoti. L'ultimo rapporto sulla situazione degli edifici di Legambiente, riferito al 2014, fornisce numeri inquietanti: non solo in tutto il territorio nazionale solo il 25% degli edifici scolastici ha eseguito le verifiche di vulnerabilità sismica, ma il 40% non ha nemmeno il certificato di agibilità e solo il 35% è dotato di un efficace sistema antincendio.

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